Prima venne la passione: intervista a Paolo Alberati

Ciclista, allenatore, biomeccanico, procuratore, scopritore di talenti, giornalista, laureando, padre.

 

 

Si farebbe prima a dire quel che non è Paolo Alberati, dato che è – o fa – di tutto. Tuttavia, basandosi il giornalismo su fatti concreti e tangibili, sarà il caso di dire quel che Paolo Alberati è – o fa. È stato un professionista, su strada prima e in mountain bike poi; ha il tesserino da giornalista; ha scritto qualche libro; è laureato in Scienze Politiche e la seconda laurea, Scienze Motorie, dovrebbe arrivare il prossimo anno; è allenatore e biomeccanico, procuratore e scopritore di talenti; è padre, tanto per non farsi mancare niente, e appassionato di ciclismo, in caso non si fosse capito.

Paolo Alberati, nato il 13 aprile 1973: dunque, quarantasette anni a breve; tutt’altro che anziano, insomma. Eppure, fai parte del mondo del ciclismo da una vita. Da quando?

Da quarant’anni, a occhio e croce. Rimasi folgorato dal ciclismo una domenica mattina di maggio, sarà stato il 1979 o il 1980. Uscito dalla messa, andai a vedere il gruppo del Giro d’Italia che passava lì vicino. Quei momenti non me li scorderò mai: il pubblico, l’attesa, la carovana; quel silenzio surreale che riempie il vuoto tra il passaggio delle moto e i ciclisti. E poi, ovviamente, il passaggio del gruppo: il fruscio, i nostri applausi e incitamenti. Qualcuno gettò una borraccia ai miei piedi, la conservo ancora. Tornato a casa, vidi gli ultimi chilometri della tappa alla televisione ripensando al fatto che io, quel gruppo che ora vedevo alla televisione, l’avevo incitato e applaudito dal vivo poco prima. Dissi a me stesso: devo fare il Giro d’Italia. L’ho fatto una volta e basta, è vero, ma il mio primo sogno l’ho realizzato. Se fossi morto il giorno dopo, non avrei avuto dubbi: vivere per realizzare quel sogno, vivere per partecipare almeno una volta al Giro d’Italia, ne era valsa la pena.

©Paolo Alberati

Chi era il tuo modello di riferimento, all’epoca?

Indurain, senza dubbio: in lui ritrovavo il mio modo di pensare e d’essere; una certa affinità, ecco. Cosa vuoi che ti dica? Era un fuoriclasse e, particolare tutt’altro che scontato, un signore. La superiorità e l’eleganza con le quali si muoveva nel gruppo avrebbero colpito chiunque. Era un capitano vincente e autorevole che sapeva lasciare qualcosa anche agli altri: a volte, anche più di qualcosa. Non era ingordo, ecco, nonostante il carisma e il talento di cui disponeva. Ho un aneddoto a riguardo, a testimonianza della sua unicità.

Prego, Paolo.

Eravamo alla Vuelta a Mallorca, 1996, una delle prime gare della stagione. La giornata era fredda e ventosa, si pedalava su strade dritte e larghe, dunque bisognava stare attenti ai ventagli; in testa, la Telekom manteneva alta l’andatura per propiziare la volata di Zabel. Io rimasi a lungo tra il terz’ultimo e il quart’ultimo posto: non vedevo l’ora che quella tortura finisse. A un certo punto, mi rendo conto che Indurain è in fondo al gruppo; poco dopo, noto che ha recuperato alcune posizioni; poi sparisce verso la testa del gruppo. Fece così altre volte. Per rendere l’idea: a causa del vento e dell’alta andatura, tra la testa e la coda del gruppo ci saranno stati trecento metri. Siccome si era accorto che lo osservavo senza capire, con una gentilezza impensabile mi spiegò che stava facendo un lavoro specifico perché doveva smaltire ancora qualche chilo di troppo. Poi si scusò, ché non pensassimo che stesse sfoggiando la sua classe e la sua potenza per irridere noi disperati in fondo al gruppo. Nonostante fosse Indurain, nonostante lo sforzo del momento, nonostante la situazione di corsa tutt’altro che tranquilla, ebbe una parola anche per me. Mi confermò l’idea che mi ero fatto di lui. Certo, le vittorie degli italiani non mi lasciavano indifferente, ma per me come Indurain non c’era nessuno.

