Chiamatemi Dr. Hutch: intervista a Michael Hutchinson

Ex professionista e firma di prestigio, Michael Hutchinson conosce benissimo il ciclismo.

 

Nato a Belfast nel 1973, Michael Hutchinson è giornalista, commentatore televisivo – ha lavorato per BBC, ITV, Sky, Channel 4 ed Eurosport -, autore di tre libri di fama mondiale e autorevole redattore presso la rivista Cycling Weekly; ma soprattutto è un ex ciclista professionista. Conosciuto anche come Dr. Hutch, il suo appellativo è dovuto agli studi in Giurisprudenza alla University of Cambridge, al conseguimento di un dottorato in Diritto Internazionale e al ruolo di docente alla Sussex University. Arrivato al ciclismo quasi per caso, ha saputo conquistare più di sessanta titoli individuali nei campionati nazionali tra il 2000 e il 2014. Nonostante le origini siano legate all’Irlanda del Nord, Hutchinson ha gareggiato sia per il proprio paese sia per Gran Bretagna e Irlanda, strappando successi qualsiasi maglia indossasse.

Specializzato nelle corse contro il tempo, Michael Hutchinson ha saputo guadagnarsi a suon di vittorie il riconoscimento di un’intera nazione. Infatti è uno dei corridori più vincenti nella storia sportiva del Regno Unito, essendosi laureato campione britannico su qualsiasi distanza dalle 10 alle 100 miglia. Nel 2005, oltre a cannibalizzare tali corse, ha portato di nuovo a casa anche la maratona delle dodici ore – la sua prima vittoria in tale competizione risale al 2000. Oltre a questo invidiabile primato e ai numerosi rimasti imbattuti fino a pochi anni fa, nel palmarès di Dr. Hutch troviamo inoltre un campionato nazionale nei quattromila metri inseguimento (nel 2002) e due tentativi di assalto al Record dell’Ora, entrambi falliti. Tutta l’esperienza accumulata in sella negli anni passati lo ha portato comunque ad essere uno dei personaggi ciclistici inglesi più interessanti ed autorevoli. Abbiamo avuto il piacere di fare due chiacchiere con lui.

©Amin, Twitter

Michael, innanzitutto partirei chiedendoti come stai. Abbiamo visto tutti la foto da te postata su Twitter: sappiamo che a marzo hai avuto un incidente in bicicletta e sei stato ricoverato in ospedale.

Sì, esatto, ma per fortuna sto bene, grazie. Sono stato investito da una macchina che ha svoltato l’angolo trovandosi contromano. Sarebbe potuta andare decisamente peggio, come di solito capita per questo tipo di incidenti. Fortunatamente ho rimediato “solo” varie escoriazioni su tutto il corpo e qualche taglio sul volto, ma posso dire di stare bene. Sto tornando alla normalità.

Ripercorriamo un attimo la tua carriera. Ti ricordi quando hai iniziato a pedalare?

Onestamente sono salito in bicicletta abbastanza tardi. Avevo circa ventuno anni, anche se già da bambino qualche pedalata l’avevo fatta. Nella mia vita prima c’è stato il nuoto, poi ho proseguito con il canottaggio e infine sono diventato un ciclista. In particolare è stato quando mi sono ritirato definitivamente dal canottaggio che ho iniziato a correre con una vera bicicletta da corsa. Me l’aveva prestata un giorno il papà della mia ragazza, portandomi a fare un giro in un parco di Londra. Me ne sono innamorato subito. Inoltre è stato abbastanza chiaro fin da principio che ci sapevo fare: andavo al doppio della velocità di tutti gli altri ciclisti.

Ricordi anche la tua prima bicicletta?

Certo, la ricevetti da bambino ed era una copia economica della Raleigh Chopper. Non ero molto bravo a pedalare. Il mezzo, inoltre, non mi dava una mano: era troppo piccola per me. Del resto, però, se impari a pedalare con una bicicletta simile, poi tutto viene più semplice. Ricordo pure la mia prima bicicletta da corsa. Anch’essa non fu il massimo, ma almeno mi permise di iniziare. Me la regalarono per Natale i miei genitori (o almeno credo), acquistandola da un amico di famiglia. Era il 1994 e la Kettler – un marchio abbastanza sconosciuto nel Regno Unito – mi avrebbe accompagnato nelle mie prime gare.

©YouTube

Dalle tue prime corse ad oggi avrai sicuramente assistito a diversi cambiamenti. Quali hanno caratterizzato il Regno Unito?

