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Bertogliati, ciclista-evasore

Con la bici, il 28enne svizzero della Saunier Duval-Prodir ha aperto gli occhi sul mondo. E' stato anche maglia gialla al Tour, nel 2002, ma non è cambiato. Il problema è sempre lo stesso: convivere con gli alti e bassi

Rubens Bertogliati, 28 anni, nell'unico giorno in giallo. Ap
Rubens Bertogliati, 28 anni, nell'unico giorno in giallo. Ap
MILANO, 10 novembre 2007 - Essere o non essere: non è questo il problema. Tant'è che Rubens Bertogliati, 28 anni, svizzero, l'ha già risolto: essere, ovviamente, essere un corridore e, prima ancora, essere un uomo. Perché finito il corridore, rimane l'uomo. Il problema, dice Bertogliati, è un altro: convivere con gli alti e i bassi.
L'alto?
"Il quarto posto nella classifica finale del Giro della Georgia. E' vero che sono entrato nella fuga giusta, ma le gambe c'erano, e cantavano, e così sono riuscito a mentenermi ai piani alti. Bella la Georgia, mossa, colline massimo di 1500 metri, c'era un arrivo in salita, sette chilometri di cui gli ultimi quattro con una pendenza media del 15 per cento, mi è sembrato un piccolo Zoncolan. E bello è anche il modo di correre e interpretare la corsa: cioè, non esiste solo la corsa, ma c'è tutta una festa che le gira attorno. La maggior parte della gente non s'intende di ciclismo, ma gli organizzatori ci tengono alle presentazioni, e ogni mattina si partiva con tutti i grandi e tutte le maglie in testa al gruppo".
Il basso?
"Il ritiro al Giro d'Italia. Era il giorno delle Tre cime di Lavaredo, quando ha vinto il mio compagno Riccò. Avevo 38 e mezzo di febbre. Faceva freddo, pioveva, poi faceva ancora più freddo, e nevicava. Non ce la facevo proprio. Detesto ritirarmi. Se posso, arrivo fino in fondo. Per rispetto verso gli spettatori, ma anche verso i miei sacrifici. Quest'anno è stata l'unica volta, ma dolorosa".
Bertogliati, com'è arrivato alla bici?
"Per caso. Vengo da una famiglia dove prima veniva l'educazione, poi l'educazione, e poi e poi e poi lo sport. Senza sapere, forse, che lo sport è una faticosa e divertente forma di educazione. Il mio passatempo era andare in bici sul prato. Un giorno ho visto una corsa in tv. Era il Tour de France 1991, il primo dei cinque vinti da Indurain. Lì andavano su strada, e mi sembrava che andassero molto più veloci di me. Ho voluto provarci. Ho applicato sulla bici la targhetta, che in Svizzera è indispensabile per l'assicurazione, ed era proprio così: sull'asfalto si volava".
Poi?
"Dalla bici non sono ancora sceso. Il giorno in cui ho vinto la prima tappa del Tour - era il 2002, a Lussemburgo, secondo Zabel e terzo McEwen - e indossato la maglia gialla, mi è sembrato che non ci fosse nient'altro da desiderare nella vita. Forse è per questo che amo il Tour: quel modo di combattere in corsa dal primo all'ultimo giorno, quella gente ai bordi della strada, quella possibilità di cambiare vita con una vittoria".
A lei è cambiata?
"No. Ed è una fortuna: amavo il ciclismo, lo amo ancora. Certo mi ha reso la vita più semplice. Ma fino a un certo punto: vincere è difficile, rivincere è difficilissimo. Perché c'è sempre il caso. Il caso può essere più o meno favorevole, e anche sfavorevole. Quest'anno ho sfiorato la vittoria almeno tre volte: nella prima tappa del Giro del Benelux, al Giro della Georgia e anche alla Japan Cup. Pazienza. Ci riproverò il prossimo anno. Qualunque corsa sia".
Ma il caso vale per tutti.
"Sì, ma per alcuni vale ancora di più. E così è per tutti quelli che, come me, non sono grandi specialisti. Con il tempo mi sono convinto che il caso sfavorevole è sempre in agguato, quello favorevole si nasconde benissimo, e così, quando appare, devo farmi trovare lì pronto, preparato. Oppure devo cercare il caso andando in fuga, al primo chilometro o all'ultimo. Meglio all'ultimo. Fatichi da morire, ma per un minuto. Certe fughe da lontano sono una morte lenta, un'agonia".
Ricorda una di queste agonie?
"Tour de France 2001, la tappa che si concludeva sull'Alpe d'Huez dopo aver scalato due montagne. Andai in fuga, ma dietro. Quel giorno vinse Armstrong, in sette ore e mezza. Io arrivai 50 minuti dopo".
Che cos'è, per lei, la bicicletta?
"Una finestra: la possibilità di aprire gli occhi sul mondo. La bicicletta mi è sempre servita per uscire, evadere, sconfinare, per andare al di là. Calcio, basket, rugby, pallavolo...: sport tutti belli, ma limitati a un campo. Invece il nostro campo è la strada, la gente, la vita".

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