©Paolo Alberati

Com’è stato passare da Indurain, e quindi dal ciclismo su strada, alla mountain bike? A livello di seguito, credo si possa dire che non c’è paragone. A maggior ragione vent’anni fa. Sbaglio?

No, assolutamente, ma è necessario fare qualche puntualizzazione. La prima: a differenza del ciclismo su strada, io nella mountain bike trovai il minimo salariale; un aspetto importante, per chi vive il mondo del ciclismo da dentro. La seconda: essere un atleta professionista della mountain bike è pur sempre faticoso. Si tratta di un lavoro totalizzante, che ha moltissimi punti in comune col professionismo su strada: gli allenamenti, le corse, i sacrifici, l’alimentazione, le trasferte. Spesso, gli atleti che preferiscono la mountain bike alla strada vengono consideranti amanti di uno sport secondario: ma non è così e io posso dirlo. Vent’anni fa, quando nella mountain bike arrivai anch’io, la percezione era ancora più estrema. Di mountain bike si parlava poco o nulla. La Compagnia Editoriale, ad esempio, dedicava qualche specchietto alla disciplina su Cicloturismo. Io, avido lettore di Bicisport, decisi di scrivere a Sergio Neri dicendogli che dal mio punto di vista era sbagliato trattare la mountain bike come uno sport minore. Lui mi rispose quasi sfidandomi, invitandomi a scrivere qualcosa in prima persona. Decisi di parlare della Parigi-Roubaix riservata alle mountain bike vinta proprio da un italiano, Yader Zoli. La copertina del numero successivo di Cicloturismo fu dedicata proprio alla vittoria di Zoli: fu allora che capii che qualcosa si stava muovendo. Dopodiché, venni convocato nella redazione romana della Compagnia Editoriale: mi fu chiesto di collaborare con MTB Magazine, la terza rivista mensile della Compagnia Editoriale che sarebbe nata di lì a poco. Questo per dire che la mountain bike è una disciplina relativamente giovane che io, tuttavia, ho sempre vissuto con passione, energia e coinvolgimento come facevo col ciclismo su strada: altro che sport di serie B. Terza e ultima considerazione a riguardo: la mountain bike ha una natura e un calendario meno frenetico rispetto al ciclismo su strada, quindi permette di portare avanti una quotidianità tutto sommato tranquilla. I miei undici anni di professionismo nella mountain bike, ad esempio, mi hanno lasciato il tempo e lo spazio per studiare.

A proposito di studio, Paolo: sei laureato in Scienze Politiche, hai il tesserino da giornalista e hai scritto qualche libro. Un profilo inusuale, per un atleta professionista.

Il prossimo anno, peraltro, arriverà la seconda laurea: quella in Scienze Motorie. Avrei voluto puntarci vent’anni fa, ma se non ricordo male lo sbocco principale era quello didattico: insegnante di educazione fisica, insomma, che a me non interessava. E poi c’era la frequenza obbligatoria, vincolo che non potevo rispettare per ovvi motivi. Partirei dalle origini. Io ho frequentato la scuola elementare del mio paese, nella campagna umbra. Per la scuola media, invece, mi sono spostato a Perugia, dato che ogni mattina mio padre ci andava perché docente di Agronomia all’università di Perugia. Durante il primo quadrimestre delle medie, faticavo persino a parlare italiano, abituato com’ero al dialetto. Poi mi iscrissi al liceo classico, la scuola più dura della città. Non ero un secchione, ma mi impegnavo e me la cavavo bene. Studiavo alla sera e alla mattina presto, dato che il ciclismo richiedeva una dedizione sempre maggiore. Latino mi piaceva molto, avevo otto. Finite le superiori, decisi di concentrarmi esclusivamente sulla bicicletta: se nel 1992 ho vinto tre corse, pensavo all’epoca, ora che ho tutto il tempo del mondo da dedicare alla bicicletta mi leverò delle belle soddisfazioni. Macché, nel 1993 non andavo, fu una stagione terribile. Per farla breve, capii che non potevo scindere il ciclismo dallo studio. I pomeriggi di quell’anno passati al centro commerciale o a perdere tempo con gli amici mi avevano devastato, influenzando negativamente anche il rendimento sportivo. Sentivo di dover e di voler ricominciare a studiare. Scelsi Scienze Politiche. Ho impiegato molto tempo a concludere quel percorso, una decina d’anni, ma non avrebbe potuto essere altrimenti: ero un ciclista professionista, avevo tanti impegni da rispettare e passavo diversi giorni lontano da casa. E poi, alla fine di quel primo percorso universitario, arrivò Bartali.