Sicuramente il ciclismo nel Regno Unito è molto diverso da quando ho iniziato io. Prima era uno sport di nicchia e i ciclisti erano davvero pochi. Le gare si svolgevano tutte alla mattina, molto presto, intorno alle sette. Erano solamente su strada e dato che queste non potevano rimanere chiuse al traffico troppo a lungo, ci ritrovavamo a gareggiare all’alba. Quando mi allenavo, invece, era davvero raro incontrare qualcuno in bicicletta. A quei tempi, durante un’uscita di tre o quattro ore, avrei potuto anche non incontrare nessuno. E se capitava di vedere qualcuno in sella era quasi scontato che lo conoscessi, dato che molto probabilmente anche lui partecipava alle mie stesse gare. Ora, invece, la situazione è completamente cambiata. La bicicletta è molto più considerata. Ovviamente la scena ciclistica non è ancora ai livelli di quella degli altri paesi europei, ma ci sono tantissimi ciclisti in strada. Posso dirti che durante il periodo di lockdown ci era permesso usare la bicicletta per uscire di casa e, sembra assurdo, ma le strade erano letteralmente invase da ciclisti. Li trovavi ovunque.

E proprio in questo periodo in cui tutto il mondo sta riscoprendo la bicicletta, tu hai pubblicato il nuovo libro”Re:Cyclists”, che tratta un tema molto attuale. Vuoi parlarcene?

Re:Cyclist” è un libro nato per raccontare la storia del ciclismo, in particolare analizzando la tradizione ciclistica di Regno Unito, Europa e Stati Uniti. Come hai già sottolineato tu, in questo momento storico il libro sembra cascare a pennello. Sono infatti del parere che la bicicletta possa offrire diverse soluzioni. Pensiamo ad esempio al settore dei trasporti e alla nostra salute. Sarebbe il mezzo ideale per favorire il distanziamento sociale, ridurre l’inquinamento e la congestione sulle nostre strade. Abbiamo a portata di mano la soluzione per qualsiasi cosa, o almeno così sembra. Il vero problema è che, parlo per il Regno Unito, sono ancora troppo poche le persone che la pensano in questo modo. Fondamentalmente la gente preferisce la propria macchina e onestamente non ne capisco il motivo. Sedersi al volante e rimanere imbottigliati nel traffico per un’ora quando potresti pedalare all’aria aperta per una quindicina di minuti e percorrere la stessa strada: per me non ha senso. Anzi, mi sembra assurdo.

Passando invece al lato puramente agonistico, il discorso è quasi opposto. Notiamo infatti un aumento di popolarità del ciclismo nel Regno Unito. Abbiamo assistito a vittorie importanti sia su pista che su strada da parte di atleti britannici, fatto che sicuramente ha aiutato in questo senso. Ma qual è la chiave di questo successo?

Credo che la ragione principale per cui questo sport è cresciuto visibilmente negli ultimi anni nel Regno Unito sia proprio dovuto a ciclisti come Wiggins, Froome e Thomas, ma soprattutto al successo ottenuto alle Olimpiadi del 2008 – a Pechino gli inglesi hanno conquistato l’oro su pista in svariate discipline (velocità individuale e a squadre, keirin, inseguimento individuale e a squadre). La svolta più grande rimane quella degli inizi degli anni 2000. Mi sto riferendo al momento in cui la National Lottery ha investito una grande somma di denaro nello sport e, di conseguenza, nel ciclismo. Il cospicuo budget a disposizione ha permesso di pagare i ciclisti, i quali si sono sentiti finalmente più tutelati. Hanno così potuto impegnarsi al massimo ed esprimere tutto il loro potenziale.

Sai, prima di allora i professionisti nel Regno Unito erano pagati davvero poco. Correvano per un paio di anni e poi mollavano. Un sistema simile non poteva funzionare e non poteva portare a grandi risultati. Inoltre la British Cycling è stata molto intelligente a scegliere i propri obbiettivi, concentrandosi perlopiù sulla pista. Sono delle gare che, con qualche accorgimento, possono essere controllate, penso ad esempio ad inseguimento e velocità. Per il Regno Unito, infatti, lo scopo principale era vincere una medaglia, non importava se fosse su strada o su pista. Per il nostro pubblico una medaglia d’oro è una medaglia d’oro, la provenienza non è fondamentale. Conquistare il gradino più alto alle Olimpiadi consente di aumentare però la visibilità dello sport in cui è stata ottenuta, così come i relativi investimenti. La British Cycling ha puntato tutto su questo, riuscendo nel proprio intento e permettendo così di sfornare atleti di tutto rispetto.

