Un gentiluomo al servizio del ciclismo: intervista a Orlando Maini

Abbiamo intervistato Orlando Maini, uno dei direttori sportivi italiani più apprezzati.

 

Orlando Maini nasce a Bologna il 17 dicembre 1958. Suo zio, Primo Franchini, è un noto direttore sportivo e, grazie alla sua vicinanza, Maini si appassiona al ciclismo. Sarà professionista dal 1979 al 1988, vincendo una tappa al Giro d’Italia e una alla Vuelta a España. Appesa la bicicletta al chiodo, Maini intraprenderà la carriera di direttore sportivo, assecondando una vocazione che da tempo percepiva. Così si ritroverà a vivere accanto a Marco Pantani il magico 1998. Oltre alla Mercatone Uno, Maini ha diretto De Nardi, Team LPR, Tinkoff, Katusha, Ceramica Flaminia, Lampre e UAE Emirates. Oggi afferma sicuro che una delle sue più grandi soddisfazioni a livello umano e sportivo sia stata la collaborazione con Michele Scarponi. Dal 2018 Orlando Maini cura il settore giovanile, dapprima alla Petroli Firenze e successivamente alla Beltrami TSA.

Orlando, torniamo a quel passaggio di mantellina a Marco Pantani in cima al Galibier. Era il Tour de France del 1998.

Mi considero un privilegiato, come tutte quelle persone che hanno avuto la possibilità di lavorare con Marco. Sia sportivamente che umanamente, intendo. Lo conoscevo sin dai tempi della Giacobazzi. Ero convinto di poter fare tutto con estrema facilità, del resto passare la mantellina per un direttore sportivo è un gesto quasi automatico. E invece no. Quando l’ho visto sbucare ho avuto paura, mi tremavano le gambe. Alla televisione sono sembrato sicuro e deciso, ma non lo ero. Dopo avergli infilato gli zuccheri in tasca mi sono lasciato andare. Marco Pantani si stava giocando qualcosa di troppo importante. Io ne parlo poco e continuerò a parlarne poco. Marco era una persona speciale, unica, irripetibile. Lui aveva capito una cosa molto importante: gli altri sono più importanti, sempre. Per lui, prima di Pantani, c’erano gli altri.

Qual è la cosa più bella che ti resta di Marco?

Innanzitutto mi resta un grosso dispiacere. Noi che abbiamo lavorato con lui non siamo riusciti a restituirgli tutto ciò che ci ha dato in quegli anni. Credo che il problema più grande sia quello. Mi resta dentro la spontaneità dei suoi gesti. Era qualcosa che aveva dentro. Marco non si dimenticava mai della sua squadra, dei suoi gregari. Lo diceva sempre: «Tutti parlano di me, ma in realtà senza di voi non potrei essere quello che sono». Io che faccio questo lavoro lo ripeto sempre ai miei ragazzi: quando si raggiunge un traguardo, grande o piccolo che sia, il merito è di tutti. Lui lo sapeva.

Vuelta a San Juan 2019 – Orlando Maini si confronta con gli atleti – ufficio stampa Beltrami TSA – Marchiol

Nell’ambiente sei molto stimato sia per i risultati sportivi che per il tuo carattere. Ti riconoscono tutti come una persona buona. Credi che questo ti abbia aiutato o penalizzato?

È vero, mi ci riconosco, sono fatto così, è il mio carattere. Non mi arrabbio mai, ma quando mi arrabbio lo faccio sul serio, come tutti i buoni. Da qualche responsabile delle squadre in cui ho lavorato sono anche stato accusato di essere troppo buono con i corridori. Io credo che ogni corridore, da un punto di vista strettamente professionale, cerchi di dare sempre il cento per cento. Quando con il direttore sportivo nasce un feeling particolare, alla fine subentra l’uomo e l’uomo cercherà di dare anche il centodieci per cento. La mia bontà la vedo interpretata in questo senso. Quel rapporto umano è prezioso. La mia bontà è legata anche alla schiettezza, che a volte in questo mondo mi ha penalizzato. Mi hanno insegnato che è sempre importante prendersi la responsabilità di quello che si dice e dire quello che si pensa senza tanti sotterfugi. Con educazione, certo, ma anche con decisione e sincerità.

