Un altro giro ancora: intervista a Miriam Vece

Intervista a Miriam Vece, una delle più forti pistard italiane.

 

 

Se Miriam Vece è la ragazza che conosciamo oggi, questo si deve in particolar modo a un inganno. A fin di bene, si capisce: uno di quei tranelli che le persone che abbiamo accanto hanno il diritto, o forse anche il dovere, di tentare quando percepiscono che qualcosa dentro di noi spinge per uscire ma noi, per carattere o per paura, non glielo permettiamo. Nel caso di Miriam, qualcuno ha intuito che in un velodromo quella ragazza sarebbe stata bene; anzi, sarebbe stata meglio. E ha provato a portarcela, a costo di mentirle.

«Quella volta mi avevano ingannata. Mi avevano detto che sarei andata al velodromo, ma avrei girato con la bicicletta da strada. Eravamo a Crema, ero G6. Sono andata proprio tranquilla, cosa vuoi che sia? Mi faccio un giro al velodromo. Come no. Appena arrivata, invece, mi hanno messo su una Colnago rossa e “adesso parti e vai con questa”. Sono andata in crisi, penso di aver pianto per diversi minuti. Un pianto forte, singhiozzando. Non volevo andare, non volevo partire. Avevo paura: ero senza freni in un velodromo all’aperto. Temevo di cadere, di farmi male. A forza di insistere sono partita, stando nella parte inferiore del velodromo, quella blu, con un allenatore che mi affiancava mostrandomi come frenare. Non so come spiegarmi, ma di sicuro come inizio non è stato per niente bello».

©BICITV, Twitter

Chi aveva portato lì Miriam sapeva tutto. Sapeva bene che quella ragazza aveva una paura folle di affogare, ma sapeva altrettanto bene che sarebbe riuscita a stare a galla. Soffrendo, certo, ma in fondo quella era una delle poche vie per scuoterla dal carattere con cui aveva sempre convissuto e a cui ancora oggi, seppur in misura minore, si lascia andare. «Ai primi ostacoli mi ero sempre fermata. Come accadeva qualcosa che mi faceva male, che mi faceva soffrire o mi mortificava, cambiavo strada convinta che quella intrapresa non facesse per me. È successo anche con la pista. Cosa si può pretendere, d’altra parte? Tanti allenamenti, sacrifici, notti insonni e pasti saltati perché le prime volte, da junior, divorata dalla tensione, non riuscivo neanche a mangiare i giorni prima della gara. E poi magari ti qualifichi, fai la prima batteria e ti eliminano. Me lo sono chiesta tante volte: siamo sicuri che questo sia il mio futuro?».

A spronare Vece ci hanno pensato gli allenatori. A dare un poco di consapevolezza a quella mentalità che lei stessa definisce «anche troppo pessimista» ci hanno pensato i risultati nemmeno tanto tempo fa. «Il bronzo ai Mondiali di Berlino è stato fondamentale. Mi è servito qualche giorno per realizzare, ma alla fine mi sono detta: se sono arrivata qui un motivo c’è; forse ho davvero del talento. Non dico questo solo per la medaglia, lo dico in particolare per il tempo dei cinquecento metri: sono arrivata a cinquanta millesimi dalla prima con tempi che fino a qualche anno fa non potevo neanche immaginare. Cosa sono cinquanta millesimi? Con una pedalata in più potevo batterla e diventare campionessa del mondo. Un po’ mi scoccia, sono sincera. Ma rende l’idea».

Il fratello maggiore di Miriam, cinque anni in più, ha corso per diversi anni, fermandosi poi per motivi di salute. Miriam si è ispirata a lui. «Non so neppure come abbia fatto lui ad iniziare. In casa mia nessuno faceva sport. A me avevano fatto iniziare danza ritmica, ma non faceva per me. Da piccola, a sei anni, avevo un poco le idee confuse: non volevo togliere le rotelle alla bicicletta, ero convinta di andare a correre con quelle. Ma poi mi sono sempre divertita. Doveva pensarci mio papà a dirmi di tornare a casa: ero sempre fuori in bici, una biciclettina bianca e arancione, con mia mamma che mi seguiva in macchina per gli allenamenti».

