Campioni si può anche diventare: intervista a Elia Viviani

A Livigno la redazione di Suiveur incontra Elia Viviani.

 

Elia Viviani non necessita certo di presentazioni. Nato a Isola della Scala il 7 febbraio 1989, sin da bambino ha sviluppato una forte passione per lo sport. Prima il pattinaggio, poi il calcio, il nuoto e lo sci, sino ad approdare al ciclismo. È sulle due ruote che il corridore veronese ha ottenuto i risultati che lo consacrano di diritto fra i migliori velocisti al mondo: cinque tappe al Giro d’Italia, dove ha conquistato anche la maglia ciclamino, tre tappe alla Vuelta a España e una tappa al Tour de France, per ben tre volte vincitore della prestigiosa clsssica di Amburgo, già campione italiano e campione europeo. Viviani ha ottenuto ben sette titoli europei in pista, due medaglie di argento e una di bronzo ai campionati del mondo. Nel 2016 l’apoteosi con la vittoria della medaglia d’oro nell’omnium alle Olimpiadi di Rio. Diverse le squadre di vertice in cui ha militato: Liquigas, Sky, Deceuninck Quick-Step e quest’anno l’approdo alla Cofidis sotto la guida di Roberto Damiani. In questi giorni Elia Viviani e la Cofidis sono in ritiro a Livigno: è qui che la redazione di Suiveur ha incontrato il campione di Isola della Scala per una chiacchierata a tutto campo.

©Elia Viviani, Twitter

Elia, partiamo dagli inizi: quando e come ti sei avvicinato al mondo del ciclismo?

Era l’estate del 1997, giocavo a calcio ma ero incuriosito da un mio compagno di classe che seguiva gli allenamenti di ciclismo. Era qualcosa di diverso, provai quell’anno e mi iscrissi alla stagione successiva. Praticavo anche nuoto, tennis, pattinaggio e d’inverno lo sci. Nell’ambito calcistico arrivai anche a fare provini per Chievo Verona ed Hellas Verona, giocavo in porta. Sapevo che le vittorie e le sconfitte potevano anche dipendere da me, ma mai totalmente. Se da esordiente ho scelto il ciclismo, è stato per questo: volevo essere l’unico responsabile dei miei risultati, nel bene e nel male. Era il 1998, l’anno che consacrò Marco Pantani vincitore al Giro d’Italia e al Tour de France. Tra l’altro io correvo con biciclette Bianchi, la stessa del Pirata, non poteva non essere il mio idolo. Quando ho capito che avevo caratteristiche da velocista, i miei modelli hanno iniziato ad essere Mario Cipollini, Tom Boonen, che oltre alle volate riusciva a vincere anche le classiche, e Alessandro Petacchi per la sua progressione. Se devo fare un solo nome, però, dico Cipollini.

Quando hai capito che il ciclismo avrebbe potuto diventare il tuo lavoro?

Per carattere sono una persona che s’impegna e vuole arrivare in alto. Punto all’eccellenza, insomma. Ho ottenuto risultati in tutte le categorie, sin da giovanissimo. Sono stato fortunato ad arrivare nel vivaio della Liquigas, una formazione che ha sempre puntato tanto sui ragazzi credendo che il futuro del ciclismo fosse lì. Ho conosciuto così Roberto Amadio e Stefano Zanatta. La certezza l’ho avuta il giorno in cui sono andato in ufficio da Amadio per firmare il contratto.

Parliamo del tuo carattere, dei tuoi pregi e dei tuoi difetti.

Il mio punto forte è sempre stato la testa, la capacità di sopportare fisicamente, ma prima ancora mentalmente, i sacrifici. Prima delle Olimpiadi di Rio 2016 sono stato sei settimane in altura, lontano dalla mia famiglia e solo con lo staff ed i miei compagni a lavorare. La gente mi prendeva per matto, ma io avevo la consapevolezza che se avessi voluto essere il mio migliore quella sarebbe stata l’unica via. Lo stesso discorso vale per i grandi giri: quando si arriva a Milano, a Parigi o a Madrid, si vorrebbe solo staccare. Lì subentra la testa: meglio tenere duro e fare qualche sacrificio in più, piuttosto che buttare alle ortiche tutto il lavoro fatto. Bisogna continuare: spesso i miei più grandi successi sono arrivati dopo una corsa a tappe. Dall’altro lato, talvolta ho esagerato: voler essere da troppe parti significa alla fine non arrivare da nessuna parte. Alcuni traguardi li ho mancati proprio a causa di questo approccio.

©filip bossuyt, Wikimedia Commons

Qual è il tuo più grande rimpianto?