Quanto hai pagato questo scotto?

Sai, ogni direttore sportivo vorrebbe sempre far parte del professionismo e delle squadre migliori. In questo momento io appartengo al mondo dilettantistico e delle Continental. Ho avuto una carriera lunga in squadre importanti, dimostrando sempre le mie qualità ed i miei difetti. Spero che questa carriera prosegua ancora. Mi sono tolto tante soddisfazioni: Marco Pantani, ma anche Michele Scarponi. Con lui era nato un rapporto così profondo che ci capivamo senza neanche parlarci.

È una filosofia molto bella. Ti è sempre appartenuta o l’hai appresa da qualche maestro?

Sono cresciuto in una famiglia in cui si respirava ciclismo. Mio zio era Primo Franchini, famoso direttore sportivo. Da dilettante ero nella norma. Al passaggio nel professionismo, mio zio mi disse: «Provaci, ma se non dovessi riuscirci non ti abbattere: con la passione che hai cerca un altro ruolo nel ciclismo perché è la tua strada». Dopo dieci anni di professionismo da onesto gregario ho capito che forse la mia strada era questa. Avevo qualcosa dentro, qualcosa che voleva uscire. Questo carattere è stata la mia forza e anche la mia debolezza. Ad alcuni non sono mai piaciuto, e non piaccio tuttora, per questo modo fare: sono gentile, educato, ma allo stesso tempo chiaro e netto. Ad alcuni manager questo non piace. Metto il massimo nel mio lavoro e per questo chiedo il massimo. Anche con i ragazzi: preferisco sottolineare l’errore piuttosto che scusare l’atleta per comodo. Il dialogo è una delle poche vie per imparare a commettere meno errori.

©Claudio Bergamaschi

Vogliamo precisare un attimo il concetto di “scusare l’atleta per comodo”?

Quando ti affianchi a un campione, la cosa più semplice che puoi fare è dargli sempre ragione. Così facendo, però, diventi un accompagnatore, non un direttore sportivo. Il direttore sportivo deve saper rincuorare, e non scusare, l’atleta nei momenti di difficoltà, ma finita questa fase deve anche essere capace di far notare gli eventuali errori. Essere schietti non vuol dire avere sempre ragione. Essere schietti ti permette di imparare anche quando hai ragione. Dai tanto, ma apprendi anche tanto. Ascoltare l’atleta ti insegna sicuramente qualcosa in più sul tuo mestiere.

Che cos’hai imparato dagli atleti, Orlando?

Da Michele ho imparato questo atteggiamento da attaccante nato che in realtà mi mancava. Io ho sempre amato le corse a tappe e in una gara a tappe devi controllare moltissimi aspetti: la spregiudicatezza, innata in Scarponi, mi ha insegnato a essere un po’ più sfacciato, a buttarmi maggiormente nelle cose. Lui provava anche attacchi inaspettati, magari fuori da ogni logica. Però ci provava, partiva e andava all’attacco.

Uno dei momenti più difficili con Michele, se non erro, fu proprio al Giro d’Italia del 2011, dopo la tappa dell’Etna.

Michele era molto critico verso sé stesso quando non raggiungeva il traguardo che si era prefissato. Quell’anno passammo tanti giorni assieme sull’Etna col gruppo di lavoro che poi sarebbe andato al Giro. Era un gruppo forte e coeso. La casualità volle che la sua peggior giornata, nonostante un ottimo lavoro della squadra, dovesse essere quella sull’Etna. L’arrivo della tappa era proprio davanti all’hotel di quei giorni. Ti dico la verità: la delusione era stata cocente, ma io e Roberto Damiani decidemmo di lasciar passare qualche giorno prima di parlargli. Michele aveva bisogno di metabolizzare. Ad un certo punto ho iniziato a fargli un discorso che toccasse il suo orgoglio. Servivano semplicità, delicatezza, sensibilità. Gli dissi: «Michele, abbiamo fatto tutto quello che abbiamo fatto per arrenderci così? Molliamo tutti così?». E lo vedevi che si riaccendeva, che iniziava a farmi domande. Tornavo in camera in brodo di giuggiole dalla contentezza. Michele lo porto dentro tanto quanto Pantani.

