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Possoni vede solo rosa

Continua il viaggio tra i volti meno noti del gruppo: oggi tocca allo scalatore che passerà dalla Lampre alla T-Mobile. "Per noi italiani il Giro è il massimo. Mi basta una tappa, una sola tappa e sarò felice"

Possoni e Cunego durante un allenamento sullo Zoncolan. Bettini
Possoni e Cunego durante un allenamento sullo Zoncolan. Bettini
MILANO, 5 novembre 2007 - Gli scalatori li riconosci dalla faccia, antica, dalle ossa, appuntite, dal corpo, aeronautico. Gli scalatori li riconosci, più che dalle gambe, dalle braccia, sottili. Gli scalatori li riconosci perché, tra il parlare tanto e il parlare poco, preferiscono stare in silenzio. Morris Possoni è uno scalatore: 23 anni, bergamasco di Ponte San Pietro, un metro e 73 per 58-59 chili, diplomato operatore meccanico, professionista di ciclismo dalla fine del 2005. La sua scalata nel professionismo? "Due anni nella Lampre-Fondital. Il primo anno ho imparato a correre. Quando passi pro', per correre corri, ma non sai correre. E' un livello più alto: più difficoltà, più medie, più concorrenza, più doveri. I dirigenti ti rassicurano: non devi avere fretta. Però tu qualche domanda te la fai, per esempio ti chiedi se nel gruppo ci puoi stare, e se riesce a starci, con quale ruolo. All'inizio, ovviamente, con il ruolo di osservatore e, potendo, di aiutante".
Poi?
"Non sono il tipo che chiede qualcosa agli altri, ma sono il tipo che pretende molto da se stesso. Così il primo anno ho cercato di guardare, osservare, studiare, copiare, imparare. E di aiutare. Alla Lampre-Fondital il capitano è Damiano Cunego. Quindi il mio compito era quello di stargli il più vicino possibile, e il più a lungo possibile, in salita".
Il secondo anno?
"Capito che nel gruppo ci potevo stare, ho cercato di intuire quali fossero le mie possibilità. A 22-23 anni si è ancora giovani, acerbi, immaturi. Nel ciclismo cresci con il tempo. Così, piano piano, corsa dopo corsa, capisci quali sono i watt del tuo "motore". E questo te lo rivelano soltanto le corse".
Nel 2007?
"Tante corse a tappe: dalla Settimana internazionale Coppi & Bartali, quinto nella classifica finale, al Catalogna, dal Delfinato al Brixia, dal Giro dell’Austria a quello di Germania, infine la Vuelta. L’ultima corsa dell’anno è stato il Lombardia. Tutto il giorno in fuga, preso negli ultimi 30 chilometri, comunque arrivato in fondo. Un buon lavoro per Damiano, che poi ha vinto: con me davanti, dietro la squadra poteva stare tranquilla"
Stare vicino al capitano o andare in fuga: che cosa preferisce?
"Sono due modi di aiutare. Andare in fuga dà più soddisfazione. La fuga è un’avventura. E' vero che bruci energie fino a esaurire anche le riserve, così quando la corsa s'incendia, tu sei rimasto senza "benzina". Però nel ciclismo non si sa mai. Magari dietro ti lasciano andare, o ti sottovalutano, e allora tu te la giochi".
Adesso lascia la Lampre-Fondital e va alla T-Mobile.
"E' nata questa possibilità, l’ho valutata, ho detto di sì. Cambiare per migliorare, cambiare per scoprirsi, cambiare per imparare. Non si finisce mai. Un'esperienza all’estero, anche se poi la mia attività dovrebbe privilegiare l'Italia, non può che fare del bene".
Il suo sogno?
"Vincerne una. Non importa quale: vanno bene tutte. Ma se proprio potessi scegliere, allora una tappa del Giro d’Italia. Per noi il Giro è il massimo della vita. Vede, io da piccolo giocavo a calcio. Poi ho scoperto la bicicletta, e da quel momento non l'ho più lasciata. A calcio ero difensore, nel ciclismo sarei attaccante. Sempre che i giochi di squadra me lo permettano".
Intanto?
"Venti giorni di stop, poi palestra, camminate in montagna e bici. La mountain bike no: per me è come un altro sport. D'inverno si ricaricano le batterie, fisiche e mentali. Perché ci vuole tanta forza nelle gambe, ma ancora di più nella testa".

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