Se sono una donna lo devo al ciclismo: intervista a Elena Pirrone

Coi suoi ventuno anni, Elena Pirrone è una delle italiane più promettenti.

 

 

In fondo, per qualche strano motivo, Elena Pirrone ha sempre saputo che sarebbe diventata una ciclista; già quando papà, che correva egli stesso in bicicletta, le diceva: «Fai ciò che vuoi, ma pensaci bene». Glielo diceva non perché amasse meno il ciclismo, ma perché la troppa conoscenza di un mondo, o di un meccanismo, ti mette in guardia anche da ciò che di quel mondo potrebbe far male, e soprattutto quando si tratta di una figlia questa possibilità di dolore vuoi scongiurarla. Lei no, lei sapeva quando ancora era troppo piccola per andare in bici. Così aspettó un anno. E questo c’entra tanto con il contesto in cui Elena è cresciuta; ma forse ancor di più c’entra col circostante che è cresciuto in Elena, dentro di lei, proprio mentre gli anni passavano. Pirrone ammette di essere una ragazza timida, che fatica ad aprirsi senza un’approfondita conoscenza dell’interlocutore, e di avere una sorta di insicurezza di fondo che la attanaglia. Non sempre, però. «Quando vado in bicicletta non mi riconosco più. Sono così sicura su quella sella. Sono così profondamente me stessa. Ti direi che su quella bici sono la ragazza che vorrei essere anche nella vita di tutti i giorni. Qui non ci riesco, lì sì. E sto bene».

©ProvinciaBolzano, Twitter

Forse è anche per questo che quando parla della bicicletta, della sua bicicletta, Pirrone vi associa subito la parola “trofeo”. No, non uno di quelli che si vincono, o almeno non nel senso classico del termine. I timidi e gli insicuri da un lato vivono nella costante paura di non piacere, di non essere accettati, di non meritare ciò che accade attorno; dall’altro però vorrebbero solo scuotersi e far vedere che ciò che portano dentro, e che talvolta pesa al punto di far abbassare gli occhi e di zittire ogni parola, merita almeno di essere conosciuto perché potrebbe essere bello. Di più: ogni timido, con gli anni, si accorge che la sua intensità nel vivere è tremendamente bella, seppur dolorosa. Per questo la bicicletta è un trofeo, perché grazie a lei è possibile vedere meglio, ma soprattutto far vedere. Forse anche per questo Elena Pirrone non voleva che nessuno toccasse la sua bicicletta rossa, per paura di non poter più stare così bene. «No, non puoi provare la mia bici: ho sempre detto così a chiunque me lo chiedesse. Alla fine si crea un rapporto talmente intimo che non puoi pensare di lasciarla nelle mani di qualcun altro. È un tuo prolungamento, qualcosa di sacro».

Renato Pirrone, suo padre, era accanto a lei nel giorno della sua prima gara in un circuito vicino a casa. «Lì papà si convinse che in bicicletta avrei dovuto andarci. Ricordo bene l’ultimo chilometro: vinsi tra le bambine e arrivai quarta fra i maschi, con il terzo posto soffiato sulla linea del traguardo. Alla partenza ero contenta. C’è una foto che mi ritrae mentre davo indicazioni ad amici sul percorso. Al traguardo ero arrabbiatissima perché avrei voluto essere terza». Il rapporto con papà è talmente stretto che basta la sua presenza alle gare per tranquillizzarla, allora come adesso. «Ad un certo punto iniziai a provare una forte ansia prima delle corse e per la pressione arrivavo a piangere. Se vedevo papà no, se papà era lì con me mi tranquillizzavo. Mamma un giorno me lo disse: “È inutile che ti porti io alle gare se stai così male. È meglio che tu vada con papà”. Poi sono migliorata, ma ancora oggi in gare particolarmente importanti l’atmosfera tesa che si respira si fa sentire».

