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Fanelli, mancava solo lui

Papà dilettante, fratello professionista e sorelle sulla bici: a undici anni è scoppiato l'amore: "Ho sempre corso per squadre Continental, che significa gare in giro per il mondo. A chi mi dice che il doping va provato, rispondo che in Puglia si fa con i meloni"

Fanelli (sin.) vince in volata una tappa del Giro d'Abruzzo. Archivio
Fanelli (sin.) vince in volata una tappa del Giro d'Abruzzo. Archivio
MILANO, 7 gennaio 2008 - Papà dilettante: "Mai riuscito a passare professionista". Fratello professionista: "Qualche vittoria su strada, qualche titolo su pista". Anche le due sorelle pedalavano, in bici, mentre la mamma pedalava forte, ma nella vita. Inevitabile che la passione contagiasse anche lui, Ivan Fanelli. "Era il 1990, il Giro partiva da Bari. Quei colori, quelle luci, quel movimento, quella musica. La gente impazziva, assediava Bugno e Cipollini per conquistare il loro autografo. M’innamorai del ciclismo. Non avevo neanche 12 anni".
Prima?
"Già correvo. E già avevo vinto. A Irsina, in Basilicata, circuito paesano. Una quindicina al via, in due sul rettilineo finale, volatina, primo. Ero giovanissimo, categoria G3. Me la ricordo come fosse stamattina".
Poi?
"Sono dovuto emigrare in Toscana. Esordiente da tesserato, allievo e junior in ritiro d'estate, dilettante in continuo viavai, l'ultimo anno ho ceduto e ho preso un appartamento in affitto. Adesso abito a Calcinaia, vicino a Pontedera, e a Triggiano torno solo una settimana l'anno, se posso, quando posso".
Professionista dal 2003.
"Primo anno e prima vittoria. Giro di Stausee-Klignau, in Svizzera. Un arrivo di quelli che piacciono a me: in leggera salita. Volatona generale. Dico la verità: non me l'aspettavo. Perché è vero che era una corsa di secondo livello, ma è anche vero che vincere non è mai facile. Me ne sono accorto dopo".
Quando?
"Ogni volta che perdo. E più sfioro il primo posto, più ci rimango male. Giro dell'Estremadura 2007, un arrivo di quelli che piacciono a me, a 20 metri dal traguardo Vicioso mi salta e vince. Era alla mia ruota e, lo confesso, non l'avevo proprio visto. Altrimenti avrei aspettato a scattare".
La sua strada?
"Ho sempre corso per squadre Continental. Che significa: gare in giro per il mondo. Giro del Venezuela: alberghi belli, ma sulle strade buche larghe tre metri per due, dei crateri, una ogni 300 metri, traffico bloccato ma sempre un occhio al codice stradale, se vai in fuga è meglio tenere la destra. Giro del Marocco, Giro della Serbia, Giro dell’Istria...".
Problemi?
"Correre è sempre un piacere. I problemi, a volte, stanno intorno al correre. Il Venezuela è l'unico Paese dove si può mangiare la pasta, in bianco, tranquillamente, altrimenti meglio pane e riso. Acqua rigorosamente in bottiglia. Verdura cotta. C'è sempre il pericolo di diarrea, salmonellosi, infezioni... In Polonia si va avanti a wurstel. Torni in Italia e hai il fegato a pezzi".
Però?
"Però questa vita da zingaro purtroppo mi piace. Altrimenti non la farei. Il livello delle corse è comunque alto: mai visto una corsa dove si vada piano. In Venezuela ci sono corridori sconosciuti, anonimi, ignorati, che volano, poi arrivano in Italia e diventano fenomeni. Semmai questa vita da zingaro piace un po' meno a Elena".
La sua fidanzata?
"Ci siamo conosciuti quando ero ancora dilettante. Il fascino dell'atleta mi ha aiutato. Ma anche lei era un'atleta: concorsi ippici".
Lei, Ivan, fa anche il cross.
"Ho chiesto il permesso alla mia squadra, la Cinelli, che mi ha dato l’ok. L’ok significa due cose: primo, cerca di non farti male per non compromettere la stagione su strada; secondo, arrangiati. Così faccio tutto a mie spese: allenamenti, viaggi, alberghi. Siccome ho appena venduto la mia macchina, una Bmw, al campionato italiano sono andato con la Seicento Fiat di Elena. Io e mio padre, due bici, due paia di ruote e due borsoni. Mi volevano premiare solo per quello che ci abbiamo fatto stare dentro".
Invece?
"La corsa è stata un sacrificio. Da stradista, avrei preferito l'asciutto. Ma siccome pioveva, avrei preferito che continuasse a piovere. Finché continua a piovere, il fango è morbido. Ma quando smette di piovere, si attacca da tutte le parti: alle ruote, alla catena, soprattutto ai piedi. E da terra non ti scolli più. Alla fine 13° assoluto, 7° nell'Elite".
Deluso?
"Spero ancora di essere convocato per i Mondiali. Non per i soldi, ma per l'onore. Nel cross si campa con poco. Chi vince i Tricolori ha un premio neanche di 300 euro. I premi arrivano fino al decimo. Agli altri un arrivederci e grazie. Chi vince una gara nazionale non arriva a 100 euro. Ma c'è altro nella vita".
Per esempio?
"Il ciclismo, appunto, se non fosse per quello che dicono su di noi: che siamo tutti drogati".
E lei che cosa risponde?
"Che il doping è un problema in tutti gli sport. Solo che il ciclismo lo combatte con un'infinità di controlli e sta ripulendo l'ambiente, gli altri sport lo combattono meno".
Lei si è mai dopato?
"Mai".
Ha mai avuto la tentazione?
"Tutte le volte che mi staccano, e succede spesso: in salita e anche in pianura".
Gliel'hanno mai proposto?
"Proposto sì, litigato anche. A chi mi dice 'bisogna provare', rispondo che ’la prova si fa ai meloni'. Che da noi, in Puglia, sono le angurie".

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