©Paolo Alberati

Cosa c’entra Bartali, adesso?

C’entra, c’entra: stai a sentire. Gino Bartali muore il 5 maggio 2000 e il 7, due giorni dopo, ci sono i funerali. Siccome io, essendo un ciclista professionista, non voglio perdere un allenamento all’inizio di maggio, decido di farmi accompagnare in macchina: poi, dopo il funerale, sarei tornato in Umbria in bicicletta. Adriana, la moglie di Bartali, tempo prima mi aveva raccontato che era stata ad Assisi e alcune suore del posto le avevano detto che suo marito, negli anni della Seconda Guerra Mondiale, era venuto tante volte ad Assisi. Il giorno del suo funerale, insomma, decisi di tornare a casa in bicicletta. Arrivo a Magione, a due passi dal Lago Trasimeno, e alcuni anziani vedendomi in bicicletta si rivolgono a me con un nomignolo che non avrei dimenticato: Bartali. Che c’entra Bartali?, mi viene in mente. Glielo chiedo e mi rispondono che Bartali, negli anni della Seconda Guerra Mondiale, passava spesso da quelle parti. Insomma, era la storia dei documenti che Bartali nascondeva dentro la sua bicicletta e portava ad Assisi, aiutando così centinaia di giovani ebrei. Quella storia fu la mia tesi di laurea e diversi passaggi sono stati ripresi nella sceneggiatura della serie televisiva che andò in onda nel 2006 e nel libro che io stesso ho scritto su di lui, “Mille diavoli in corpo”. Un bel connubio tra sport e cultura. E anche tra fortuna e impegno: la fortuna d’essermi imbattuto in una storia simile e l’impegno che c’ho messo per viverla, per capirla, per farla mia. Una volta, provai anche a ripercorrere le strade di Bartali: alloggiai a Firenze e la mattina dopo partii per Assisi, desideroso di ritornare a Firenze in serata, come faceva Gino. Quando mi resi conto che la notte mi avrebbe sorpreso fuori, decisi di tornare direttamente a Perugia e di ripartire in bicicletta il giorno dopo per recuperare quello che era rimasto a Firenze. Pensa cos’era Bartali: con le strade, i mezzi e le tensioni dell’epoca, in un giorno copriva oltre trecento chilometri in bicicletta. E io, nei giorni del tentativo, non ero uno sprovveduto: ero pur sempre un ciclista professionista.

Una persona coi tuoi interessi, Paolo, non può non avere un’idea sullo stato del giornalismo sportivo italiano. Qual è?