Il Mondiale di Doha, non è facile avere un Mondiale con un percorso completamente piatto. Sono sempre stato in gara, sono arrivato con il gruppo dei venticinque che si è giocato la vittoria, ma non sono riuscito a sprintare per i crampi. Il mio rimpianto non è non avercela fatta, il mio rimpianto è che quel Mondiale è arrivato nel 2016, l’anno delle Olimpiadi. Fin dal Brasile era iniziata una sfida contro me stesso per il Mondiale: lavorare sui 250 chilometri dopo aver lavorato per mesi sui 50 chilometri in pista. Ricordo le parole di Davide Cassani mentre mi accompagnava all’antidoping di Rio: «Elia, pensi di farcela per Doha?». Glielo dissi: «Per stasera voglio solo godermi questa medaglia, ma ci provo, stanne certo». Sono arrivato lì ma non sono riuscito a fare risultato, peccato. Sono occasioni che difficilmente ricapitano.

A causa dei risultati che hai ottenuto sei sottoposto a pressioni. Come riesci a gestirle?

È vero, ma credo che la capacità di fronteggiare le pressioni debba far parte di un campione. Se un campione non sopporta le pressioni, non riesco a immaginare come possa porsi degli obiettivi. Già nel momento in cui tu stesso fissi un traguardo da raggiungere ti sottoponi a una pressione. Alcune volte non sono nemmeno gli altri a mettermi pressione, sono io stesso. Se vuoi che la squadra lavori per te, se imponi sacrifici a chi collabora con te, devi fare il massimo, devi essere il primo a sentire la pressione, che altro non è se non la dimensione di quanto tieni ad un traguardo, di quanto sei disposto a fare per raggiungerlo. Poi si può vincere e si può perdere, ma devi aver fatto il massimo, devi essere certo che più di così non potevi fare. La pressione va trasformata in motivazione. Questa pressione non la vedo in maniera negativa. Diverso è, per esempio, il caso di uno sprinter che non vince. Giorno dopo giorno carichi tensioni che, a lungo andare, fanno male se non riesci a gestirle. Succede quando le cose non vanno come vorresti: perdi sicurezza. Quello è un grosso problema, un atleta vincente deve essere sicuro.

Sei molto stimato nell’ambiente. Maximilian Richeze, in una nostra intervista, ha dichiarato: “Ho lavorato con Modolo, Kittel e Gaviria, ma Viviani è il corridore che mi ha insegnato di più: è meticoloso, ambizioso, professionale”. A cosa si riferiva, secondo te?

Maximilian è diventato un amico. In Quick-Step era un uomo di Gaviria ed ha iniziato a lavorare per me dopo la partenza di Fernando. Io lo dico sempre ai miei compagni di squadra: sono indubbiamente un corridore di alto livello, ma non mi ritengo un fenomeno. Gaviria è un fenomeno, se fa tutto giusto è pressoché imbattibile. Ecco il punto: per superare in volata uomini come Gaviria, per me è essenziale la squadra. Io vinco o perdo per e con la squadra. Credo che Fabio Sabatini intenda questo quando dice che sono esigente. Chiedo tanto alla squadra perché so che i miei risultati dipendono da loro. Non è solo un dividere la responsabilità con i miei compagni, è un modo per farli sentire importanti. Se loro accelerano troppo, se passano in buchi in cui io non passo, se mi lasciano venti metri prima piuttosto che venti metri dopo, io perdo. Diversamente vinco e se vinco buona parte del merito è loro.

©F.C.I., Twitter

Hai parlato di Fabio Sabatini. Parliamo del ruolo di pesce-pilota.

Credo che un buon pesce-pilota sia, anzitutto, un atleta che ha capito che il suo ruolo è quello ed ha accantonato ogni ambizione personale. L’ambizione del pesce-pilota, nel nostro caso, deve essere: “Deve vincere Elia”. Ti assicuro che non è facile, non è per tutti. Bisogna avere una consapevolezza tale da mettere sempre le esigenze del tuo velocista davanti alle tue, tanto davanti quanto dietro le telecamere. Se hai traguardi personali in salita, quando il tuo velocista si stacca non stai con lui nel gruppetto a tirare per centocinquanta chilometri per portarlo al traguardo. Quante volte, magari, un mio uomo avrebbe avuto le gambe per stare due o tre gruppi più avanti rispetto al gruppetto dei velocisti? Eppure non l’ha fatto, è rimasto con me. Quanti uomini potrebbero sprintare ed ottenere buoni piazzamenti? Essere pesce-pilota vuol dire rinunciare a tutto questo, vuol dire che dai meno cinque chilometri al traguardo i tuoi occhi sono solo sul tuo velocista. Per questo un giovane non sarà quasi mai un buon pesce-pilota: perché ha delle ambizioni ed è giusto che le coltivi. Se guardiamo in gruppo i pesci-pilota di livello hanno quasi tutti superato i trent’anni: Sabatini, Richeze, Mørkøv, Štybar, Sénéchal, Kluge, Mezgec, per fare degli esempi. Noi, in Cofidis, stiamo provando a fare questo lavoro con Consonni.