Elena Pirrone si iscrive al liceo pedagogico, i risultati ci sono ma non le bastano. «Io volevo proprio andare bene a scuola, non mi bastava la sufficienza». Cambia indirizzo e si iscrive al liceo scientifico. «Sono stata delusa. Da quel momento non ho più detto che facevo sport. C’era una sorta di etichettamento: se fai sport non studi e quindi se non arrivano risultati la colpa è del ciclismo. Capisci che passare le notti a studiare, stare sei ore sui libri anche per materie minori e sentirsi dire così è un dispiacere. La decisione di passare al liceo scientifico sportivo è arrivata per questo: non riuscivo più a conciliare la scuola col ciclismo. Grazie a questa esperienza sono cresciuta, mi sono formata anche come persona. A dimostrazione del fatto che i ragazzi possono avere le loro colpe, ma l’ambiente scolastico fa tanto. Ho fiducia nel fatto che le cose stiano cambiando: gli insegnanti più giovani sembrano capire».

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Sarebbe stato più facile accontentarsi, ma non sarebbe stato da lei. Lei che con la metodica e la costanza nello svolgimento del proprio dovere ha familiarizzato proprio grazie al ciclismo. Quella fatica non le è mai pesata e anzi, col tempo le ha permesso di capire ciò per cui ancora è grata. «In bici, per la prima volta, ho avuto delle stabili consapevolezze in me stessa. Sai, cinque titoli italiani, la vittoria alle Olimpiadi giovanili a Tbilisi, la convocazione in nazionale, dovevano pur voler dire qualcosa. Il passo era ammettere a me stessa che valevo. Non ho praticamente mai saltato un allenamento: io volevo fare la ciclista, ho la possibilità di farlo, sarei un’ingrata a risparmiarmi. Il tempo poi spiega tutto». Elena Pirrone conosce bene il tempo. Nonostante abbia solo ventun anni, col tempo ha maturato una sorta di dimestichezza tale per cui oggi il tempo non la spaventa più. Il tempo “accampa diritti”, diceva Jünger: di più, il tempo non si doma se non per illusione. È una variabile in cui l’uomo è precipitato e contro cui non può lottare, se non come lotterebbe contro i mulini a vento. I ciclisti poi sono vittime sacrificali del tempo. Perché nel ciclismo, salvo che per classifiche particolari, non ci sono punti: c’è il tempo. Una ruota davanti all’altra più che di centimetri è una questione di tempo.

Tutto torna al tempo. «Sarebbe inutile pensare al tempo che passa, non hai controllo su di lui. Ci sono sempre quei dieci o venti secondi in cui pensi di scendere dalla bici e di fermarti. Non li cancellerà nemmeno la tua ossessione. Saranno un incubo ma passeranno, questo è il punto. Bisogna concentrarsi sulla pedalata, sul ritmo che provi a dare al tuo tempo che passa. Su quello puoi influire». Il tempo è la sua ombra. «Guardo la mia ombra in sella e sprinto. È una gara in cui cerco di portare la mia bicicletta qualche centimetro davanti alla sua ombra». È nel tempo, quello prettamente ciclistico, che Elena Pirrone si svuota, quasi cambiasse forma e stato. «Quando mi chiedono cosa provo mentre pedalo in una cronometro o in una fuga solitaria, dico sempre che non ricordo: ed è vero. Non voglio mentire. In quei momenti mi libero di tutto e non sento nulla. È una sorta di cadenzare libero e costante».

La storia di Elena Pirrone è una di quelle storie costruite dalle fondamenta, dalle quali nessun tassello può essere tolto pena il crollo della costruzione. La base sono quegli anni in Mendelspeck, «realtà di papà, un progetto che ha permesso a tante ragazze di crescere e arrivare nelle Elite. Lì ho conosciuto Alessia Vigilia, per me come una sorella». Il punto di stacco, quello in cui si testava la solidità dell’edificio, sono stati gli anni in Astana. «Un salto sentito. Mi sono sempre trovata bene e ho potuto crescere con calma. Si ritorna al tempo: loro mi hanno insegnato a pazientare. Ho trovato un giusto compromesso fra l’istinto, predominante fra le allieve quando ero sempre in fuga, e la razionalità che deve contraddistinguere un’atleta matura. Ho cambiato squadra perché non avevo più certezza sul mio calendario e non potevo permettermelo: avevo bisogno di correre, se volevo meritare la nazionale». Un passaggio fondamentale della sua carriera. «Ho imparato a non sentire la pressione: da anni faccio tutto quello che devo fare, metto il massimo impegno e curo con attenzione ogni dettaglio».

