Rocchetti sale in ammiraglia: «Voglio aiutare i ragazzi a non commettere i miei stessi errori»

Rocchetti
Filippo Rocchetti, direttore sportivo della Zalf
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Filippo Rocchetti non è mai stato tanto vicino al professionismo quanto nel 2016. Al secondo anno tra gli Under 23 aveva già ampiamente dimostrato il suo valore: soltanto quella stagione fu sesto al Liberazione, quarto a San Vendemiano, secondo al Piave, primo al De Gasperi, terzo nella prova in linea dei campionati italiani e a Poggiana, ancora primo al Trofeo Delio Gallina.

Ma quell’opportunità, purtroppo, non si concretizzò. Anche per colpa sua, si capisce. Un episodio spiacevole, del quale si è sempre assunto l’intera responsabilità e sul quale, tuttavia, non vuole più tornare. Ma ormai quel che è fatto è fatto.

Filippo, è in quel momento che hai perso la possibilità di passare professionista?

«Diciamo che non ero mai stato tanto vicino a farcela quanto in quel momento. Non chiedetemi la squadra o i nomi coinvolti, ci sono stati diversi screzi e sinceramente ormai sono passati quasi sei anni. Quell’errore l’ho scontato a caro prezzo, basta un attimo per perdere tutto quello che di buono si è costruito». 

Credi che si sia esagerato nei tuoi confronti?

«Per quell’episodio ero indifendibile, però in generale sono state dette tante cattiverie nei miei confronti. Per diverse settimane consecutive non uscivo dai primi cinque e in pochi mi dicevano bravo. Non appena succedeva, perché magari dovevo scaricare in vista di un obiettivo importante, tutti mi saltavano addosso: ecco, ha mollato, non fa la vita del corridore. Soltanto io so i sacrifici che ho fatto».

Qual era quello che ti pesava di più?

«A dire la verità nessuno. Io avevo un solo obiettivo: essere il migliore tutte le volte che mi era possibile. Avevo questa motivazione che mi guidava e quindi riuscivo a superare qualsiasi difficoltà».

Filippo Rocchetti vinse la Piccola Sanremo nel 2018 (foto: Scanferla)

Vincevi, eri determinato: possibile che tu non sia passato professionista soltanto per quella vicenda?

«Non ho mai capito perché non son passato professionista, sono sincero. Di certo quel fattaccio ha influito, però non può essere l’unica spiegazione. Fin da quando ho cominciato a pedalare ho sempre vinto, tra l’altro nelle categorie giovanili ci riuscivo senza allenarmi più di tanto. Infatti, non appena arrivai tra i dilettanti, capii che il ciclismo sarebbe potuto diventare il mio lavoro: mi difendevo bene e sentivo d’essere fresco, di avere ancora tantissimi margini di miglioramento».

Hai corso (e vinto) tanto con la Zalf quanto con la Colpack, le due storiche realtà dilettantistiche del ciclismo italiano. Cos’ha significato per te?

«Innanzitutto enorme soddisfazione, per il blasone delle squadre e per ripagarle della fiducia che mi hanno sempre dimostrato. Ho trovato delle belle persone e dei validi professionisti, non poteva andarmi meglio. Hanno due approcci diversi. La Colpack guarda anche fuori dalla Lombardia e non si fa problemi ad ingaggiare il potenziale campione di turno. La Zalf, invece, punta molto di più sul gruppo e sulla vicinanza geografica: non a caso la maggior parte dei ragazzi viene dal Veneto». 

Un concetto molto caro a Gianni Faresin, direttore sportivo di lungo corso dei veneti.

«Per me è stato, ed è tuttora, un maestro. Ha corso una vita coi professionisti, ha vinto un Lombardia e un campionato italiano, ha partecipato più volte al Giro, al Tour, alle classiche monumento e ai mondiali. Parla poco ma parla bene, sa tenere unito il gruppo, conosce alla perfezione certi meccanismi. E soprattutto è bravo a mantenere un certo distacco coi ragazzi: avere un buon rapporto è fondamentale, ma lui non è il padre, lo zio o l’amico di nessuno».