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E non è che Miriam Vece da ragazzina passasse inosservata: campionessa regionale nelle categorie G4 e G5, forte da G1 e G2 al punto dal superare i colleghi maschi. Ma la forza delle opinioni negative che abbiamo su noi stessi è ben radicata da qualche parte: un luogo in cui, chissà per quale motivo, arrivano facilmente le delusioni e le frustrazioni a rafforzarla, mentre le controprove stentano. Anzi, alle controprove non crediamo quasi mai. Possono salvarti i legami con le persone, certo, ma anche con i luoghi o le cose. Perché per quanto tu possa pensare male di te e credere di non meritarli, alla fine ti accorgi che senza non sai stare e forse anche per un atto di egoismo torni là. Così non è esagerato dire che se Miriam Vece non avesse provato ciò che prova per quella bicicletta, oggi non saremmo qui a parlarne. «C’è un rapporto troppo stretto. Me ne sento parte. Per quante volte nei periodi di crisi abbia pensato di gettarla in qualche angolo e lasciarla lì, non saprei mai vivere senza la bicicletta. È un futuro che non riesco nemmeno a pensare. O forse non voglio proprio pensarci».

Quando si è iscritta a ragioneria con specializzazione sportiva, fantasticava su una passione da portare avanti con il sostegno dei genitori; quando, due anni fa, è diventata campionessa europea tra le Under 23 nello sprint e nei cinquecento metri, ha capito che quella passione poteva o doveva diventare un lavoro. «Sai, si parla molto del futuro che uno si sceglie, ma credo sia necessario farsi delle domande. Quante ragazze possono permettersi di scegliere un futuro in sella prendendo trecento euro al mese? Perché da noi gli stipendi sono quelli, meno di un terzo di quelli maschili. La realtà è che se non sei forte, visibile e porti sponsor, non hai molto margine di scelta, per quanto tu possa amare quello che fai».

Un bagno di realtà affrontato con coraggio anche in nome di colleghe che potrebbero e vorrebbero dire le stesse cose, ma non hanno i mezzi per farlo. È con identica schiettezza che Vece tratta il tema della visibilità. «Io vorrei capire perché le nostre gare, strada o pista non fa differenza, devono essere trasmesse in replica ad orari improponibili, mentre le gare maschili devono poter godere di un altro trattamento. È giusto concedere spazio a loro, ma noi facciamo lo stesso sport e duriamo la stessa fatica».

©CONI, Twitter

Confessa che davanti alla televisione non riesce a stare più di tanto e che, se non fosse per la possibilità di praticarlo, un ciclismo esclusivamente televisivo sarebbe noioso. «Se ci sono le mie compagne in gara vedo l’ultimo chilometro. Seguo più la pista anche perché la pratico maggiormente, ma preferisco sempre pedalare rispetto a guardare. E se devo limitarmi a guardare, mi piace farlo dal vivo».

In pista la chiamano Velte, come Miriam Velte, e lei ne va orgogliosa, per quanto a causa di un’inconfessata timidezza che la benedice si imbarazza a parlarne, ricordando come, ben prima che per i risultati sportivi e l’abilità nelle stesse discipline, Velte fosse stata da sempre una fonte di ispirazione in quanto portatrice dello stesso nome. «A Berlino, alle premiazioni, l’ho incontrata. Non siamo amiche, abbiamo scambiato quattro chiacchiere e mi ha fatto i complimenti. Ma mi ha fatto molto piacere. È stato un onore». E se Miriam Vece è degna del soprannome Velte per quanto mostrato in pista, nondimeno lo è per la padronanza con cui descrive il piccolo mondo del velodromo.

A quell’edificio associa una sensazione di ansia e di adrenalina indescrivibili per chi non abbia mai avuto modo di cimentarsi in una gara su pista. Una sensazione con cui ha imparato a convivere, ma che non se n’è mai andata. «In quanto tempo può essere quantificata l’uscita dai blocchi di partenza? Un decimo di secondo, non di più. Ecco, per me quel decimo di secondo è fondamentale. Può compromettermi tutta la gara».