Il sorriso di Michele Scarponi

Facciamo un passo indietro: smetti di correre e decidi di salire in ammiraglia. Come matura questa decisione?

Nel tempo. Pensa che io, appena ho smesso di correre, ho aperto un bar rilevando un’attività sotto casa mia. Ma di sera andavo ad allenare i dilettanti e gli juniores. La decisione vera e propria è arrivata nel 1995, quando sono approdato a una squadra Professional, ma io sentivo già da tempo questa spinta dentro di me. Non potevo farne a meno.

Quali sono stati i tuoi modelli? Tanto da corridore quanto da direttore sportivo.

Sai, il mio maestro è sempre stato mio zio, è da lui che ho imparato quanto fosse importante fare sempre un errore in meno del giorno precedente. Quando sbagliavo lui me lo diceva e mi spiegava perché avevo sbagliato. Serve qualcuno in grado di farti notare i tuoi errori, guai se non ci fosse. Da professionista non sono mai stato un campione: ho vinto una tappa al Giro d’Italia e una tappa alla Vuelta, grazie alla fuga giusta e grazie alla testa. Quando mi proponevo un traguardo, poi tiravo dritto finché non ci arrivavo. Questa cosa mi è rimasta e credo che sia la mia forza. Quando uno fa una scelta, poi deve dare il tutto per tutto; le cose fatte a metà non vanno mai bene.

Com’è cambiato questo mondo negli ultimi decenni?

Si dice sempre che il mondo va avanti e dobbiamo adattarci. Io credo che fondamentalmente manchi una cosa: il rapporto umano. Forse prima era anche esagerato, ora è ridotto all’osso. Ora si guardano solo i numeri. Sono cose totalmente diverse. Tutta la tecnologia che ci è stata messa a disposizione ha fatto sì che si perdesse la componente umana. Prima si viveva di contatti diretti, adesso si vive di trasmissione di numeri, di mail e di messaggi. Il mondo si è evoluto in questo senso e noi dobbiamo adattarci, sia chiaro. Io però sono diverso: preferisco di gran lunga una sana chiacchierata.

La UAE Emirates ai tempi di Orlando Maini @Claudio Bergamaschi

Mi hai parlato stupendamente di Marco Pantani e della Mercatone Uno. Come hai vissuto l’addio alla squadra nel 2001?

Io sono arrivato in Mercatone Uno grazie a Giuseppe Martinelli. Quando è stata plasmata questa nuova Mercatone Uno, senza la presenza mia e di Martinelli, c’è stato un lungo periodo in cui non ho visto e sentito Marco. L’ho rivisto a una corsa in Francia. Erano mesi che non ci vedevamo. Ci siamo guardati e ci siamo abbracciati subito. Un abbraccio forte, deciso; uno di quegli abbracci in cui c’è tutto. Lui era capace di questi gesti. Siamo stati tutti bravi a giudicarlo e a criticarlo. Non lo abbiamo mai capito. L’esame più importante della vita lui l’ha vinto: quello dei tifosi, quello delle persone che stanno ore ed ore sulla strada ad aspettarci per vederci un solo minuto. Capisci?

Capisco molto bene.

Se tu all’epoca avessi preso Lance Armstrong e Marco Pantani, li avessi vestiti con abiti giornalieri e li avessi messi a passeggiare in un luogo affollato, da chi si sarebbe fermata la gente? Da Marco. Non lo dico perché era un mio corridore, lo dico perché ne sono certo. Nelle sue vittorie c’erano dei passaggi che con la normalità e con la logica non avevano nulla a che vedere. C’erano grinta, spontaneità, improvvisazione. E la gente si riconosceva in queste sue doti. Le sentiva, le viveva. Quando ha vinto il Giro d’Italia da dilettante, ai piedi del Campolongo mi ha affiancato. In ammiraglia avevo di tutto e lui mi chiese l’unica cosa che non avevo: mezza borraccia di acqua e zucchero. Dovetti andare in un caseggiato e chiedere a una signora, spaventata a dire il vero, di darmi dell’acqua e dello zucchero. Gliel’ho data: ha bevuto un sorso e l’ha buttata via. Che nervoso! Alla sera, in albergo, gliel’ho detto; lui mi ha guardato e mi ha detto: «Volevo vedere se eri attento». Lui ti testava, ti metteva alla prova. Era il suo carattere, lo faceva sempre. Anche in allenamento.