Tu, invece, come ti descriveresti?

«Quando correvo ero meticoloso e professionale, a differenza di quello che si diceva su di me. Avrei dovuto essere più continuo, questo sì, ma adesso non voglio più pensarci altrimenti non vado avanti. Forse il difetto più grande che ho è quello d’essere molto istintivo, a tratti burbero: dovrei imparare a contare fino a dieci, non fermarmi a tre».

Nicola Conci e Filippo Rocchetti ai tempi della Zalf

Pur non essendo passato professionista hai comunque pedalato per tanti anni. Cosa credi che ti abbia insegnato il ciclismo?

«Tra le tante cose dico a responsabilizzarmi. Da piccolo pedalavo e giocavo a calcio. Ero attaccante, facevo anche diversi gol. Ma il ciclismo cominciò a piacermi di più e mi veniva tutto sommato facile. Però in breve tempo mi resi conto che nelle giornate difficili non ti salva nessuno. Sei da solo, non puoi fare affidamento più di tanto sui compagni, come invece succede giocando a calcio. Qualcuno può fare gol al posto tuo, ma nessuno può portare la tua bici al traguardo per te». 

Hai mai vissuto una giornata simile?

«Me n’è rimasto impresso uno. Nel 2018 arrivai agli europei di Brno facendo i salti mortali. Giorni prima vinsi una gara, poi via via che la gara s’avvicinava mi resi conto di non stare molto bene. Ci tenevo troppo, volevo esserci a tutti i costi, e quindi continuai a prepararmi. Mi sembrava d’avere una buona gamba, invece dopo 40 chilometri mi stacco. Guardai i corridori intorno a me e pensai: ma dove sono finito? Mi ritirai. Smaltire quella delusione fu complicato. Io sono fatto così: in un primo momento mi logoro nel cercare i motivi, poi però arriva un momento in cui archivio una volta per tutte. Non sono uno da mezze tinte, o bene o male. Come i miei idoli».

Chi erano?

«Vandenbroucke e Pantani. Fortissimi, spettacolari, complessi, malinconici. La dimostrazione più viva che dietro ad ogni atleta c’è una persona, talvolta anche difficile da gestire e da comprendere».

Adesso sei passato dall’altra parte della barricata, salendo nell’ammiraglia della Zalf. Avevi sempre immaginato un futuro del genere?

«L’idea di seguire i ragazzi in allenamento e di poterli aiutare mi è sempre piaciuta. Per prendere il tesserino da direttore sportivo ho sfruttato i mesi della pandemia. Lo scorso anno ho fatto il massaggiatore, adesso finalmente guido l’ammiraglia. Ma il capo rimane Faresin, sia chiaro. Comunque questo ruolo me lo sento cucito addosso, come se dovessi sdebitarmi».

In che senso?

«Non voglio che altri giovani talentuosi commettano i miei stessi errori. Non basta essere talentuosi, non basta nemmeno allenarsi bene. Bisogna rimanere concentrati, bisogna essere determinati e ambiziosi, non bisogna invece mai accontentarsi. E possibilmente essere umili, mantenere un profilo basso. Ad esempio, come direttore sportivo ho ancora tanto da imparare: devo stare più attento a non diventare amico dei corridori, non siamo così distanti d’età e il rischio è dietro l’angolo, e soprattutto dovrò capire come si gestiscono i momenti più delicati, non sempre si può essere il direttore sportivo di una squadra vincente».

Quale gara sogni di vincere?

«Il campionato italiano, corsa che mi ha visto sempre piazzato. Da corridore sognavo Fiandre e Liegi e tra i dilettanti sono riuscito a farle: anzi, una Ronde l’ho chiusa anche al nono posto. Sì, sarebbe bello ripetersi nella gara tricolore dopo lo splendido assolo di Benedetti di un anno fa».