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Mondini indica la strada
"La salvezza è nella testa "

A 31 anni, da campione italiano a cronometro, ha dovuto smettere. Dopo la morte di Fois ha scritto alla Gazzetta: "Lo sport è come la fede per un monaco, e può essere pericoloso se vissuto in modo assoluto. Ma voltare pagina si può"

Gian Paolo Mondini con la maglia di campione italiano a cronometro nel 2003. Ianuale
Gian Paolo Mondini con la maglia di campione italiano a cronometro nel 2003. Ianuale
MILANO, 7 aprile 2008 - Otto anni da professionista, dal 1996 al 2003. Undici vittorie, compresa una tappa al Tour de France. Anche 22 mesi di squalifica per doping, "presunto doping — specifica lui — e poi scagionato". E con la maglia di campione italiano a cronometro in carica, a 31 anni (un età in cui un fondista deve ancora dare il meglio), Gian Paolo Mondini non ha più trovato una squadra ed è stato costretto a smettere di correre. Oggi è uno studente-lavoratore: studente all’Università di Psicologia di Cesena, lavoratore nell’ufficio risorse umane in un’azienda. L’altro giorno ha scritto una lettera alla "Gazzetta dello Sport" in cui, prendendo spunto dalla morte di Valentino Fois, ha scritto che "lo sport mi ha segnato... Chi cresce praticando sport, vive in una maniera quasi assoluta per questa disciplina. E' come la fede per un monaco".
Mondini, il ciclismo l’ha segnata?
"Non potevo credere di dover smettere, addirittura da campione italiano. Stupito, sconfitto. Poi ho avuto la forza di voltare pagina".
Come?
"Mi sono iscritto all’università. Non aprivo un libro di scuola dai tempi del liceo scientifico. Però avevo sempre cercato di approfondire le mie conoscenze, sportive e scientifiche. E, già da corridore, avevo capito quanto fosse importante la preparazione mentale".
Perché?
"Era il 1998. Avevano visto che, ottenuti buoni risultati, tendevo a rilassarmi. Entrai in contatto con la psicologa Graziella Dragoni. Una collaborazione che continua ancora".
Lei sostiene che lo sport è come una fede.
"Lo sport, vissuto come un assoluto, è pericoloso. Perché si perde l’equilibrio con la vita, cioè la famiglia, con se stessi, con tutto quello che non è soltanto la propria disciplina. Lo sport spinge ad avvicinare, sfiorare, raggiungere, spostare i propri limiti. Ma così facendo, spesso si esagera. Perché, ad alto livello, è la testa a fare la differenza".
Cioè?
"E' quella che ti motiva, è quella che allevia la sofferenza, è quella che sposta la soglia del dolore".
I tecnici possono fare qualcosa?
"Non sono abbastanza preparati. Più facile vietare che proporre, più facile negare che spiegare, più facile dire 'non fare' che 'fa' così perché succede questo' ".
A che punto è con gli studi?
"Mi mancano due esami e la tesi. E' stato un percorso educativo importante, e importantissimo quando ho vissuto nella comunità Incontro, per il recupero dei tossicodipendenti. Un'esperienza forte. Un problema sempre più drammatico, perché oggi coinvolge anche le famiglie dei giovanissimi, quelli fra gli 11 e i 13 anni".
Lei ha conosciuto sia Marco Pantani sia Fois.
"Con Marco ho corso un anno. Ci siamo visti per caso a Milano Marittima dopo il suo ultimo Giro d’Italia, quello del 2003. Mi disse: 'Mi hanno sconfitto, mi hanno distrutto, io non ce la faccio più'. Poi è precipitato. Irraggiungibile. Con Fois ci siamo sfiorati, ma non siamo mai stati nella stessa squadra. E comunque non mi permetto di giudicarlo".
Il ciclismo è lo sport più a rischio?
"No. Anzi, forse il meno a rischio, perché è il più controllato. Quello che mi preoccupa è la scarsa professionalità delle squadre: non sono pronte ad accogliere, far esprimere e valorizzare le risorse degli atleti".
C’è ancora chi confonde il doping con le droghe.
"Due mondi diversi, due percorsi diversi. Al doping ricorri quando vuoi dimostrare quello che non riesci, quello che non hai. Poi ti giustifichi dicendo 'lo fanno tutti' o 'mi hanno detto' o 'mi hanno dato'. Alle droghe arrivi per sentirti bene, per divertirti, per non affrontare problemi o conflitti o difficoltà o scelte".
E la depressione?
"Non è un problema legato solo al ciclismo, anzi, è stata dichiarata la malattia del secolo. E negli Stati Uniti gli antidepressivi sono i farmaci più venduti. La depressione può anche essere un importante punto di partenza: se capisci, ne esci più forte. Ma ci vorrebbe sempre qualcuno capace di indicarti la strada giusta".
Lei sa qual è la strada giusta?
"Vorrei lavorare con i più giovani, dimostrare che lo sport è un percorso formativo, spiegare che il ciclismo è un’arte. La testa e il corpo, il lavoro e i risultati, la disciplina e la gioia, e quell’attimo in cui, proprio come succede agli artisti, ci si eleva. Spiritualmente".

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