Parliamone un attimo.

Sono convinto che Simone Consonni sia uno dei giovani più talentuosi. Sono sicuro che potrà essere uno degli ultimi uomini più importanti del mondo. Per arrivare a quei livelli, però, deve acquisire esperienza. È un professionista, deve guardare gli altri ed assimilare. Deve guardare come Mørkøv mi ha fatto vincere tante volate, come Richeze faccia vincere ogni velocista che gli si mette a ruota. Questo gli servirà per i movimenti, per le accelerazioni, per il controllo delle situazioni. Lavorandoci come ci stiamo lavorando, sono certo che sarà uno dei corridori che farà la differenza nelle mie prossime vittorie. Negli ultimi anni Consonni ha fatto tante volate ed ottenuto molti piazzamenti; però, se ha scelto questa strada, significa che ha compreso che gli manca qualcosa per diventare un velocista da dieci vittorie all’anno. Il più delle volte Simone, quando prende la testa del gruppo, va. Se l’ultimo uomo fa una volata davanti al proprio velocista, va a finire che lo mette in crisi. Consonni dovrà trasformare un picco di dieci secondi in una progressione di venti. Se ci riuscirà, allora farà la differenza.

Hai vinto al Giro, al Tour e alla Vuelta, però un velocista come te non può non sognare la vittoria sui Campi Elisi.

Sì, è vero. L’anno scorso si diceva che mi mancasse la vittoria al Tour. Il traguardo minimo con cui sono partito era una vittoria di tappa ed una tappa è arrivata. In un’altra ho sbagliato io, un’altra ancora l’ho persa sulla riga da van Aert in una frazione condizionata dal vento e dai ventagli, a Parigi ho perso le ruote di Mørkøv e Richeze che hanno fatto una volata perfetta, se fossi rimasto lì avrei vinto. Quest’anno voglio tornare al Tour: il traguardo minimo sarà ancora vincere una tappa, ma mi piacerebbe fare un Tour de France ad altissimi livelli, sempre pronto a battagliare per la vittoria come ho fatto più volte al Giro e alla Vuelta.

La vittoria alle Olimpiadi di Rio 2016 è stata fondamentale. Da lì cambia tutto: da ragazzo di indubbio talento, Elia Viviani diventa il campione che tutti conosciamo oggi.

Probabilmente prima di Rio ero distratto da questo tassello che avevo nella testa ma che mi mancava. Ho sempre vinto tra i professionisti, ma a Londra 2012 non era arrivata nessuna medaglia. Avessi fatto bene a Londra, probabilmente questa trasformazione sarebbe arrivata quattro anni prima. Guardando i grandi giri di quegli anni si capisce che i presupposti ci sarebbero stati. Nel 2016 passo in Sky, vinco meno, solo due vittorie, ma mi concentro sull’Olimpiade. Sai, una volta che metti quella medaglia al collo, quella d’oro, hai la consapevolezza di aver raggiunto un obiettivo importante e sai di poter puntare in alto. Lo dissi già nelle interviste dopo Rio, non sapendo nulla di Tokyo: ho coronato un sogno per quanto concerne la pista, da domani metterò ogni energia su strada per diventare uno dei velocisti più forti al mondo. Vincere al Giro, al Tour, alla Vuelta, vincere le classiche: appena ho capito che al Team Sky non poteva succedere, ho approfittato di un’occasione che mi ha cambiato la carriera e sono andato alla Deceuninck-Quick Step. Quella medaglia ha portato la consapevolezza che solo traguardi così importanti donano.

©UEC_cycling, Twitter

È difficile spiegare il significato di un pianto, ma te lo chiedo lo stesso: cosa c’era in quel pianto ed in quel dito ad indicare tuo padre?

In quel pianto c’era un’affermazione: ce l’ho fatta. Nelle ore successive ho pensato a questo. Partivo da favorito senza mai aver vinto né un Mondiale su pista né una Coppa del Mondo su pista; avevo ottenuti piazzamenti importanti agli Europei, ma questi favori del pronostico non si spiegavano. Se ci ripenso, quei giorni di gara sono stati i più facili. Il CONI e la Federazione non mi hanno fatto mancare nulla. Quella caduta però mi aveva spaventato, temevo finisse ancora come a Londra. Stavano tornando gli spettri di quattro anni prima. Ho convinto i miei genitori a raggiungermi solo la settimana prima. Sono state le prime persone che ho guardato dopo il traguardo. È stato bellissimo.

