C’era una volta un casco blu: intervista a Soraya Paladin

Per proseguire la sua carriera, Soraya Paladin ha scelto la CCC-Liv.

 

 

Soraya Paladin ricorda molto bene un giorno del primo ritiro con la CCC-Liv. Era con le compagne di squadra e parlava di abilità sviluppate e di competenze da migliorare, una sorta di riunione come tante altre. Ma Soraya non ricorda quel giorno per la riunione; lo ricorda per aver provato a fidarsi e non essere stata tradita. «Sai, io non sono molto brava in discesa, devo migliorarmi. Qualche tempo fa, in ritiro, parlando con Marianne Vos, ho ammesso questa mia carenza e il desiderio di crescere in questo campo. Ho ammesso una debolezza e quando ammetti una debolezza non sai mai cosa trovi dall’altra parte. Voglio dire, serve coraggio per ammettere una debolezza. C’è chi non capisce, chi non vuole capire e chi magari deride quella tua debolezza. Marianne, invece, mi ha subito preso da parte per dirmi: “Non è niente. Facciamo così: da adesso facciamo più discese e tu ti metti alla mia ruota. Le discese le fai dietro di me. Tutti pensano che sia scontato andare in discesa e invece non è così. Bisogna allenarsi. Io disegno le traiettorie e tu mi segui, va bene?”. È andata più piano per me, capisci? Sapevo fosse disponibile. Un esempio per tutte noi. Fa piacere. È come prenderti per mano. È un gesto di protezione, di cura. Bisogna essere grandi per essere capaci di questi gesti».

©Soraya Paladin, Twitter

E fa strano sentire una confessione di questo tipo, così intima, da una ragazza che solo qualche minuto prima si era definita «introversa ma forse ancor più fredda». Forse quel giorno, almeno in parte, ha cambiato la ventiseienne di Treviso: quel cambiamento che solo la dimostrazione dei fatti è in grado di imprimere. Perché, in fondo, siamo quel siamo anche per ciò che ci succede. Cosa ne può sapere il mondo? Quella dimostrazione dei fatti che lei cerca sempre di dare. «Prendi il rapporto tra me e mia sorella Asja. Lei è la più sensibile della famiglia, molto istintiva. Ha un’interiorità piena e la mostra spesso. Non sai quante volte mi dice che per lei sono un esempio, un punto di riferimento, che da me ha da imparare, che mi vuole bene. È molto bello, io però non sono capace. La mia interiorità la proteggo con le unghie e con i denti. La custodisco. Più che di esprimerli a parole, i miei sentimenti cerco di dimostrarli. Adesso magari litighiamo e andiamo più d’accordo in corsa che a casa, ma sono certa che un domani capirà. Capirà che tutte le volte che mi volto in gara e non la vedo ho un sussulto. Che mi fa paura non vederla». Così quella parlata razionale ogni tanto si lascia andare alla forza del ricordo e del sentimento, e Soraya parla come forse parlerebbe Asja. Del resto sono sorelle.

Accade, per esempio, quando ripensa alla vittoria di Marta Bastianelli al campionato europeo: quando si dice «felice perché quando vedi una compagna così felice come puoi restare indifferente?»; e chiosa con un «ci teneva tanto» che racchiude e condensa il racconto di quel giorno. Il lavoro delle compagne, tutte per una e una per tutte, e quella fatica che si accetta, in gran parte, proprio grazie agli altri. Come le è successo al Giro Rosa 2019 quando, per la prima volta, si è ritrovata nei panni di capitano con ambizioni di classifica. «Sai quante volte avrei mollato tutto e sarei tornata a casa? Sai quante volte succede? Poi non lo fai. Non lo fai perché le tue compagne credono in te più di quanto ci creda tu stessa. Come si spiega la forza di andare avanti che trovi quando hai accanto persone che credono in te e che ti credono? Credono che tu possa farcela e credono a ciò che senti, a ciò che dici. Non si spiega. Ma è uno dei rari momenti di perfezione in questa vita».