©Bloomsbury Sport & Lifestyle

Hai citato Wiggins, Thomas e Froome, tre atleti capaci di vincere nei grandi giri vestendo i colori del Team Sky. Come ci sono riusciti?

Inizio dicendo che loro tre sono stati quelli che hanno maggiormente contribuito, con le loro vittorie, a diffondere il ciclismo nel paese e ad attrarre nuovi appassionati. Parlando invece più in generale del Team Sky, bisogna ricordare che il suo nucleo principale era costituito per la maggior parte da ciclisti presenti nella selezione olimpica britannica per le prove su pista. Partendo da questo zoccolo duro sono riusciti a conquistare diversi grandi giri. Come? Molto semplice: anche loro utilizzavano lo stesso tipo di approccio della British Cycling. Conoscendo le caratteristiche dei propri atleti, analizzavano le gare in programma e focalizzavano l’attenzione su quelle che potevano controllare meglio. Wiggins, Thomas e Froome hanno vinto per questo motivo, oltre che per la loro classe ovviamente. Su ciò non si discute.

Guardando al futuro, invece, un nome su tutti: Tom Pidcock. È lui la nuova promessa del ciclismo inglese?

Tom Pidcock è certamente dotato di un enorme talento. Come Remco Evenepoel, sembra capace di qualsiasi cosa quando è in sella alla propria bicicletta. E lo fa divertendosi e facendo divertire. Devo ammettere, però, che le sue doti da cronoman non sono paragonabili a quelle di Evenepoel, almeno per ora. Si sta ancora facendo le ossa, ma se continuerà su questa strada sarà sicuramente una grande stella del ciclismo.

Dal Regno Unito all’Italia, tornando sulla pista ma rimanendo in un team inglese: che ne pensi di Filippo Ganna? Sembra che il suo obbiettivo principale sia l’assalto al Record dell’Ora.

Credo che sia un traguardo raggiungibile. Pedala bene su strada e su pista e questo lo rende un ciclista ideale per affrontare la prova. In aggiunta Ganna ha molta esperienza per tutto ciò che concerne il lato aerodinamico. Guardiamo ai suoi risultati: quattro volte campione mondiale nell’insegnamento individuale. Chiunque riesce a stare attorno ai quattro minuti nel percorrere quattro chilometri, come accade in una simile gara, non può che non essere un corridore adatto al Record dell’Ora.

E per i grandi giri, invece?

Il discorso è leggermente differente perché qualsiasi gara che si svolge su strada è più incerta e meno prevedibile. Inoltre si deve tener conto che per queste corse bisogna essere attrezzati sotto tutti i punti di vista. Lui è un ottimo cronoman, è evidente, ma nei grandi giri non ci sono solo corse contro il tempo: ci sono anche le salite, ad esempio. Fino ad ora Ganna non ha mai avuto l’occasione di dimostrare se è capace di tenere il ritmo dei migliori quando la strada sale e le pendenze si fanno impegnative. A mio parere potrebbe invece concentrare le proprie energie sulle classiche, che di solito si prestano meglio per un ciclista con le sue caratteristiche. Credo sia il modo migliore per sfruttare al massimo la forza e la spinta delle sue gambe.

©Ride Velo

Poco fa abbiamo parlato del Record dell’Ora. Tu hai tentato l’impresa due volte, ma hai fallito in entrambe. Questa esperienza ti ha però spinto a scrivere un libro: “The Hour”. Da cos’è nata la tua idea?

Il libro “The Hour” è legato al mio primo tentativo di assalto al Record dell’Ora, che purtroppo non è andato come speravo. Inizialmente non avevo pensato di scrivere un libro a riguardo, ma successivamente ho capito che era una storia strana e tale da meritare di essere raccontata. Un professionista di basso livello che decide di intraprendere un’impresa simile, senza nessuna esperienza in materia e quasi senza l’aiuto di nessuno: è qualcosa di curioso e originale. Devo infatti ammettere che è stata un’esperienza un po’ caotica, ma molto divertente e buffa. Quella di buttar giù due righe mi sembrava quindi una buona idea. Alla fine ho scritto un libro.

Ci sono differenze sostanziali tra gli anni in cui hai tentato il Record dell’Ora ed oggi?