Guarda, proprio in questi giorni sto leggendo una raccolta di articoli ciclistici firmati da penne come Montanelli e Raschi. Non capisci qual è il confine tra cronaca e poesia, per rendere l’idea. La mia domanda è: chi sono i riferimenti giornalistici dei tanti giornalisti odierni? Se si scrive di ciclismo dimenticandosi che di ciclismo hanno scritto giornalisti come Montanelli, Raschi e Brera, come si può pensare di saper scrivere bene? Raccontavano storie, approfondivano, con la scusa del ciclismo parlavano d’altro. Molto semplicemente, i loro pezzi erano belli da leggere. Uno dei giornalisti che ho letto più volentieri negli ultimi anni era Marco Pastonesi, ma la sua avventura a La Gazzetta dello Sport non è finita bene. Quando si apprendono notizie del genere, viene da pensare che il giornalismo non vada nella direzione giusta: che, a mio modo di vedere, dovrebbe essere quella della qualità, della bella pagina e della bella scrittura, dell’originalità; e non quella del titolo che fuorvia, della cronaca scritta di eventi che fino a pochi minuti prima sono stati visti in televisione, del numero di accessi al sito o di copie vendute in edicola, dello scandalo a tutti i costi. Di storie belle, appassionanti e coinvolgenti da raccontare ce ne sono tantissime: basta aver voglia di cercarle, di scovarle, di raccontarle. Se poi si vuol pensare soltanto ai numeri e al guadagno immediato, liberi di farlo: non lamentiamoci, però, quando non riusciamo a trovare niente di bello da leggere.

©Paolo Alberati

Tu, invece, riesci sempre a trovare qualcosa da fare: prima l’atleta professionista, nel frattempo lo studio e la prima laurea, poi il procuratore. Com’è nata la tua attività? Che procuratore è Paolo Alberati?

Dovresti chiedere ai miei assistiti, io sono di parte e rischio di darti una visione estremamente soggettiva. Ci provo, comunque. Quando correvo ancora per mestiere, mi capitava sempre più spesso di avere a che fare con dei giovani che si stavano affacciando allora al ciclismo di primo piano: juniores e dilettanti, diciamo. Però non si trattava di un lavoro vero e proprio, bensì di consulenze e consigli basate su esperienza, agganci e amicizia. Ero la figura esperta di ciclismo che aiutava i più giovani ad inserirsi. Tuttavia, sentivo che prima o poi questo lato del mio carattere sarebbe potuto sfociare in qualcosa di più interessante e strutturato. Finché nel 2012 non ho sostenuto la trafila che l’UCI ritiene necessaria per diventare un procuratore a tutti gli effetti. Dal 2018 lavoro in compagnia. Maurizio Fondriest, che aveva visto nascere e crescere Gianni Moscon, si interessava da tempo alla mia attività: chiedeva, domandava, curiosava. E io spiegavo. Fu così che fondammo la AFB: A di Alberati, F di Fondriest e B di Bianco, Andrea, un tempo professionista nella mountain bike. La presenza di Andrea Bianco è fondamentale, dato che vive in Colombia da molti anni e conosce benissimo il ciclismo sudamericano. Gli devo molto: qualche anno fa mi segnalò un giovane diventato oggi un campione di fama internazionale.

Credo d’aver capito, Paolo, ma preferisco sia tu a raccontarne la storia.