Già, anche perché l’estate 2019 per Soraya non era iniziata bene. Suo papà Lucio, pochi giorni prima della partenza del Giro Rosa, ha un brutto malore e viene ricoverato d’urgenza. «È stato difficile partire. Chiamavo tutti i giorni a casa, ma quando sei lontana non sai mai se ti dicono la verità. Papà sta bene? Sì, sì è fuori pericolo. E tu ci credi? No, spesso non ci credi. Vorresti vederlo». Così deve avere pensato anche il signor Lucio Paladin, che era al traguardo di Maniago insieme alla mamma di Soraya infischiandosene del parere dei medici. Ma forse qui vale lo stesso: quando una figlia è lontana e ti dice che sta bene ti fidi? No, vorresti vederla. Così mamma e papà hanno riabbracciato Soraya sotto un temporale estivo in piena regola.

©Soraya Paladin, Twitter

«Sono dei bravi genitori, devo solo ringraziarli. Mi hanno sempre detto di restare umile e poi sarebbe arrivato quello che sarebbe arrivato. Credo di aver seguito il loro consiglio, almeno ci ho provato. Loro sono contenti di ciò che faccio, ma non solo per i risultati: sono contenti perché mi vedono soddisfatta». In casa Paladin si praticava mountain bike a livello amatoriale sin da quando Soraya e Asja erano piccole. «Un giorno, avevo sei anni, papà mi ha proposto di provare andando in un campo sportivo vicino a noi. Poi ho iniziato a praticare anche pallavolo e calcio, ma nel giorno della scelta non ho avuto dubbi». Per un periodo di tempo, da esordiente, ha praticato anche ciclocross e tutt’oggi ammette che «è molto più divertente rispetto al ciclismo su strada».

Ha scelto il ciclismo su strada perché il cross, almeno in Italia, non offre molte possibilità per il futuro. Lo ha scelto portando avanti gli studi al liceo scientifico ed iniziando anche l’università, smessa negli ultimi tre anni quando ha capito che il ciclismo avrebbe potuto essere il suo lavoro. «Tornerò sui libri. Studiare mi piace, ma il tempo è una variabile imprescindibile della vita. Per realizzare questo sogno, fare la ciclista, il mio tempo è limitato e devo sfruttarlo al massimo. Non ci sono prospettive a lungo termine in questo campo. Per studiare avrò tutta la vita». Delle prime pedalate ricorda la sua Pinarello verde con ancora le gabbiette per i pedali, ma soprattutto un casco blu. «Io ero affezionata al casco più che alla bicicletta, vai a capire perché. Da bambini ci si lega a dettagli. L’ho custodito per molto tempo, quel casco; poi i miei genitori hanno deciso di donarlo ai giovanissimi. Sono sincera: mi spiace e mi chiedo ancora oggi perché».

Sorride ripensando a una compagna di squadra di quei tempi che ha preso un’altra strada, ma che ancora oggi sente talvolta al telefono. «Vinceva sempre lei, anche contro i maschi. Le volevo bene e giocavamo assieme, ma ammetto che mi faceva un po’ rabbia. Però non potevo guardarla male: eravamo compagne». Soraya si ferma un attimo e ride ripensando alla ingenuità di quei momenti. Per qualche istante vorrebbe tornare indietro. Alle vacanze in camper con i genitori, «perché i miei mi hanno sempre abituata a viaggiare, a conoscere piccole realtà, e oggi il mio lavoro mi piace anche per quello»; alle gare a cui assisteva, «mi immedesimavo nelle gare femminili, ma il pubblico delle gare maschili era unico: penso ai campionati italiani di ciclocross o ai mondiali di Varese e di Mendrisio»; e a quel tifo per Ivan Basso, Tom Boonen e Fabian Cancellara, «non ho mai avuto modo di parlarci, ma li ho incontrati e a casa conservo qualche autografo». Poi quella nostalgia si riflette sul presente. «Mi rivedo molto nei bambini che vengono a tifarci alle gare. Quegli occhi così piccoli eppure grandi. Loro vedono qualcosa in più di quello che vediamo noi, ne sono certa. Altrimenti quegli occhi non si spiegano».

