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Simoni e il terzo Giro
La sfida del Guerriero

A 36 anni Gibo preparerà l'assalto alla terza maglia rosa al fianco del suo vecchio rivale, Alessandro Bertolini: "E' la corsa che amo di più, vincerla ancora mi darebbe una gioia incredibile"

Gilberto Simoni, 36 anni, ha vinto il Giro nel 2001 e nel 2003. Reuters
Gilberto Simoni, 36 anni, ha vinto il Giro nel 2001 e nel 2003. Reuters
MILANO, 19 novembre 2007 - Il Guerriero si riposa. Riprenderà la bici dopo Natale. "Ma non sto fermo. Famiglia, casa e mille cose. Sono sei mesi che devo fare il tagliando alla macchina". Era in giro per il mondo, e quando non era alle corse, la mente continuava a misurarsi, prevedere, immaginare, lottare, confrontare e confrontarsi, sfidare e sfidarsi, insomma: gareggiare.
A 36 anni, Gibo Simoni si prepara a un nuovo anno. Non si sente vecchio?
"L’età, quella segnata sulla carta d’identità, è indicativa. Conta ai fini legali, non sportivi o, almeno, non a quelli agonistici. Ci sono tanti giovani più vecchi di me. Non c’è un’età che corrisponda esattamente agli anni vissuti. Dipende. L’età te la crei. Così come ti crei i limiti. Penso a me stesso un anno fa. Sinceramente, non credo che sia cambiato qualcosa. Nel corpo no, nella testa forse sì, ma in meglio".
Quanto vuole correre?
"Vedo, di anno in anno. Ma vedo anche Silvano Janes, 50 anni e passa, lo spirito di Peter Pan, un’allegria contagiosa, una vitalità istintiva, e la paura di niente. Non ha paura della fatica né della concorrenza, non ha paura della salita e neanche della discesa, non ha paura di me e neanche di Alessandro Bertolini, tanto per dire due che pedalano spesso insieme con lui. Io dico che è un fenomeno. Ha scoperto la bici tardi, ma non finirà più. Fatto per andare in bici. Ha il gusto della sfida".
Anche con lei?
"Janes ama dire: "Li ho fatti smettere tutti". E cita i casi di Francesco Moser e Maurizio Fondriest, perfino di Gianni Bugno, che a un certo punto si allenava in Trentino. Janes aggiunge: "Manchi solo tu". Con un tono affettuosamente minaccioso".
Lei e Bertolini, appunto, e adesso per di più compagni di squadra.
"Fin da piccoli ce ne siamo fatte di tutti i colori. Era nata una rivalità sfociata quasi nella guerriglia. Impossibile stabilire chi fosse il migliore. Da professionisti abbiamo cominciato fra mille dubbi: ci aspettavamo di più, invece si lottava soltanto per stare in gruppo. E ci disintegravamo a forza di allenamenti. Negli ultimi anni non ho fatto neanche la metà dei chilometri e delle salite pedalate a quel tempo. Le nostre carriere si sono incontrate nel 1997, poi sono tornate parallele. E ognuno ha trovato la sua strada".
Vi allenate insieme?
"Spesso, almeno negli ultimi tempi. Il mercoledì è il giorno sacro, dedicato alla distanza. C’incrociamo sulla strada del vino, poi si prosegue insieme. Bisognerebbe andare al medio, allegri. Invece succede che, se uno rimane indietro, magari solo per mettersi o sfilarsi la mantellina, l’altro non resiste alla tentazione e allunga, attacca, costringendo a forzare, inseguire, spremersi. Insomma, giochiamo, e allo stesso tempo ci stimoliamo".
Voto al 2007?
"Ho sempre pensato ad alzare le braccia. Che nel ciclismo non è il segno della resa, ma della vittoria. Voglio dire: ho sempre corso per vincere. E la vittoria sullo Zoncolan mi ha dato una grande felicità. Mi mancava da due stagioni, e ne sentivo la mancanza. Se ripenso al Giro, ammetto di aver gettato al vento il terzo posto nella tappa delle Tre cime del Lavaredo. Quel giorno ho seminato zizzania e ho raccolto tempesta. Di Luca ha barcollato ma non ceduto, Andy Schleck c’era, Cunego non mi faceva paura, ma ho commesso l’errore di lasciar andare via Mazzoleni".
Lei non ha mai corso per piazzarsi, o no?
"I piazzamenti non mi piacciono. O primo o niente. Se guardo indietro, belle vittorie, tanti secondi posti, il resto era solo perché avevo mollato. Più di testa che di gambe".
Progetti?
"Due: Giro d’Italia e Mondiale marathon nella mountain bike. Al Giro penso di poter essere ancora competitivo. Non posso dire se arriverò primo, secondo o terzo, ma so che starò davanti. E spero che il percorso proponga qualche arrivo in salita. Il Giro è la corsa che amo di più: è quella che mi ha fatto cominciare a correre, quella che ha dato un senso e una dimensione alla mia carriera. E mi prende. La prima vittoria è stata una gioia, la seconda una gioia ancora più forte. Non oso immaginare quanta gioia possa darmi una terza vittoria".
La mountain bike?
"La specialità marathon è quella che più assomiglia alla strada: un po' per la lunghezza, un po' per lo sforzo. La mountain bike mi diverte, mi appassiona, mi tiene in forma, mi ha anche regalato la soddisfazione di un titolo italiano. Poi mi piace l’ambiente: è ancora semplice, genuino, casereccio, dove tutti partono da zero. Il 2008 è anche l’anno dell’Olimpiade di Pechino, dove la marathon non si corre, ma il cross country sì. Però è una specialità più tecnica".
Giovani? Eredi?
"Ivan Basso mi ha deluso, come uomo e come corridore. Damiano Cunego non può più essere considerato un emergente: deve solo confermarsi. Al primo posto metto Riccardo Riccò: l’ho avuto come compagno di squadra, so quanto vale, ha un carattere vincente, forse a volte è troppo schietto, sarebbe meglio che frenasse la lingua, ma quella caratteristica ce l’ho anch’io, e ne pago le conseguenze. Poi metto Vincenzo Nibali e Giovanni Visconti. Ma non li conosco bene come Riccò".
Simoni, cambierà qualcosa nella preparazione?
"Forse sì. Una preparazione più mirata. Lavorare sempre, cercando di sbagliare il meno possibile. Non trascurare nulla. E tenere di testa. Adesso vi saluto. Vado a fare il tagliando alla macchina".

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