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L’arrivo in Valcar-Travel and Service le ha restituito stimoli e un ambiente familiare simile a quello della Mendelspeck. «Famiglia non toglie nulla a professionalità: le due cose si possono coniugare. Prendi Davide Arzeni: il suo lavoro è tutto incentrato sull’umanità del rapporto con noi. Ti guarda e capisce. Puoi parlarci di tutto, ma spesso non serve parlare. Eppure è di una professionalità rara. Essere professionali non vuol dire essere freddi. Sono contenta di averlo come direttore sportivo: sai quanto fanno bene persone di questo tipo?».

Quest’anno in Valcar è giunta anche Teniel Campbell, promessa del ciclismo caraibico che ha già messo nel mirino una storica partecipazione alle Olimpiadi di Tokyo 2021. Pirrone racconta con un ampio sorriso il suo primo incontro con Teniel. «La prima cosa che le ho detto? “Ma quanto sei alta?”. È davvero altissima. A parte gli scherzi, è veramente un piacere averla accanto: non è per nulla gelosa delle proprie conoscenze tecniche e tattiche. È sempre pronta a darti un consiglio e ad aiutarti. Allo stesso tempo, però, è interessata ai tuoi consigli, vuole sapere cosa pensi. Ti aiuta, sia in corsa che fuori gara. È molto forte e una buona dose di quella forza è nella sua testa: motivata, positiva, decisa. Quando è arrivata non sapeva una parola di italiano, ma provava a farsi capire in tutti i modi e ci riusciva. Ogni tanto la vedi in camera sua che balla a più non posso sulla musica di Trinidad e Tobago che esce dalla radio. Il mondo dal quale arriva è davvero affascinante».

Pirrone ha conosciuto l’ambiente della nazionale sin dalle Olimpiadi giovanili, prima su pista e poi su strada. Se in quell’ambiente si è trovata bene, ciò è dovuto alla sensazione di sentirsi parte di un gruppo. «La forza della nostra nazionale è il gruppo. Non lo diciamo solo noi che di quel gruppo facciamo parte: le altre nazioni ci riconoscono questa caratteristica. Sia Dino Salvoldi che Paolo Sangalli sono attenti a fare gruppo, a curare le dinamiche affinché si possa lavorare meglio. Questo gruppo consente poi la nascita di amicizie fra atlete che normalmente sono rivali: questo per dire del rispetto e della stima reciproca che c’è fra noi. Io sono in costante contatto con loro: se sono l’atleta che sono oggi, c’è molto di loro».

Solo tre anni fa, nel 2017, Elena Pirrone, in ritiro con la nazionale prima dei Mondiali di Bergen, tornava a sperimentare l’incertezza. Far parte del gruppo azzurro è sempre bello, ma il rischio di una esclusione dal Mondiale proprio quando sei lì, ad un passo da un volo per la Norvegia, fa paura. «Sono momenti complessi: se stai bene, dentro di te sai che sarai convocata, ma finché non arriva la convocazione scritta è soltanto un’ipotesi, per cui ora sei alle stelle e ora torni pensierosa. Io lavoravo sempre nel gruppo delle atlete che stavano meglio, ma non puoi mai sapere. Un giorno, al Sestriere, in allenamento mi hanno messo a far la salita con le scalatrici pure: ecco, lì mi sono detta che forse sarei davvero stata selezionata». A Bergen arriva nella migliore condizione possibile, e forse proprio per questo non si sente del tutto tranquilla. «Paradossalmente ero più tranquilla alla cronometro di Herning, dov’ero meno preparata. C’è da dire che lì pioveva e la pioggia è la mia condizione atmosferica ideale».