Direi che è tutto completamente diverso. Innanzitutto nel 2014 le regole sono cambiate e il nuovo regolamento ha permesso di rilanciare la visibilità del Record dell’Ora. Dopo un periodo lungo vent’anni in cui questa corsa è stata praticamente ignorata, improvvisamente è ritornata in voga. Così oggi abbiamo ciclisti che si dedicano a questa impresa e sempre più sponsor sono pronti ad investire. Inoltre sembra che ogni volta il record fatto segnare precedentemente non sia così impossibile da battere. Prendiamo ad esempio quello di Campenaerts: la sua è stata sicuramente una buona prova, ma ci sono molti corridori che pensano di poter fare meglio. Questa è la cosa più importante per riuscire a migliorare il Record dell’Ora: la consapevolezza che sia alla portata di altri atleti. In più, ora ci sono davvero tante tecnologie e svariati nuovi strumenti che prima non esistevano e che permettono di prepararsi decisamente meglio rispetto a quando ho provato io.

Tentativi falliti a parte, nella tua vita hai vinto titoli nazionali su qualsiasi distanza, dalle 10 alle 100 miglia. Qual era il tuo segreto?

Niente di speciale. Mi preparavo essenzialmente per le prove contro il tempo su media distanza, tra i sedici e i quaranta chilometri per intenderci. Avevo individuato in questo chilometraggio il target principale. Tutto girava attorno ad esso: se fossi stato capace di vincere su queste distanze, allora sarei stato bravo abbastanza per conquistare anche altre gare.

Per le tue caratteristiche hai deciso quindi di specializzarti in questa tipologia di gare. In merito al tema “specializzazione” non si può non parlare di quella del ciclismo moderno. Credi che questo influisca sulla spettacolarità delle gare a cui assistiamo oggi?

È una domanda molto interessante. Prendiamo per esempio Peter Sagan: è un ciclista che sa attrarre nuovi appassionati, fa divertire il pubblico e soprattutto piace alla gente perché è presente (e competitivo) in qualunque corsa, dai grandi giri alle classiche. Invece accade sempre più spesso che i grandi si concentrino solamente su un tipo di corsa, diciamo il Tour de France, influenzando negativamente lo spettacolo offerto dalle varie competizioni. Tutti sono ormai troppo cauti, si studiano e indubbiamente il divertimento ne risente. Se si guarda alla condotta di gara delle classiche, il discorso cambia: è tutto più aperto e meno scontato. È per questo che sono più popolari.

©Vita Sportiva, Twitter

Hai parlato di Tour de France e di spettacolarità. Negli ultimi anni il Team Sky (ora INEOS) è stata la squadra che ha influito di più su di essa. Forte della propria supremazia, ha controllato la corsa, chiudendo la possibilità di vittoria ad altri atleti. Credi che quest’anno cambierà qualcosa?

Non credo. Il Team Jumbo-Visma sicuramente si sta orientando verso una tattica di gara simile a quella del Team INEOS, ma non è ancora al suo livello. Non fraintendetemi: è una formazione molto competitiva, ma onestamente non penso che i corridori nelle fila della squadra olandese, seppur molto forti, possano battere l’attuale INEOS.

La situazione in casa INEOS vede però tre corridori (Froome, Bernal e Thomas) decisi a vincere il Tour. Con tre possibili capitani la situazione sarà difficile da gestire.

È un quadro molto delicato. Io sono piuttosto convinto che Bernal sarà il leader indiscusso per il Tour de France 2020 e credo che Thomas accetterà il ruolo di gregario. Froome è un grande punto di domanda, è molto difficile prevedere cosa farà. Non mi stupirei se decidesse di cambiare squadra prima di settembre. Lui vuole essere l’unico capitano della squadra; dopo quello che ha fatto, crede di meritare la leadership della squadra. Vedremo cosa deciderà di fare, ma, ripeto, non escluderei un cambio di formazione prima del Tour de France.

In virtù delle tue considerazioni, chiudiamo con una domanda secca: chi è il favorito numero uno per la maglia gialla?

Sarà una gara molto strana e dall’esito incerto, soprattutto a causa delle differenti possibilità di allenarsi all’aperto che hanno avuto gli atleti in questo periodo di lockdown. Alcuni non hanno potuto pedalare su strada e questo influirà sicuramente sul loro stato di forma. Comunque, al netto di queste considerazioni e delle precedenti, mi sento di dire che sarà Egan Bernal a salire sul gradino più alto. Credo che al momento sia il miglior corridore da corse a tappe del panorama ciclistico, almeno per tutte quelle gare che non prevedono cronometro troppo pianeggianti. Detto questo, mi piacerebbe assistere ad un cambio di squadra da parte di Froome. Sarebbe un testa a testa davvero molto interessante che potrebbe animare la gara, regalandoci la famosa spettacolarità di cui parlavamo prima.

 

 

Foto in evidenza: ©Alchetron