L’Olimpiade a Tokyo, slittata di un anno, sarà verosimilmente la tua ultima ad altissimo livello. Per di più la specialità dell’Omnium è cambiata completamente dalla tua vittoria.

Da Rio 2016 è cambiato molto. Ho potenziato le mie abilità su strada e oggi ho la responsabilità di essere il capitano di una squadra World Tour come la Cofidis. Sarò sincero: il cambiamento dell’Omnium non mi piace per nulla. Credo che prima fosse una disciplina molto più completa per la varietà di prove al suo interno, contro il tempo e miste. Se invece devo guardare agli interessi personali, indubbiamente è un Omnium molto più facile da preparare. Senza le prove contro il tempo non dovremo fare tutta la preparazione specifica che abbiamo fatto a Rio. Senza però cadere nell’errore di sottovalutarlo, credo che il nono posto al Mondiale di quest’anno sia significativo. Senza una preparazione specifica ne siamo usciti con le ossa rotte. In questo senso, forse, il rinvio di un anno potrebbe servirci per prendere maggiore consapevolezza e migliorarci. Tokyo è un’occasione importante: da un lato abbiamo un quartetto favoloso, dall’altro l’americana è una specialità endurance in più in cui è importante fare bene. Aggiungo ancora l’importanza di avere un compagno come Consonni, che punta anch’egli alla medaglia olimpica. In una stagione anomala come questa, le Olimpiadi avrebbero stretto di molto i tempi.

L’altro pianto che ci resta è quello sul traguardo della Gent-Wevelgem 2018.

Ho vinto quasi tutte le classiche adatte alle mie caratteristiche, mi mancano la Gent-Wevelgem e la Milano-Sanremo. In quell’occasione venivamo da un’apertura di stagione incredibile: la Quick-Step aveva vinto tutte le classiche fin lì. Dopo aver fatto lavorare i ragazzi per rintuzzare gli attacchi, ho scelto di prendere la scia di Démare, il velocista più lineare in volata. Sagan è un avversario temibile, ma è un funambolo, difficilmente seguibile. Ci ha anticipato e ha vinto alla grande. Quel pianto era per una delusione personale. Quando faccio così è perché ci tengo.

Parliamo di squadre. Il cambiamento decisivo, mi sembra di capire, ritieni sia avvenuto alla Deceuninck Quick-Step, giusto?

In realtà è avvenuto per gradi. Sono stato anche fortunato: ho sempre trovato le squadre giuste nei momenti giusti, talvolta anche sacrificando il lato economico. Quando sono passato alla Sky avevo ancora un anno di contratto con la Cannondale ed economicamente ci ho rimesso, ma era giusto così. Il Team Sky era il mio sogno, l’unica squadra in cui avrei potuto vincere l’Olimpiade. Lo dico ancora oggi: per la professionalità messa in campo, per come lavora, per gli atleti, il Team Sky è la miglior squadra al mondo. Il punto è che io non sono uno scalatore e restando lì avrei dovuto seguire la loro logica, una logica da grandi giri. Mi rimangono molte soddisfazioni e anche un bellissimo rapporto con tutto lo staff e con Dave Brailsford in particolare.

Anche decidere di cambiare squadra è stata una scelta sofferta, ma nel frattempo si era creata un’altra occasione che non potevo perdere: Gaviria lasciava la Quick-Step, lasciando il suo treno in quella squadra. Per la Quick-Step il discorso è ancora diverso: un ambiente assolutamente familiare con una sensibilità rara verso gli atleti ed i loro risultati; quando si vince si vince tutti, quando si perde si perde tutti, ma già dalla sera si è pronti a programmare con serenità il giorno seguente. Credo che la coesione tra gli atleti lo dimostri: Viviani che tira per i leader in salita e Alaphilippe che tira le volate a Viviani. È rimasto un ottimo rapporto con tutti; Bramati in quegli anni è stato il miglior direttore sportivo che potessi avere, eccellente motivatore, a tratti un amico. Diciamo che se il Team Sky, a livello di professionalità e competenza, è inarrivabile, per un atleta che sta via da casa duecentodieci giorni all’anno l’ambiente della Quick-Step è quello che ci vuole.

@Elia Viviani, Twitter

Abbiamo parlato di Team Sky, non posso non chiederti un ricordo di Nicolas Portal.

