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Angeloni, ciclista per caso
"Che fatica, ma se vinci..."

Nato nella terra del rugby, ha preferito una vita da "ribelle": "La prima bici me l'ha regalata Babbo Natale, poi con mio padre ho cominciato a correre. Cosa ho imparato? Che per vincere devo staccare tutti e che la fatica è tanta, ma quando arrivi primo sei ripagato di qualunque sforzo"

Angeloni, 25 anni, al Giro del Brenta. Soncini
Angeloni, 25 anni, al Giro del Brenta. Soncini
FRASCATI (Roma), 30 dicembre 2007 - Una città ovale, Frascati. Nel senso del rugby. Popolo di piloni e centri, dove l’estremo non è un punto o un momento, ma il numero 15, ultimo difensore e attaccante in più. Chi nasce a Frascati può scegliere se crescere come avanti o trequarti. Di solito la scelta dello sport si ferma lì. Invece Adriano Angeloni ha una storia, frascatana, da ribelle.

Primo sport?
"Nuoto. Da due anni e mezzo a cinque. In piscina a sguazzare e schiamazzare, tuffarmi e sbracciarmi, divertirmi. Mi ha fatto un gran bene. Lo consiglierei a tutti".

Quindi?
"Scherma. Da cinque a 15 anni. A Frascati esiste una scuola di scherma, con fior di campioni. Ho vinto anche un titolo regionale, nella spada. E tanti podi. A livello nazionale, invece, era più dura. La scherma forma la personalità, insegna il duello, esalta l’1 contro 1".

Poi?
"Il ciclismo. Dall’1 contro 1 sono passato all’1 contro tutti. In bici ci andavo già da piccolo. La prima bici me l’ha regalata Babbo Natale: una Messina, gialla, da mountain bike. Le prime biciclettate me le ha regalate mio padre, cicloturista della domenica. Mi mettevo dietro a lui, o di fianco a lui, per paura di essere travolto dalle macchine".

Infine?
"A 16 anni ho messo il mio primo numero sulla schiena. Era una corsa organizzata dalla mia società, la Guazzolini-Coratti, un circuito da ripetere tre o quattro volte a Roma. Pioveva a dirotto. Sono caduto tre volte, per tre volte mi sono rialzato e ho inseguito, e ho finito nel primo gruppo. Quel giorno ho imparato la prima lezione: per correre dovevo faticare".

Spaventato?
"Macché: avvertito. Lo stesso anno, in luglio, ho vinto la mia prima corsa a Ronciglione. Da solo. Quel giorno ho imparato la seconda lezione: per vincere dovevo staccare tutti".

Felice?
"A pensarci adesso, era proprio bello. Si andava via la domenica mattina, in macchina, con dirigenti o direttori sportivi o genitori. Maglia gialla, bici celeste Liberati, corse nel Lazio, un centinaio di partenti. Adesso mi dicono che per correre bisogna emigrare in Toscana perché ci sono meno corridori".

Quando si è detto "ci provo"?
"Mi sono diplomato perito elettronico. Dura, però. Tornavo a casa, alle 14 saltavo sulla bici, alle 17 ne scendevo, e quel po’ di passione per lo studio l’avevo lasciata per la strada. Comunque, puntavo al 60 centesimi, ne sono uscito con 65: un trionfo. E forte di quel trionfo, mi sono dedicato solo al ciclismo".

Quando si è detto "ce l’ho fatta"?
"Quando ho firmato il mio primo contratto, due anni fa, con la Flaminia. Prima solo tante promesse, anche se nel 2005 ho vinto il titolo italiano Under 23. Tre settimane in ritiro, con Chioccioli, in Valdarno. Sapevo di essermi preparato bene, ma da lì a vincere ce ne vuole. Anche di fortuna. Era andata via una fuga, buona, di una trentina. Ci sono entrato da solo. Dopo è andato via un gruppetto di una decina, e io dentro. A una sessantina di chilometri siamo rimasti soli io e Ricciardi. A una decina di chilometri, su uno strappo, l’ho staccato".

Quest’anno ha conquistato la prima vittoria da professionista.
"Al Giro del Medio Brenta, più o meno nella stessa maniera. Fuga dall’inizio, via in una trentina, poi su una salita la selezione, rimasti in otto, due della Flaminia, D’Aniello e io. A Toni ho detto: io ci provo, se poi mi riprendono, ti tiro la volata. Mi è andata bene: 25 chilometri da solo, all’inizio mi lasciavano cuocere a 20-25", alla fine hanno mollato, e ho vinto con più di 1 minuto".

Lei è giovane: non ha neanche 25 anni.
"Per questo non mi pongo obiettivi particolari. Mi basta far vedere che ci sono anch’io. Ma per farlo, devo andare forte. Il guaio è che la pensano tutti così".

Il professionismo è davvero un altro mondo?
"Di più: un altro pianeta. A cominciare da un altro ritmo: non solo in pianura e in salita, ma perfino in discesa. Però, siccome noi corridori siamo abituati a lottare, allora lotterò".

Fatica, lotta... Che cos’altro insegna la bici?
"I giorni di soddisfazione sono pochi, ma quei pochi ripagano alla grande sacrifici e sofferenze. La bici è così: quando stai bene, vai dappertutto, ti diverti, ti sembra bello anche fare fatica. Ma quando stai male...".

Quando stai male?
"Non vai neanche a spinta. Dipende anche dalla salute. Nel 2006 ho preso la mononucleosi, nel 2007 la polmonite. Stai fermo, prendi gli antibiotici, ricominci da zero, sali sulla bici e ti è così estranea che giureresti appartenere a qualcun altro. È la bici che ti manda a quel paese. Invece controlli ed è proprio la tua".

Adesso?
"Sono stato in vacanza a Santo Domingo, ho ripreso la preparazione nella seconda metà di novembre, subito bici e mountain bike. A Roma non fa mai veramente freddo".

Un sogno?
"Il Giro del Lazio. Da piccolo andavo a vedere i corridori che passavano nei Campi di Annibale, a Rocca di Papa. Quel fruscio delle ruote mi è rimasto nella pelle".

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