©ACCPI Assocorridori, Twitter

Crede che sia un bene correre le gare femminili assieme a quelle maschili perché la forza che ti offre il pubblico «ti fa spremere energie che non sapevi nemmeno di avere. A San Sebastián, l’anno scorso, mi sono commossa». Ai tifosi dice solo grazie, poi aggiunge una precisazione. «Io li capisco benissimo quando dicono che, qualche volta, noi atlete sembriamo avere la puzza sotto al naso. Dall’esterno l’impressione può essere quella, ma posso assicurare che non è così. Sono la tensione, la paura, l’adrenalina a complicare quei momenti. Al termine delle gare è diverso: se ho cinque o dieci minuti di tranquillità, a me piace dedicarli a loro».

Probabilmente quella che Soraya Paladin definisce freddezza è più un saper prendere la giusta distanza dalle cose, non lasciarsi intrappolare dalla realtà circostante e mantenere un punto di vista serio, poco influenzato da facili entusiasmi. Accade così anche quando si parla della copertura mediatica del ciclismo femminile. «I media dovrebbero dedicarci più spazio. Se la gente potesse vedere le nostre gare in diretta, verrebbe più spesso a tifare sulle strade. Però bisogna essere oneste: noi spesso non siamo così disponibili. Perché? Perché fare un’intervista prende tempo, fare un servizio televisivo o fotografico prende tempo, perché abbiamo tanti impegni. Ma se non siamo capaci di rinunciare a qualcosa di nostro per un bene comune, poi di cosa ci lamentiamo?».

Se potesse scegliere una classica, sceglierebbe il Giro delle Fiandre o l’Amstel Gold Race, «ma in realtà andrebbe bene qualunque classica. In quelle terre c’è un rapporto di attesa reciproca: loro ci aspettano tutto l’anno, ma anche noi aspettiamo loro. Li aspettiamo perché per loro noi siamo la cosa più importante. Per loro il ciclismo è la cosa più importante». Soraya Paladin sta ancora cercando di capire l’atleta che può diventare, ma è sulla buona strada. «Ho scoperto di tenere molto bene su salite di media lunghezza, diciamo di cinque o sei chilometri. In volata me la cavo, anche se non tocco i picchi delle velociste. Devono essere volate ristrette per poter dire la mia. Credo potrei essere anche una discreta atleta nelle cronometro, ma dovrei lavorarci e non l’ho mai fatto: forse perché non riesco bene a gestire la fatica da sola contro quelle maledette lancette. Non sarei una campionessa, ma potrei fare molto meglio». Le piace la salita, la fatica e un motto: quando la strada sale non puoi nasconderti. Una sorta di catarsi, per buttar fuori in sella quella interiorità che fatica a farsi spazio fra le parole della gente; per depurare quella interiorità e sopportarla meglio perché quando hai tutto dentro è sempre più difficile. Bisogna alleggerirsi, ognuno a modo suo: Paladin lo fa scalando.

©Vélofocus, Twitter

L’interessamento della CCC-Liv è arrivato nelle settimane immediatamente successive alle classiche dello scorso anno. «Ho iniziato in Fassa Bortolo, una grande scuola di ciclismo dove si è seguiti con attenzione. Alla Alé Cipollini ho imparato l’autonomia, a gestirmi da sola: due massaggiatori, uno staff di alto livello e la consapevolezza di dover diventare adulta; una squadra italiana con tante ragazze italiane, anche. È stato difficile scegliere di andare via, ma lo dovevo a me stessa. Dovevo provare a fare un passo in più. Questo sentivo e questo ho fatto». Ora, in CCC, l’unica collega italiana è Sofia Bertizzolo, con cui condivide il medesimo stile di vita. Anche lo staff olandese ha un modo di lavorare nettamente diverso. «Li ho conosciuti poco, ma sono diversi da noi. Loro scindono nettamente il lavoro dai rapporti umani. Non che i secondi non ci siano o non siano importanti, ma per lavorare bene serve scinderli. Questa è la loro filosofia. E poi c’è un respiro internazionale, senza dubbio».