Ricordo che ero a Monaco, a fare un aperitivo con il mio manager, Giovanni Lombardi. Me lo ha dovuto ripetere più volte, non ci volevo credere. Continuavo a ripetere che era impossibile. Nicolas Portal era semplicemente il migliore in casa Sky. Era giovane, ma con un’esperienza maturata sul campo che lo rendeva in grado di gestire le tante situazioni critiche che si creavano in quella squadra. Portal è stato l’artefice dei successi di Froome e Thomas al Tour de France, era un punto di riferimento anche per tutta la stampa. Sempre disponibile all’ascolto e al confronto, di una cortesia infinita, ma allo stesso tempo capace di prendere le decisioni più importanti senza alcun tentennamento. Portal infondeva tranquillità.

Parliamo del tuo rapporto con Elena Cecchini.

Siamo entrambi ciclisti, ma quando siamo assieme non parliamo sempre e soltanto di ciclismo. Quando ci alleniamo usciamo sempre assieme, poi differenziamo i lavori. Elena è la parte maggiormente razionale della coppia: riesce a tenermi calmo in situazioni in cui la calma si può perdere facilmente. Quando ho degli appuntamenti importanti, fa girare tutto attorno a me: se devo andare in altura, se devo fare dei lavori particolari, oppure se voglio vedere il mio fisioterapista, Fabrizio Borra, a Forlì. Non mi interessano le cinque ore di auto: prima di gare importanti a me serve vederlo. Io ed Elena, insomma, riusciamo a capirci. Questi mesi di lockdown, vissuti l’uno accanto all’altro, ci hanno fatto capire che abbiamo un futuro. E ne siamo felicissimi.

Parliamo di ciclismo femminile: alcune ragazze sostengono che una grossa mano al movimento potrebbe venire proprio dalla vicinanza del settore maschile. Cosa ne pensi?

Ci lamentiamo sempre che come corridori abbiamo poco potere decisionale. È vero, per questo credo che i ragazzi possano fare poco. L’ho detto più volte tanto ad Elena quanto alle altre ragazze con cui ci si confronta in Nazionale: le risposte vanno pretese dall’UCI e dagli organizzatori. Noi ragazzi abbiamo il dovere di considerarle e di non sminuire lo sport femminile. Il passo più facile per innalzare il livello mediatico del ciclismo femminile, con tutto ciò che ne consegue, è questo: chiedere che alle gare maschili vengano affiancate gare femminili e, di conseguenza, chiedere una maggiore concentrazione di dirette televisive. Quanto sarebbe spettacolare una Milano-Sanremo femminile? Chiediamolo agli organizzatori. Sia chiaro: io non conosco i costi, ma le strade sarebbero già chiuse, i palchi già allestiti, le televisioni e i giornalisti già presenti.

La verità è che il ciclismo femminile è cresciuto molto a livello atletico: solo quando io ed Elena ci eravamo appena fidanzati, le gare erano completamente diverse. Una quindicina di atlete si giocavano la vittoria, le altre erano tagliate fuori. Oggi tutte competono per vincere. Ogni ragazza ha un preparatore, sono migliorati i materiali e gli sponsor hanno capito che è importante investire nel femminile. Tante donne vanno in bici e, com’è giusto che sia, vogliono un bel mezzo. Molte squadre maschili hanno una loro componente femminile e ci sono formazioni femminili come Boels-Doelmans e Canyon SRAM che sono autentici squadroni. Si sta lavorando al miglioramento degli stipendi e al professionismo. Il salto mediatico sarebbe l’ultimo passo per equiparare davvero il ciclismo femminile a quello maschile. Un passo che è obbligatorio fare.

Voci autorevoli, da De Candido a Martinello, hanno sostenuto che questa rapida crescita del movimento femminile potrebbe essere non sostenibile nel lungo periodo. Cosa ne pensi?

Anch’io avevo questo dubbio. Sinceramente io mi sarei mosso nel senso inverso, ovvero prima avrei cercato di rendere il ciclismo femminile appetibile a sponsor importanti che con il loro arrivo avrebbero poi reso possibile a cascata tutti i miglioramenti di cui discutiamo. La mia paura era la scomparsa di tante squadre, più piccole ma comunque importanti. Non è successo: le World Tour sono solo otto e questo ha lasciato una porta aperta anche agli altri team. Da questo punto di vista la mia paura si è rivelata infondata.

©Emanuela Sartorio

Altro punto di cui è importante parlare è quello relativo alla sicurezza stradale. Recentemente hai fatto un appello a “La Gazzetta dello Sport” per invitare gli automobilisti a una maggiore attenzione. La situazione sembra fuori controllo, chi deve intervenire?