Se ti chiedessi la soddisfazione più importante della tua carriera?

Non è facile. In particolare non è facile per il mio carattere. Anche chi mi ha regalato una piccola soddisfazione è troppo importante per me.

Marco Pantani all’attacco

Una fra le più importanti, allora.

Il Giro d’Italia 2011, quello di Michele Scarponi: detti tutto quello che avevo. L’urlo liberatorio di Michele dopo la cronometro, dopo che era rimasto secondo davanti a Nibali, mi ripagò di tutto. Quella è stata una grandissima soddisfazione. Devo ringraziare anche Roberto Damiani per quell’avventura: è stato lui a volermi alla Lampre.

Sei un perfezionista. Ci sono degli errori che ti rimproveri?

Assolutamente sì. Mi è capitato di sbagliare l’interpretazione della corsa, ad esempio. L’errore più clamoroso mi è capitato con la prima Tinkov. Quell’anno i ragazzi erano tutti giovani e al Giro d’Italia vincemmo due tappe, ma una la sbagliai clamorosamente. Alla fine della tappa presi una ripassata da Tinkov, pur sapendo che mi stimava. Lui era un irruento, mi sbatté in faccia i miei errori. Li riconobbi tutti. Fu sincero, lo apprezzai, e quel confronto mi servì.

Hai fatto tuo l’insegnamento privandolo di qualsiasi carica negativa.

C’è un rischio in qualunque mestiere, un rischio che cresce di pari passo con l’età: quello di diventare, o di crederti, un sapiente. La sapienza ha un limite, quando non vedi più il tuo significa che ti stai perdendo. Che sia una tensione, un rimprovero, un consiglio o anche una lite, devi essere attento e provare a capire. La cosa più bella che puoi fare in questo ambito è valorizzare i tuoi collaboratori. Per i ragazzi non lavoro solo io, ci sono tante persone. Bisogna considerare ciascun collaboratore per il lavoro che fa, dare dignità, fiducia e valore a ciascuno di loro. Così i collaboratori staranno bene, saranno contenti e lavoreranno al meglio. Mi sono spiegato?

Certo.

Noi siamo zingari del mondo. Siamo nomadi che viaggiano per paesi e città, spostandosi in gruppo. La serenità dell’ambiente è fondamentale. L’umiltà è fondamentale. Non è scritto da nessuna parte che un meccanico non possa darmi un consiglio utile, che in certi frangenti non possa sapere meglio di me cosa fare. Quando ci alziamo al mattino, dobbiamo guardarci allo specchio. Devi guardare chi sei e chi stai diventando. Se sei ciò che vuoi essere, se resti ciò che sei nonostante il mondo, provi a convincerti del contrario. Se non cedi alla comodità e ai facili vantaggi, tradendo le tue idee, tutto questo è così semplice. È facile guardarsi allo specchio. Diversamente, mi porrei qualche problema. A me hanno proposto diverse volte di diventare team manager, ma ho sempre rifiutato: non era quello che volevo essere. Tu devi sempre fare quello che vuoi fare e non quello che ti illudi di poter fare.

Orlando Maini, Team Beltrami

E oggi accetteresti?

Oggi come oggi, lavorando con i giovani, mi sento ancora un animale da ammiraglia. Ho imparato altre cose. Anche da noi c’è un team manager e poi ci sono tre direttori sportivi. Io sono uno di quelli. E ne sono felice.

In tutti questi anni di carriera c’è un passaggio di cui ti sei pentito?

Tutto ciò che ci succede può insegnare qualcosa. Grazie agli eventi negativi, ad esempio, scegli di lasciar fuori dalla tua vita alcune persone e di non prendere certe strade. Non serve fare nomi, il negativo lo tengo per me. Il positivo resta: il mio rapporto con Damiani e con Martinelli, per esempio. Il negativo ti permette di non tornare a sbagliare. Anche nella catastrofe, anche nel peggio, bisogna cercare il lato positivo e propositivo.

Eri così già da ragazzo o sei cambiato nel tempo?