Spiega che teme in misura maggiore il tempo in una gara sui duecento metri piuttosto che l’avversario in una batteria. «Hai paura del tempo perché tutto parte da lì. Un tempo migliore può avvantaggiarti per tutta la prova. Non è matematico, ma è molto probabile. Certo, conta anche l’età: io, a ventitré anni, mi trovo a gareggiare e a competere con ragazze più grandi di me, molte sopra i trent’anni. Al Mondiale sono stata eliminata da una trentasettenne. L’esperienza conta e io, almeno nella batteria, devo ancora acquisirla. Ci si conosce tutte e quando vedo che la ragazza che ho di fronte ha più esperienza, inizio ad essere nervosa: riescono a dosare bene le energie e dove non arriva la forza arriva la tattica».

©F.C.I., Twitter

Differenziando le specialità della pista, riconosce le sue preferite in quelle di velocità. «La resistenza non fa per me», puntualizza. Tuttavia le piacciono anche il team sprint e i cinquecento metri e aggiunge di capire perfettamente lo stato d’animo delle compagne che praticano discipline di squadra. «Se il tuo sbaglio condiziona solo la tua prova, alla fine puoi anche fartene una ragione. Ma se il tuo errore manda in fumo i sacrifici e la preparazione delle altre ragazze, far finta di nulla è impossibile. Per questo  l’errore mette tanta ansia».

Il suo punto di forza, in batteria, sono le partenze: qualcosa di istintivo che resta nonostante un ricordo e tanta paura. «Una volta, in una partenza del keirin, sono incappata in una brutta caduta. Quella abilità, quella di fiutare la partenza giusta, è rimasta nel mio DNA, ma la mente mi riporta sempre a quei momenti e ho paura. Razionalmente non riuscirei a fare ciò che faccio. Si va a sessanta chilometri orari e posso assicurare che tra i manubri spesso non c’è più di un centimetro. Alcune atlete sono molto brave a buttarsi in tutti gli spazi. Io, ironizzando le chiamo, “assassine”. Sono incredibili. Bello da vedere, ma posso assicurare che quando si è lì si ha paura. E quel ricordo torna sempre».

Al netto di ogni timore resta la condivisione, che per Miriam Vece è una delle cifre imprescindibili della pista. «Nel velodromo c’è una sorta di vita parallela che accomuna tutti coloro che sono all’interno della struttura. Si condivide tutto. Con le compagne, ma non solo. In gara non deve essercene per nessuna, ma finita la gara si esce assieme. A Berlino, l’ultima sera siamo uscite tutte assieme: russe, messicane, olandesi. Tutte assieme. Come te la spiego la sensazione?».

Questa incapacità di spiegare un vissuto così forte torna più volte in pochi secondi e il discorso resta intriso della stessa intensità di quei momenti in pista. La prima volta si parla di podio e della sensazione che si prova su quel gradino mentre risuona l’inno. «Pura felicità, nient’altro da aggiungere». La seconda, invece, delle compagne. «Quando ho conquistato il bronzo, tutte le ragazze sono venute ad abbracciarmi e piangevano come avrei pianto io. Alcune erano lì ad aspettare, altre no. Letizia Paternoster ed Elisa Balsamo si stavano preparando per la madison. Erano preoccupate, tese. Hanno smesso tutto per venire da me. Non era così scontato».

©F.C.I., Twitter

Tutte le medaglie e i trofei vinti, Miriam Vece li tiene in camera e mentre parla li guarda. «Sono tutte qui, sai? A volte li guardo e penso che ne vorrei di più. Poi guardo meglio, ci penso e mi dico che per ora possono bastare». La stessa camera in cui, a causa dell’emergenza Covid-19, Miriam Vece è costretta da troppo tempo. «Soffro perché non sono abituata a questa vita. Ho sempre viaggiato tanto e anche quando ero a casa non ero mai veramente a casa perché uscivo con gli amici. Ora sembra tutto finito. Certo, mi alleno: rulli, palestra, ciclomulino. Saranno due o tre ore, e poi? Di sera mi prendono sempre tristezza e malinconia. Mi chiedo tante cose, tante domande a cui non so rispondere. Questo periodo di stacco dalle gare lo avrei voluto condividere con la mia migliore amica: ci vediamo poco e questa sarebbe stata una buona occasione per recuperare. Peccato, sarà per un’altra volta». Sì, perché a Vece i sacrifici che la bicicletta impone non sono mai pesati, salvo in qualche mattina di umore sotto le scarpe, e rinunciarvi vuol dire rinunciare a una scelta che l’ha salvata da tante paure.