La Federazione Ciclistica Italiana, purtroppo, può fare ben poco. Siamo degli utenti della strada e la Federazione non può controllare le strade. È possibile parlare di responsabilità federale se parliamo di ciclodromi per bambini e di piste da ristrutturare, per esempio. Lì può arrivare la Federazione. Rispetto alla sicurezza sulla strada, la Federazione può fare una campagna, può invitare i corridori più conosciuti a partecipare, può dare delle linee guida importanti. Per esempio, evitare il dietro-motore su strade trafficate, andare in fila indiana oppure in coppia ma occupando il minor spazio possibile. La Federazione può arrivare fino a qui. Il mio appello era riferito al fatto che il lockdown non ha cambiato nulla. Il problema, a mio avviso, è la frenesia e questi tre mesi fermi hanno solo peggiorato la situazione. Tutti vogliono arrivare ovunque il più velocemente possibile, magari usando anche il cellulare alla guida, e per farlo si disinteressano degli utenti deboli.

Io continuo a chiedermi perché, per dirne una, si ha molta più pazienza dietro ad un trattore che non dietro a un ciclista. In una stagione faccio circa trentamila chilometri in bicicletta e quarantamila in macchina, capisco bene molte situazioni. Serve più rispetto tra automobilisti e ciclisti. Ho sempre rivolto tutti gli appelli possibili ai ciclisti e continuo a farlo. Su queste cose credo la Federazione debba spingere, anche obbligare se necessario. Ad esempio: il fanalino i ragazzini e gli amatori devono averlo. So che non è bello, ma la bicicletta deve essere bella in gara, in strada bisogna tutelarsi. Stessa cosa per le divise: si possono fare di tutti i colori, facciamole che si vedano. In un attimo di distrazione sono accorgimenti che possono salvare la vita. Spingiamo maggiormente su questo versante. Anche sull’ampliamento delle ciclabili bisognerebbe fare una riflessione.

Prego.

Le ciclabili risolvono il problema per chi va a passeggio in bicicletta. Nel nostro caso no; nel nostro caso, con le nostre velocità, diventiamo un pericolo anche per gli amatori e i pedoni. Non è un discorso egoistico, sono contento se aumentano le ciclabili, ma da ciclista professionista sottopongo una mia riflessione. Quando si va su una strada statale con la banchina larga non si corrono rischi. Parliamo di un metro e mezzo dalla linea bianca continua che potrebbe salvare tutti. Il mio consiglio è questo: sulle strade principali, su quelle più trafficate, segnaliamo con una linea continua di un colore forte quel metro e mezzo.

Un’altra possibilità sarebbe quella di permettere a due ciclisti di restare affiancati, come accade in Inghilterra ed in Spagna, in modo da essere più visibili e quindi più sicuri.

Anche io mi alleno sempre in coppia e, il più delle volte, sto appaiato. Però attenzione a non prendere troppo alla larga questo concetto: se si ammette la possibilità di andare in fila per due, poi si trovano quelli che stanno in fila per tre o gruppi di venti ciclisti che occupano tutta la carreggiata. Serve sempre ragionevolezza. Noi professionisti, quando siamo appaiati, siamo molto vicini, quasi ci tocchiamo le mani. Se non si cade nell’estremo opposto di occupare tutta la sede stradale, allora condivido una scelta di questo tipo. Essendo più visibili si evitano situazioni che in fila indiana capitano di continuo. L’ultima volta proprio alla conclusione del lockdown. Essendo convivente sono uscito con Elena per l’allenamento e, data la frenesia delle persone, ho pensato di stare in fila indiana. Non ho neanche fatto in tempo a dispormi in questo modo che un camion a rimorchio, passandomi accanto, mi ha sfiorato. Ad un certo punto non si sa neanche più come comportarsi. In certe occasioni preferisci stare in coppia, prendere qualche insulto dall’automobilista di turno, ma almeno non rischi la vita.

Ci parli un attimo della figura del procuratore nel ciclismo moderno? So che hai un ottimo rapporto con Giovanni Lombardi.

Ho firmato con Giovanni Lombardi che ero ancora juniores, grazie al contatto con Marco Villa. Mi ritengo fortunato: Lombardi è il mio procuratore, ma in realtà è molto di più. Ci sentiamo spesso, talvolta usciamo anche a cena assieme, ci sono anche Sagan, Gaviria e Gatto. È un amico. Giovanni ha fatto una scelta particolare: dodici, quindici corridori al massimo, ma un rapporto stretto con tutti. Se con qualcuno non c’è dialogo, è perché il corridore non vuole. Altri procuratori interpretano la professione in maniera diversa e magari si sentono con i corridori solo alle gare o quando c’è da firmare un contratto. Sono pedine importanti che devono essere capaci di mediare. Non vorrei mai avere un procuratore che abbia litigato con diversi manager. Sarebbero tutte occasioni tolte agli atleti. Pochi corridori e capacità di mediare: questi sono gli ingredienti principali, a mio avviso.

