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Damiani intercontinentale

Il corridore valtellinese racconta la sua vita sportiva a cavallo tra i continenti, l'Europa e le due Americhe, e tra0 due specialità, il cross e la strada: "Non mi fermo mai"

Luca Damiani corre negli Stati Uniti e in Europa
Luca Damiani corre negli Stati Uniti e in Europa
19 gennaio 2008 - "My name is Sheila", "The book is on the table", "How old are you?". Con queste solide basi linguistiche e culturali, Luca Damiani è atterrato all’aeroporto di Newark, New Jersey, carico per affrontare la sua seconda vita: americana. "Era l’ottobre 2006. Volo da Malpensa, in compagnia di Davide Frattini, ad aspettarci c’era la macchina della sua squadra, la Colavita, destinazione il Connecticut. E via".
- Prima corsa?
"Pochi giorni dopo, in un paese che si chiama Troy, cioè Troia. Ciclocross. Primo io, secondo Davide. E non ci eravamo messi d’accordo. Io con la maglia della squadra svizzera Fidibc. Premio per la vittoria di Troia: 200 dollari".
- Contratto?
"Pochi giorni dopo. Negli Stati Uniti ero andato a mie spese: viaggio, vitto e alloggio. Non avevo obiettivi particolari, se non quello di vedere com’era. Era interessante, divertente, fattibile. Tornato in Europa, ho fatto la stagione del cross, con campionato italiano, corse in Lussemburgo, la classica di Solbiate Olona".
- Poi?
"Ripartito per gli States. Ancora Malpensa-Newark, due giorni a casa del presidente della Colavita, poi Newark-San Francisco, 20 giorni di ritiro per preparare la stagione su strada, quindi ho cominciato a correre. La prima corsa ho fatto decimo, poi qualche piazzamento, poi la Vuelta del Cile, dove ho vinto la terza tappa, poi altre kermesse e qualche corsa Uci con piazzamenti fra i primi 10, un po’ di vacanza e ancora corse e circuiti, fra cui una 'series', sette gare in otto giorni, con un podio, il secondo posto tra i giovani e l’ottavo assoluto nella classifica generale".
- Finita?
"Macché. Periodo di allenamento a Livigno, e fine stagione con il Giro del Missouri e criterium a Las Vegas".
- Com’è fare l’italiano in America?
"Per amor di precisione il valtellinese, di Morbegno. Comunque è una vita affascinante, e ne sono contentissimo. Abito a Kutztown, vicino a Filadelfia, perché a 5 km c’è una pista famosa. Condivido un appartamento con due argentini, io faccio pasta e pizza, loro la carne, per le pulizie si rispettano i turni. Colavita produce pasta e olio e importa alimenti dall’Italia: ravioli, aceto balsamico, panettoni, anche il vino. E ogni tanto ci fa arrivare a casa uno scatolone".
- E le corse?
"E’ un mondo più semplice: fra i corridori ci sono meno primedonne, i media ti mettono meno pressione, la gente è entusiasta, i circuiti sono affollatissimi, spesso si corre di sera, luci artificiali, ingresso libero, una volta 60 mila spettatori. C’è chi porta sdraio, tavolini e borse-frigo, si organizzano barbeque. Prima del via l’inno americano, tutti in piedi, giù il casco e mano sul cuore".
- E la vita "on the road"?
"Cerco di limitare i danni. Niente fast food, anche se a volte è meglio mangiare un hamburger ben cotto a qualcosa che viene spacciata come pizza. Ma in genere l’organizzazione è buona: alberghi, aerei, pullmini. Pensavo che gli americani fossero più altezzosi. Mi sbagliavo. Sono aperti e ospitali. Perfino alla dogana. Mi avevano detto che i poliziotti ti fanno un sacco di menate, prende le impronte digitali e ti registra anche la retina. Tutto vero. Però, quando hanno controllato il mio visto lavorativo-sportivo, valido due anni, mi hanno fatto i complimenti".
- Non si chiede mai che cosa farà da grande?
"Io no, i miei genitori sì. 'Bella la vita!', commentano. E aggiungono: 'Non fai niente'. Come niente? Non mi fermo mai: stagione su strada là, cross qui. Vede, io ho cominciato a correre da giovanissimo, G4. Ma partecipavo e basta. Ho pensato di poter fare qualcosa da esordiente, i primi risultati sono arrivati da junior, intanto mi sono diplomato tecnico idraulico, perché nella vita non si sa mai. Ma finita la scuola, mi sono detto ’proviamo’, nel senso del ciclismo. Poi una cosa tira l’altra, ed eccomi qui".
- Come la chiamano gli americani?
" 'Luz show', ma è il soprannome che ha inventato il mio compagno di cross Marco Aurelio Fontana. I tifosi urlano ’go, spaghetti’. E si trova sempre qualcuno che vanta origini italiane, magari in Calabria o nelle Marche, e ti chiede — fiducioso — se conosci i suoi parenti".
- "My name is Sheila"... Damiani, adesso l’inglese come va?
"Al 90 per cento parlo e capisco, anche quello che dicono in tv. Per il restante 10 vado a intuito".

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