©Eurosport IT, Twitter

Accade qualcosa di impossibile da spiegare in quella prova contro il tempo, il 18 settembre 2017. «In salita mi sembrava di essere ferma, mi sembrava di non fare un metro, ma i pedali giravano e io non facevo fatica. Volevo solo scollinare il prima possibile». È campionessa del mondo a cronometro fra le juniores. Sul retro del palco c’è una sedia su cui siede l’atleta prima in classifica, in attesa del termine della prova e dell’inizio delle premiazioni. Quando si siede su quella sedia Elena Pirrone, ad alzarsi è Alessia Vigilia. Proprio lei. «Mi ricordo bene un abbraccio con Alessia: ci siamo viste da lontano e siamo corse ad abbracciarci. Tornando in hotel mi sono messa nei suoi panni e mi è dispiaciuto averle tolto questa gioia, sebbene sappia che lei è stata contenta per me. Ma una cosa devo dirla: quando sono salita sul podio ero contenta di avere lei lì accanto. Quel podio vale anche per quello: perché c’era anche lei».

Tre giorni dopo si corre la prova in linea ed Elena Pirrone ammette che il pensiero da parte dello staff c’era stato. Lei avrebbe dovuto portare via un gruppetto di atlete. Certo non poteva immaginare che nessuna avrebbe risposto al suo scatto e si sarebbe ritrovata da sola in testa. «Il Mondiale lo immagini in ogni momento. Lo rivedi nella tua testa centinaia di volte. Per questo non posso dire di non aver immaginato prima quella scena: l’ho immaginata quasi in ogni allenamento e sentivo la pelle d’oca solo a pensarci. Sapevo di poter contare sulle altre compagne e mi ripetevo che, in fondo, un giro era poca cosa. Non consideravo i trenta chilometri mancanti, pensavo: è solo un giro. Provavo ad ingannare la mente». In quei trenta chilometri ha pensato di tutto: scattata in discesa ha creduto che la riprendessero al passaggio sotto il traguardo; al culmine della salita, quando Marco Villa le ha comunicato il vantaggio – trenta secondi -, ha sentito di potercela fare. «Mi sono detta: vinco, vinco io, vinco ancora io. Mi veniva da piangere».

In fuga, come per tante altre gare, vinte e perse, sin da allieva. Da sola, come preferisce, perché «quando sei in fuga da sola prendi la tua velocità e vai. È tranquillizzante, meglio che stare in gruppo». A otto chilometri dal traguardo, dopo il tratto in pavé, la certezza. «Al traguardo, sullo striscione, c’era scritto arrivo: ma io non ho letto arrivo. Io ho letto: è finita, è finita, è finita. Gli ultimi chilometri me li sono goduta: tutti che urlavano per incitarmi, i miei genitori sul traguardo con un collaboratore importante come Giorgio Elli. Sono sensazioni che auguro a tutti. Troppo belle per non sperare di provarle». La capacità di stare al vento in solitaria, di continuare a spingere sui pedali senza cedere di una pedalata, anche quando la voce interiore sussurra: non ce la farai, rallenta e riprendi fiato. Pirrone ha trovato tutto questo negli allenamenti in pista, dapprima in velodromi aperti sui 400 metri, successivamente a Montichiari nei classici 250 metri. «Con la pista ho sempre avuto un rapporto di amore e odio. Dalla pista, una volta, sono stata respinta: ero juniores e avrei voluto far parte del quartetto. Niente da fare, mi hanno scelto come riserva. La delusione mi ha fatto detestare la pista per diverso tempo».

©Valcar-Travel&Service, Twitter

Il cambiamento di visione coincide con una maturità ritrovata, ma soprattutto con un risultato che per Pirrone vale forse anche più dell’Europeo di Herning: dapprima la qualificazione e successivamente il terzo posto conseguito nell’inseguimento individuale al Mondiale di Montichiari nel 2017. «Mi sentivo incompleta perché avrei voluto mettermi alla prova con la pista e non ci riuscivo. Quel piazzamento ha cambiato tutto. La pista, in particolare nelle specialità individuali, è forza pura, lavori sul colpo di pedale ed è utilissima anche per le cronometro: impari a soffrire».