©Elia Viviani, Twitter

Giornalismo e ciclismo: come si pone a tuo avviso il giornalismo nei vostri confronti?

Penso che a volte siamo autolesionisti. Capisco la volontà di fare la notizia, però credo ci sia un limite. Il ciclismo si è già fatto tanto male. Cerchiamo di tenere vicine a noi le persone che sono appassionate di ciclismo, invece di pensare a colpire la società con notizie e titoli ad hoc. Quando si racconta qualcosa che appartiene al dietro le quinte, gli appassionati restano a bocca aperta. Per una persona fortunata che ti incontra in allenamento ce ne sono tante altre che non riusciranno mai a vederti. Occupiamoci di loro. Perché a novembre o dicembre non viene nessuno nei nostri ritiri a raccontare la giornata della Cofidis, ad esempio? Posso assicurare che non è una chiusura delle squadre. È inutile provare a far colpo sulla società: chi ha pregiudizi, chi non è interessato, cercherà e vedrà sempre il lato negativo.

Più volte ti sei ritrovato al centro di polemiche con la stampa. Vuoi spiegarci il tuo punto di vista?

Le polemiche ci stanno. Io sono uno tranquillo, ma quando serve parlare bisogna parlare. Prendiamo le polemiche dopo l’ultima tappa del Giro d’Italia 2018: il mio era solo un appello per la sicurezza dei corridori. Infatti, poi, si sono esposti anche altri atleti importanti. È stato strumentalizzato. Non ho vinto a Roma, e forse è anche meglio così, altrimenti non immagino le polemiche. Sono salito sul podio con la maglia ciclamino e quel Giro è ancora il Giro dei miei sogni.

In quel Giro, dopo una vittoria facesti un gesto rivolto alla stampa. Un gesto che invitava a stare calmi. Ce lo spieghi?

Premessa: in quel Giro avevo già vinto diverse tappe, ero in maglia ciclamino e la stampa mi riteneva “il nuovo Cipollini”. Ad Imola ho avuto una giornata no. Freddo, pioggia, una salita complessa nel finale e non ho fatto risultato. Sai come titolavano i giornali il giorno dopo? “Dov’è finito Viviani?”. Non avevo digerito quelle parole. In albergo avevano chiesto chiarimenti a Bramati, che ancora non aveva parlato con me e non sapeva nulla, per poi scrivere delle sue preoccupazioni per la mia condizione. In realtà non poteva sapere nulla, non avendo parlato con me. Qui ritorno all’importanza di una squadra come la Quick-Step: la sera di Imola il nostro massaggiatore ordinò birra per tutti. Ci disse: «Ragazzi, brindiamo lo stesso: non abbiamo vinto oggi, ma vinceremo domani». Volevo riscattarmi, con persone così accanto è stato tutto più semplice. Quel gesto era un invito: stiamo calmi con le parole.

Parliamo di tuo fratello, Attilio Viviani.

Sono contentissimo che Attilio sia passato professionista e che corra per una World Tour come la Cofidis. Sono ancora più contento del fatto che se lo sia guadagnato. Il mio timore è sempre stato che qualcuno potesse dire: “Attilio passa professionista perché c’è Elia”. I dilettanti, in questi anni, hanno molta più difficoltà a passare. Ai miei tempi, almeno dieci corridori all’anno passavano. Noi non abbiamo una squadra World tour italiana, per fortuna abbiamo le Professional. L’estero, per vari motivi, guarda poco all’Italia. Se non c’è qualcosa di eclatante, è difficile che qualche italiano passi professionista in una squadra World Tour. Cofidis voleva vedere cosa sapeva fare Attilio, stava a lui dimostrare che tipo di corridore è. Alla prima gara in Belgio, Attilio si ritirò. Fu una gara complessa, con ventagli e gruppo frazionato, ma la sera avemmo una discussione. Gli dissi: «Ti avevo detto: va bene tutto, ma non il ritiro». Lui tentò di spiegarsi, io di fargli capire quanto fosse importante. Lo capì: ne ebbi la certezza il giorno della mia terza vittoria ad Amburgo in maglia di campione europeo.

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Raccontaci.

Ero ancora alla Quick-Step, ma tutti sapevano del mio passaggio alla Cofidis. Al mio arrivo in conferenza stampa vidi il mio massaggiatore ridere di gusto. Quando gli chiesi il motivo mi spiegò che, quando mancavano ancora quaranta chilometri all’arrivo, fra i massaggiatori era iniziata a girare la voce di un Viviani vincitore. Non Elia ma Attilio, in Belgio. Seppi così della prima vittoria da professionista di Attilio. Non ci credevo, dovette mostrarmi il video. Così, mentre aspettavamo i giornalisti, vedevo mio fratello vincere la sua prima gara ed ero più contento per lui che per me.

