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Le Mével e i bretoni
Nati per correre in bici

Da Robic a Hinault, fino ai sei pro' nati in Bretagna al via del Tour de France. Le Mével: "Qui quando soffia il vento, cioè sempre, la pianura si trasforma in montagne. Arranchi per tornare a casa..."

Christophe Le Mével ha vinto a Varazze una tappa al Giro del 2005. Ap
Christophe Le Mével ha vinto a Varazze una tappa al Giro del 2005. Ap
BREST (Francia), 4 luglio 2008 - Orgogliosi come Jean "Testa di vetro" Robic: il giorno dopo il matrimonio salì in bici, fece un allenamento di sette ore, convinse i selezionatori a inserirlo nella squadra regionale dell’Ovest, e l’ultimo giorno di corsa, senza aver mai indossato la maglia gialla, conquistò il Tour. Era il 1947. Focosi come Bernard "Il tasso" Hinault: cinque volte primo al Tour (1978, 1979, 1981, 1982 e 1985), ma anche protagonista fisso del Prix Citron, il premio limone, riservato al corridore più acido con i giornalisti. Educati, disponibili e amichevoli come Christophe Le Mével: lui, Benoit Vaugrenard, Yoann Le Boulanger, Arnaud Gérerad, Lilian Jegou e David Le Lay sono i sei corridori bretoni di questo Tour, che celebra i suoi primi tre giorni di corsa proprio in Bretagna.
Ventisette anni, Le Mével è nato a Lannion, abita a Trédrez-Locuémeau, a un’ottantina di chilometri da Brest, ed è sposato con Laura Venezia, italiana di Nembro (Bergamo).
Com’è la Bretagna?
"Terra, mare e vento. Stanno tutti e tre in un simbolo celtico. Bretoni e celti hanno in comune, se non la terra, almeno mare e vento. E un carattere forte, di chi ha sempre dovuto lottare e poi adattarsi, accettare, convivere in situazioni difficili".
Per esempio?
"Il tempo. L’Atlantico porta nuvole, pioggia e freddo, anche d’estate. Poi però basta poco e il cielo si apre. Per poi richiudersi, quasi senza speranza. I francesi ci prendono in giro: in Bretagna piove sempre. Noi rispondiamo così: piove solo sugli stupidi. Cioè loro".
Francesi e bretoni: non lo stesso popolo.
"Siamo speciali. Qui, una volta, si pensava che finisse la terra: Finisterre. Abbiamo sempre avuto la nostra cultura, tradizioni, lingua. I cartelli stradali sono in francese e in bretone. Quando ci si saluta con affetto, a Parigi si scambiano tre baci, a Brest bastano due. E da noi non esistono le autostrade a pagamento. Una legge medievale permetteva alle carrozze tirate dai cavalli di transitare senza pedaggi. E questa legge è rimasta".
Da dove nasce la passione per il ciclismo?
"Forse i bretoni hanno il carattere dei corridori, e i corridori dovrebbero avere quello dei bretoni. Gente di mare, d’accordo, ma anche di terra. E quando soffia il vento, cioè sempre, la pianura si trasforma in montagne. In allenamento ti capita all’andata di volare e al ritorno di arrancare, disperatamente, verso casa".
Lei quando ha cominciato con il ciclismo?
"Da bambino facevo un po’ di tutto. A 14 anni mi sono dedicato alla mountain bike. E a 17, per migliorare con la mountain bike, ho iniziato ad allenarmi anche su strada. Un anno dopo ho partecipato al Mondiale di Valkenburg. Su strada".
Il suo primo eroe è stato un bretone?
"Macché, un italiano, Michele Bartoli. Davanti alla tv, nella Liegi-Bastogne-Liegi, mi affascinò il suo modo di pedalare. Elegante. Sembrava che non facesse neanche fatica".
Il suo primo insegnante?
"Bretone, non celebre, ma bravo. I suoi tre comandamenti: primo, non truffare; secondo, divertirsi; terzo, essere corretto con tutti. Gli stessi comandamenti che cercherei di trasmettere a un ragazzino che cominciasse adesso".
Ce ne sono?
"Meno di prima. Il ciclismo ha pagato dazio per colpa del doping. Ma si è finalmente presa la strada giusta: quella della pulizia. E’ previsto nel primo comandamento: non truffare. E anche nel terzo: essere corretto con tutti".
Domani prima tappa, da Brest a Plumelec.
"Non sono le mie strade di allenamento. Ma so che non ci si potrà distrarre un attimo".
Domenica da Auray a Saint-Brieuc.
"Un traguardo storico".
Lunedì da Saint-Malo a Nantes.
"Per velocisti".
Compito?
"Non vincere, ma far vincere il mio compagno Thor Hushovd, e aiutarlo ad arrivare a Parigi in maglia verde".
Speranze?
"Ho saputo che sarei venuto al Tour solo domenica scorsa, al campionato nazionale. E mi basta sentire l’aria di casa per essere felice. Perché i bretoni, anche se forti, hanno un debole: la nostalgia".
dal nostro inviatoMarco Pastonesi

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