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Le regole d'oro di Cavallari

Quando la passione del padre contagia anche i figli: ecco la storia dei fratelli Cavallari. Stefano, pro' con l'Acqua & Sapone, racconta: "Il ciclismo è impietoso. Devi allenarti bene, riposare, non far tardi la sera. Ed essere cattivo in corsa"

Stefano Cavallari, ultimo a destra in maglia Barloworld, oggi corre con l'Acqua & Sapone. Liverani
Stefano Cavallari, ultimo a destra in maglia Barloworld, oggi corre con l'Acqua & Sapone. Liverani
MILANO, 11 gennaio 2007 - Il papà, che sapeva, non voleva. Roberto Cavallari, il papà, divorato dalla passione del ciclismo, seguiva una squadra di ragazzini. Così sapeva che per dedicarsi al ciclismo bisogna trascurare, se non rinnegare, tutto: dagli amici alle ragazze, dalla scuola alla famiglia. Perché se la bici entra nella tua vita, il resto è costretto a uscirne, o a rimanerne appeso, rischiando ogni volta di cadere. Ma papà Roberto, per quanto predicasse, avvertisse e minacciasse, è stato battuto dalla sua stessa passione. Che alla fine ha contagiato non uno, e neanche due, ma tutti e tre i figli: Fabio, Egidio e Stefano. Stefano, 29 anni, professionista dal 2004, corre per l’Acqua & Sapone.
Com’è andata?
"Lascia perdere, mi diceva mio padre. E spiegava quanto fosse ricco il calcio, divertente la pallavolo, completo il nuoto, varia l’atletica. Ma noi niente. Fabio ha corso fino agli juniores, Egidio ha fatto tre anni da dilettante poi è stato bloccato dalla schiena, io tengo duro".
E suo padre?
"Si è arreso. Non voleva che ci dedicassimo al ciclismo, perché temeva che saremmo finiti proprio nella sua squadra. E così è successo. Ma a quel punto ha cercato di darci le regole giuste per inquadrarci".
La prima?
"Uscire poco la sera".
La seconda?
"Tornare presto".
La terza?
"Allenarsi".
La quarta?
"Allenarsi seriamente".
La quinta?
"In corsa metterci un po’ di cattiveria. Ma la cattiveria buona, non la cattiveria cattiva".
Poi?
"Gli altri comandamenti sono arrivati dalla strada. E ce n’è uno decisivo: il rispetto. Il rispetto verso il capitano, i compagni e gli avversari. Il rispetto verso il pubblico. E il rispetto verso chi ti paga".
Il suo capitano?
"Stefano Garzelli. Correre per gente come lui è un onore. Perché Garzelli non è solo un campione, ma innanzitutto un signore. Lo scorso anno, al Trofeo Melinda, a tre chilometri dall’arrivo Garzelli, che non si sentiva la gamba per vincere, mi fa: "Vai". E così me la sono potuta giocare. Decimo".
Nel suo curriculum nessuna vittoria.
"Ma due secondi posti. Nel 2006, in Francia. Nella Chateauroux Classic, percorso nervoso, attaccato tutto il giorno, si rimane in una quindicina, poi ci siamo rotti ancora, rimasti in quattro, volata, secondo. Primo Sylvain Chavanel, campione di Francia".
L’altro secondo posto?
"Tre giorni dopo, seconda tappa del Tour du Poitou Charentes, la fuga parte a metà percorso su una salita, rimaniamo in sette-otto, ancora battaglia, rimaniamo in tre, volata, secondo. Primo ancora Chavanel. Niente da fare: era più veloce di me".
Sofferto?
"Sofferto sia fisicamente, perché in tutte e due le corse avevo dato tutto, sia moralmente, perché una sconfitta ti brucia dentro. Ti rimane sempre un dubbio: se avessi fatto così, se avessi fatto cosà, comunque avrei potuto giocarmela meglio. In quei casi una corsa di ciclismo si trasforma in una partita di scacchi: le gambe devono essere fresche, ma la mente deve essere fredda. Chi fa la mossa giusta, vince".
La sua mossa giusta?
"Attaccare da lontano, entrare nelle fughe, sperare di arrivare. Ma questo solo nei giorni di libertà. Di solito la mia è una vita da gregario. Che significa aiutare. E di questa vita, di questo ruolo, di questo lavoro sono molto orgoglioso".
Dal suo punto di vista, come si fa a dire che il ciclismo è bello?
"Se parlo di sacrifici, fatica e sofferenze, se parlo di zero vittorie in carriera, la gente scappa. Ma c’è dell’altro. La possibilità di conoscere posti, persone e se stessi. Spesso, in corsa, raggiungi i tuoi limiti. Certe volte devi superarli. Altre volte cerchi di avvicinarli con prudenza, con saggezza. E poi c’è la passione. Quella o ce l’hai o è difficile da spiegare".
Provi.
"Mi sono diplomato, perito meccanico, all’Itis. Ma sempre studiando poco. Perché la bici mi ha invaso la vita. Da grande non so ancora che cosa farò. Ma mi piacerebbe rimanere nell’ambiente".
Adesso suo padre che cosa dice?
"È contento. Lui ha smesso di allenare i ragazzi, ha un’azienda di autotrasporti, lavora lì. E mia madre è ancora più contenta. Se vede che un giorno non esco ad allenarmi, si preoccupa. Se si accorge che combatto con la pigrizia, mi spinge. Se vede che sono demoralizzato perché faccio fatica, mi coccola. Sì, sulla porta di casa c’è scritto Cavallari. Ma ci dovrebbe essere scritto Ciclismo".

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