Senti molto la tua responsabilità nei confronti di Attilio.

Essendo il fratello maggiore, sento molto la responsabilità sia nei confronti di Attilio che nei confronti dell’altro fratello che gioca a calcio e gestisce il negozio di biciclette che abbiamo a Verona. Cerco di dargli una mano, di sentirlo, di consigliarlo. Tornando ad Attilio, credo che abbia delle grandi qualità e che non si sia mai consumato. Tende molto a conservare energie per usarle nel momento giusto.

La sua qualità più importante?

La furbizia. Quando Attilio viene messo sotto pressione, tira fuori il meglio che può dare. Se io lo avessi tranquillizzato, rassicurandolo sul suo passaggio, si sarebbe seduto. Non sarebbe stata un’esperienza formativa per lui e non sarei stato corretto io. Io gliel’ho detto: «Hai sempre vinto nelle categorie minori. Questa è la tua opportunità, uno di quei treni che non passano due volte. Dai tutto». È andata così.

Arriviamo alla Cofidis.

Cofidis è un progetto partito lo scorso anno, quando ero in scadenza di contratto. Il team voleva acquisire la licenza World Tour e avere un leader. Dapprima ci sono stati contatti tra Roberto Damiani e Giovanni Lombardi, successivamente l’incontro con Cédric Vasseur. Un incontro che da subito si è messo sul binario giusto: ero esattamente l’uomo che cercavano. Abbiamo creato un gruppo, scelto corridori che potessero farne parte e consolidato i rapporti con quei ragazzi che già facevano parte del team. In Cofidis sta succedendo qualcosa che non era mai successo prima: sette corridori che corrono per me. È una sicurezza. Credo che questo sia l’ennesimo passo verso il raggiungimento degli importanti traguardi che ancora non ho raggiunto.

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Parliamo di futuro. Futuro prossimo con i tuoi obiettivi stagionali e di carriera, ma anche futuro a lungo termine, pensando a quando scenderai dalla sella.

Diciamo che gli obiettivi a breve termine coincidono con quelli a lungo termine. Ho trentuno anni e penso che i prossimi anni siano i migliori per raggiungere gli obiettivi che mi sono prefissato. In un grande giro, penso al Tour de France, vorrei tornare a vivere quello che ho vissuto al Giro 2018: essere protagonista per tre settimane, vincere più volate degli altri velocisti e, magari, vincere la maglia verde. Arrivando alle classiche: un velocista può vincerne cinque, sei. A me mancano solo Gent-Wevelgem e Milano-Sanremo: le più difficili da vincere, ma anche le più prestigiose. Quest’anno in particolare ammetto che mi piacerebbe testarmi con il Giro delle Fiandre: una gara che ho sempre sentito, anche da spettatore. Vedendola mi esalto. So benissimo che è una gara difficilissima per un velocista, ma quello che fa Kristoff mi è sempre piaciuto e vorrei imitarlo.

Non conosco ancora il programma di quest’anno, se farò le classiche o il Giro d’Italia, ma l’idea c’è. Spostandoci sul lungo termine, non posso non parlare delle Olimpiadi di Tokyo. Al futuro sinceramente non ho pensato molto: di certo vorrei rimanere nell’ambiente. Vedremo in che ambito, se manageriale o seguendo i bambini. Nel frattempo, ho già fatto i due corsi che sono stati proposti dalla Federazione durante questo lockdown, per occuparci il tempo e nello stesso tempo insegnarci qualcosa. Al momento posso allenare i giovanissimi, fra qualche giorno sosterrò un esame e se lo passerò potrò seguire anche esordienti e allievi. Non escludo neppure di restare nel mondo del ciclismo con qualche azienda. Ho un buon rapporto con i miei sponsor: tengo molto a loro, sono stati molto importanti per la mia carriera.

In chiusura parlaci di quella maglia di campione europeo.

Spero di poterla portare ancora un anno, altrimenti l’avrei indossata e goduta davvero poco. Di quell’europeo mi resta il modo in cui l’ho vinto. Se devo essere sincero, però, più che l’europeo vorrei rivincere il campionato italiano. Non so perché, ma l’ho sentito di più. Sarà per la stagione che ho fatto, sarà perché il 2018 è stato un anno speciale, sarà perché ho sentito molto quella gara. Se mi chiedi di scegliere, ti rispondo senza dubbi: vorrei vincere il campionato italiano a Vicenza.

 

 

Foto in evidenza: ©Elia Viviani, Twitter

Stefano Zago

Stefano Zago

Redattore e inviato di http://www.direttaciclismo.it/