Poco più di un mese fa la diffusione del Covid-19 ha imposto lo stop di tutte le attività, il distanziamento sociale e di conseguenza anche il fermo alle gare. «All’inizio l’ho presa malissimo. Non sono abituata a stare in casa e la mia indole quasi mi spingeva a fare quello che non andava fatto: una sorta di ribellione, insomma. Vedevo che negli altri paesi si correva e cadevo ancora di più nello sconforto. È bruttissimo non sapere neppure quando si tornerà alle gare, me lo chiedo sempre. Ora ho accettato la situazione: fermarsi e mettere piede a terra è l’unico modo per ripartire».

Al mattino, al risveglio, qualche esercizio a corpo libero e di risveglio muscolare; poi un’ora e mezzo di rulli, replicati al pomeriggio e alternati con qualche sessione di palestra: questa è la sua giornata; poi, una confessione. «Quando tutto questo sarà finito prenderò la mia bici e starò fuori tutto il giorno. Anzi, a dire il vero sto già programmando un’esperienza di bike trekking. Bisognerà vedere il tempo a disposizione, ma mi piacerebbe percorrere tutta la costa e arrivare fino in Puglia: per riprendermi la libertà e gustarmela fino all’ultima goccia. In ogni caso vorrei restare in Italia: il nostro paese ha bisogno di noi, in questo periodo più che mai. Ricordiamocelo quando programmiamo le vacanze».

Sì perché ogni tanto, quando il tempo lo permette, Soraya parte. Come questo autunno, quando in una pausa si è attrezzata ed è andata a Roma in bicicletta: tre giorni per arrivarci, due giorni di visita in città ed il ritorno in pullman. E l’organizzazione? «Non bisogna organizzare tutto: prendi il momento e vai. Mi sono promessa che almeno una volta all’anno ripeterò queste esperienze». La bicicletta è compagnia e solitudine. «Se devo allenarmi, preferisco uscire da sola: sbrigo tutto il mio lavoro senza alcun problema e poi torno. Se però voglio svagarmi, mi piace stare in compagnia. Qui siamo un bel gruppo: niente musica nelle orecchie; ci sono colline, vigneti, tanto verde e i profumi della natura da sentire. Mi lascio andare e mi concentro su quelli». Ogni tanto ci si ferma anche in trattoria: un buon vino rosso e una fiorentina.

©Soraya Paladin, Twitter

I rapporti umani nel ciclismo sono tanti e tutti diversi. Non sempre resta qualcosa, talvolta non si va oltre il semplice rapporto di lavoro. Soraya Paladin scandisce un «è normale» che, per qualche istante, ce la riconsegna come all’inizio dell’intervista: introversa e schiva. Poi aggiunge: «Ogni tanto prendo il telefono e trovo un messaggio. È il mio primo allenatore: “Cosa ti avevo detto io? Non ti avevo detto che ci saresti riuscita? Dimmi che non te lo avevo detto”. Ed è vero: sin da giovanissima lui mi diceva sempre che se fossi riuscita a coniugare la vita da atleta, seria e rigorosa, con una buona dose di leggerezza e spensieratezza, avrei fatto grandi cose. Quei messaggi sono lì, ogni tanto mi arrivano e ogni tanto li rileggo. Più passa il tempo e più mi sembrano azzeccati, sai?».

 

 

Foto in evidenza: ©Soraya Paladin, Twitter

Stefano Zago

Stefano Zago

Redattore e inviato di http://www.direttaciclismo.it/