Le volate di gruppo non le piacciono; l’essere spalla a spalla le incute timore e preferisce lasciarsi sfilare, permettendo così ai treni delle squadre delle velociste di posizionarsi. Se pensa alle salite, pensa al Giro Rosa 2017. «Durissimo, sono arrivata all’ultima tappa senza benzina. Del resto lo ha vinto l’atleta che sa gestire meglio la sofferenza fisica: Annemiek van Vleuten». Spiega che van Vleuten è un suo modello, poi scherza: «No, non per gli allenamenti. Annemmiek è pazza. Qualche settimana fa ha fatto un lungo di 400 chilometri. Certe volte si allena con la squadra maschile della Mitchelton-Scott: si mette a ruota degli Yates e non li molla. Una volta aveva talmente male alle gambe da piangere: non si è fermata, non ha lasciato la loro ruota».  Per Pirrone, poi, è un privilegio avere anche una collega del calibro di Elisa Longo Borghini. Da bambina, prima di correre, seguiva il ciclismo maschile, ma non ha quasi mai avuto idoli. «A seconda delle stagioni tifavo per un corridore diverso. Eccezion fatta per Marco Pantani: lui era speciale. E conosco bene Quinziato, dato che anche lui è di Bolzano».

Quando iniziamo a parlare, Elena Pirrone è appena tornata da un lungo e la riflessione sulla sicurezza stradale sorge spontanea. La situazione è impietosa. «Quando ho ripreso ad allenarmi dopo il lockdown venivo insultata anche dagli altri ciclisti sulla ciclabile. Sembra che tutti abbiano perso la calma e siano in preda a non so quale delirio. La gente in strada si ferma e pazienta quando vede un trattore, ma non è in grado di farlo se vede dei ciclisti in doppia fila. Ci vogliono due minuti, non di più. Valiamo meno di un trattore? Sembriamo non meritare la dignità ed il rispetto che si dovrebbero riconoscere a qualunque essere umano. Un amico me l’ha scritto qualche sera fa dopo un giro in bicicletta: “Ora capisco quello che provi”. Nessuna pazienza e troppe distrazioni, il cellulare è solo una di queste».

©Tatiana Guderzo, Twitter

L’atleta bolzanina apprezza le misure varate e i bonus concessi per una mobilità alternativa e sostenibile. «Il fatto che tutti si siano riscoperti sportivi potrebbe essere un bene. Stando sulle strade devono fare i conti con i pericoli che noi corriamo tutti i giorni. Chi lo sa, magari iniziano a comprendere la nostra situazione. Credo che serva una nuova educazione stradale a partire dalla scuola guida: se i giovani cambiano mentalità si è fatto il passo più importante. La Federazione sta tentando di trovare una soluzione in collaborazione con Accpi e le varie associazioni, ma è difficile. Non bastano le pene, serve un approccio diverso».

È proprio la cultura a permeare la riflessione sulla visibilità del suo sport, il ciclismo femminile. «Negli ultimi anni di passi in avanti se ne sono fatti tanti: sia da parte delle istituzioni, sia da parte degli stessi organizzatori. Così l’ambiente ciclistico femminile è più conosciuto e dunque più apprezzato e attraente per il pubblico. L’interesse genera sempre altro interesse, insomma. La speranza è che possano avvicinarsi altri sponsor e che il movimento continui a crescere, guadagnandoci anche in professionalità, attenzione e competenze. I margini di miglioramento non mancano».

Così Elena Pirrone ha accettato la proposta dell’organizzazione del Tour of the Alps per il progetto Live Uphill. «Vogliamo dirlo forte e chiaro: ci siamo anche noi, cicliste provenienti da regioni diverse che saranno presenti alle partenze e agli arrivi per raccontare e raccontarci. È bello che in una gara maschile ci sia anche qualcosa del ciclismo femminile. Un esempio da seguire. Quest’anno purtroppo il Tour of the Alps è stato annullato, ma l’anno prossimo risponderò presente. Se della corsa ci fosse anche una versione al femminile sarebbe il massimo». Perché il ciclismo, come sosteneva Moser, guarda caso anche lui Trentino, insegna prima di tutto a rispondere presente, a dire sì, ad accettare di esserci. Nonostante tutto e nonostante tutti. Forse anche nonostante sé stessi. E questo Elena Pirrone lo sa bene, molto meglio di altri.

 

 

Foto in evidenza: ©Strong Modern Cycling, Twitter

Stefano Zago

Stefano Zago

Redattore e inviato di http://www.direttaciclismo.it/