Dicono che il tempo insegna, io in realtà credo di non essere mai cambiato. Sono sempre stato un propositivo; un ottimista, se vuoi. Sono un buono, come dicono. Non me la prendo mai, non mi arrabbio quasi mai, ma quando mi arrabbio faccio sul serio. Ci vuole tanto tempo, è difficile che mi passi. È un difetto, ma anche i buoni hanno dei difetti.

E ora c’è una nuova sfida: il ciclismo giovanile.

In realtà io non l’ho mai abbandonata. Anche quando guidavo le squadre professionistiche, quando non ero alle corse andavo a vedere i giovani. Non possiamo permetterci di farci passare sotto gli occhi due o tre generazioni senza sapere chi sono questi ragazzi. È vero, ho guidato molti leader, ma anche tanti gruppi di giovani. Mi è sempre piaciuto. Da tre anni mi occupo esclusivamente di questa categoria. Ho pagato un dazio, indubbiamente. Spesso mi interrogo, mi sembra di essere tornato a scuola. Ho a che fare con dei giovani, devo prendermi cura dei loro sogni e delle loro aspettative. Per loro il ciclismo non è ancora un lavoro: dare dei ruoli, in questa circostanza, è molto più difficile. Servono rispetto, dolcezza e sensibilità. Mi piace capire l’intimità delle persone. Le cose voglio saperle parlando faccia a faccia, i miei ragazzi voglio conoscerli di persona e non attraverso lo schermo di un computer.

Orlando Maini al lavoro

Torniamo a questi anni di esperienza nel giovanile. Cosa va e cosa non va in questo ambiente?

Una cosa non dobbiamo mai dimenticarcela: nelle migliori realtà ciclistiche internazionali c’è sempre un’anima italiana. Noi siamo sempre molto critici verso la nostra nazione, ma all’estero ci apprezzano. Significa che come preparazione e conoscenza abbiamo delle eccellenze riconosciute da tutti: parlo di tecnici, massaggiatori e meccanici in grado di dare un forte apporto al movimento ciclistico internazionale. Per quanto riguarda i giovani, il problema è che la nostra società chiede spesso e volenteri “tutto e subito”. I numeri vanno guardati, ci mancherebbe, ma proviamo a pensare alla crescita del movimento e di questi ragazzi.

In conclusione, Orlando, vorremmo trattare un tema che ci sta molto a cuore: la sicurezza stradale.

Noi siamo specializzati nel dare la colpa agli altri perché è facile. Basterebbe immedesimarsi. Quando le persone passeggiano con le loro famiglie sono serene. Come salgono in auto, invece, subiscono una trasformazione e come vedono un gruppo di ragazzi che si allenano li insultano. Quei ragazzi stanno lavorando come sta lavorando l’autista. Io cerco di far riflettere su questo. Questi ragazzi stanno facendo sport: se non lo facessero, cosa farebbero? Magari prenderebbero qualche brutta strada. I pericoli sulla strada sono davvero tanti. Mettiamoci nei panni degli organizzatori, pensiamo a quante responsabilità si prendono per organizzare eventi su strade che sono solo parzialmente chiuse. Noi viviamo la strada e la strada di oggi è pericolosa. Gli automobilisti si sentono troppo potenti dentro quel veicolo. Quando vediamo una persona in bicicletta, dovremmo essere felici. Dovremmo percepire quel senso di libertà che la bicicletta dona.

Il dialogo come chiave di risoluzione del problema.

Certo, l’informazione e il dialogo per fare grossi passi in avanti. Lo scalmanato di turno lo troverai sempre. Se ognuno prova a fare qualcosa, però, la situazione migliorerà. Un dato positivo c’è già: le agevolazioni fiscali che hanno concesso per l’acquisto delle biciclette pare aver innescato un circolo virtuoso. Perché non sperare? Perché non immaginare che tutte queste persone, d’ora in poi, possano immedesimarsi nei ciclisti che vedono in strada e percepire la bellezza di questo gesto?

 

Foto in evidenza: Per gentile concessione dell’ufficio stampa Beltrami TSA – Marchiol

Stefano Zago

Stefano Zago

Redattore e inviato di http://www.direttaciclismo.it/