Da junior si cimentava abitualmente anche nelle prove su strada, ma sapeva benissimo che non erano il suo terreno. «La strada aiuta per la pista, ci mancherebbe. Ti consente di avere il fondo ed è importante. Lo vedo con gli allenamenti che, anzi, spesso sono una buona occasione per stare da sola con me stessa e pensare. Poi, vivendo in Svizzera, i posti sono stupendi e aiutano. Ti cito Montreux, ma è uno dei tanti esempi che potrei fare. Lì, però, scelgo da sola di stare tanto tempo in sella. Ma io lo chiedo sempre alle mie colleghe: come fate a stare quelle ore in sella, a cosa pensate? A parte il fattore fisico per cui non sono portata per sforzi lunghi e prolungati, ma per sforzi brevi e concentrati anche a livello mentale: però fatico a concepire una gara così lunga». Al ciclocross, invece, non ha mai pensato e «non potrei neanche mai pensarci: il freddo mi infastidisce troppo».

Per la sua scelta deve dire molti grazie, ma uno in particolare, ci tiene a precisarlo. «Parlo di Valentino Villa, il patron della Valcar. Mi ha lasciata libera di scegliere questa via anche se ciò vuol dire non vestire quasi mai la maglia della nostra squadra. Ha acconsentito senza riserve per il mio bene. È una persona speciale». In Valcar c’è la terza famiglia, dopo la famiglia in senso stretto e la famiglia della nazionale. Una famiglia che sente a distanza, che resta importante nonostante tutto. «La tecnologia, in questo, aiuta. Sono sincera, con le ragazze della Valcar ci sentiamo quasi tutti i giorni. Il rapporto è rimasto nonostante le nostre strade siano diverse e lontane».

©Valcar-Travel&Service, Twitter

Vicino a lei, invece, c’è il fidanzato che condivide lo stesso lavoro. «Lui corre il keirin, cosa che io non sarei mai in grado di fare. Anche qui, però, devo ribadire quanto significativa sia la condivisione. Correndo, lui sa ciò che sto provando in quel momento, capisce se sia il caso di starmi vicino piuttosto che di lasciarmi stare. È come se lo intuisse. Caratterialmente siamo molto diversi e forse ci siamo trovati anche per questo. Prima di ogni gara io penso sempre a cosa potrebbe andare male. Lui guarda solo ciò che potrebbe andare bene, così arrivo io a stroncarlo con i miei ammonimenti. È un ottimista nato e la via di mezzo fra ottimismo e pessimismo è molto difficile da trovare».

Parlando di keirin, Miriam Vece ripesca uno dei ricordi legati a quella specialità che non ha quasi mai praticato. Un ricordo che fa tornare Davide Arzeni, soprannominato Capo, e punto di riferimento per tutte le ragazze che abbiano avuto la fortuna di allenarsi con lui. «Non ho conosciuto molto Davide, non è mai stato il mio allenatore. Credo che lui non se ne intenda nemmeno delle discipline veloci della pista, quindi figuriamoci. So che lo chiamiamo tutte Capo, che quel soprannome viene da prima della Valcar e poco altro. Però una cosa non la scorderò mai. Ero alla Sei Giorni di Fiorenzuola e a portarmi su nel keirin c’era Davide. Io tremavo per l’ansia e per la paura. Ma anche lui tremava, forse anche più di me, mentre mi spingeva. Io so spiegarti il mio tremore, so dirti il perché, so dirti cosa sentivo nello stomaco. Il suo no, non riuscirei. Del suo posso solo dirti che mi ha commosso per quanto mi era vicino. Lui era me in quel momento. Non abbiamo detto una parola. Non serviva».

 

 

Foto in evidenza: ©Diretta Ciclismo, Twitter

Stefano Zago

Stefano Zago

Redattore e inviato di http://www.direttaciclismo.it/