Per iniziare la carriera da procuratore, visto che potevo permettermelo, decisi di non muovermi in fretta e furia: avrei aspettato, propiziandola, l’opportunità di lavorare con un corridore importante. Nell’estate del 2015 mi contatta Andrea Bianco, il commissario tecnico della nazionale colombiana di mountain bike. Sapeva che avrei potuto esercitare la professione di procuratore e mi propose un corridore giovanissimo: si chiamava Egan Bernal. Nel cross country, tra gli juniores, aveva ottenuto prima la medaglia d’argento ai campionati del mondo norvegesi del 2014 e poi, un anno dopo ad Andorra, quella di bronzo. Secondo Bianco, un talento del genere era sprecato per la mountain bike. Mi interesso al ragazzo. La Federazione Ciclistica Italiana dà la possibilità ad uno juniores di correre tre gare nell’arco di un mese tra i dilettanti. Egan Bernal viene ad abitare da me, in Sicilia, per cercare di sfruttare questa finestra. Mi è bastato pedalarci insieme una manciata di chilometri per capire che era un fuoriclasse. Non era abituato al ciclismo su strada, era giovanissimo, pedalava su strade che non conosceva e su una bicicletta che gli avevo prestato io: eppure, i tempi e i dati che faceva registrare erano incredibili: in alcuni tratti di salita, ritoccò persino alcuni record di Caruso ed Evans. Bisognava essere ciechi per non accorgersi del talento che covava. Insomma, senza dilungarsi più di tanto: dovevo incontrarmi con Gianni Savio alla Coppa Agostoni per proporgli Davide Pacchiardo, ma Savio cercava un giovane scalatore che potesse farlo appassionare nuovamente al ciclismo dopo le delusioni legate al doping che l’Androni Giocattoli aveva dovuto affrontare. Rebellin vinse la Coppa Agostoni davanti a Nibali e ogni tanto, ancora oggi, mi torna in mente l’immagine di Egan Bernal appoggiato alle transenne per assistere ai vari passaggi del gruppo. Se non era già innamorato del ciclismo su strada, se ne innamorò definitivamente quel giorno. Me lo ero portato dietro per fargli respirare l’ambiente e quando lo proposi a Savio, pensava lo stessi prendendo in giro: effettivamente, era giovanissimo e praticamente sconosciuto. Quando mostrai loro i dati relativi a Egan Bernal, Savio ed Ellena erano sbalorditi: lo volevano a tutti i costi e poi la storia è proseguita come tutti sappiamo. Ho parlato di Egan Bernal perché, fino ad oggi, è stato il caso più eclatante; ma non dimentico certo Sosa e Rivera, due scalatori che hanno già dimostrato quanto valgono: miglioreranno ancora, ne sono sicuro.

A destra, Egan Bernal di spalle mentre assiste al passaggio del gruppo della Coppa Agostoni 2015. ©Paolo Alberati

Non vorrei sembrare indelicato, Paolo, ma alla domanda precedente hai risposto soltanto parzialmente: che procuratore è Paolo Alberati?

Direi attento, scrupoloso, appassionato. La AFB lavora con quindici atleti: Santiago Buitrago, Eros Capecchi, Nicola Conci, Alejandro Osorio, Filippo Fiorelli, Kevin Rivera e Simone Ravanelli sono soltanto alcuni di loro. Pochi ma buoni, insomma. Io e Maurizio vogliamo conoscere e lavorare bene con i nostri ragazzi: sentirli e vederli costantemente, ascoltarli, confrontarsi su alcune scelte da prendere. È importante che i ragazzi abbiano una figura esperta sulla quale poter contare nel bene e soprattutto nel male, nei momenti difficili e quando c’è qualcosa che non va. Sanno che io e Maurizio siamo a loro disposizione, anche se questo dovesse significare ospitarli a casa nostra per un periodo. D’altronde, è già successo con Bernal e Rivera quando sono arrivati in Italia dal Sudamerica. Nel nostro staff è presente anche una psicologa colombiana, una figura imprescindibile se si pensa al brusco cambiamento di vita e di cultura che si trovano a fronteggiare dei ragazzi che in alcuni casi non hanno nemmeno vent’anni. Ci sono quei procuratori che curano perlopiù l’aspetto economico, eccezionali nel fare sempre l’interesse dei loro assistiti, anche se questo significa portarli a vivere a Montecarlo e in Svizzera; all’atto pratico, tuttavia, lavorano con gli ordini d’arrivo, interessandosi quasi esclusivamente ai nomi di punta. Ecco, noi adottiamo l’approccio opposto: ci piace osservare, ascoltare, conoscere; presenziare alle corse, pedalare insieme a loro, vedere come si comportano a tavola e nelle interazioni con gli altri. Così facendo, tra l’altro, si riesce ad anticipare i tempi: se conosci bene un giovane corridore, lo segnali alle squadre ancora prima che il ragazzo raccolga dei risultati importanti; quando inizia a mettersi in mostra, tendenzialmente la squadra si ricorda della segnalazione e chiede ulteriori informazioni. Mettere la pulce nell’orecchio è fondamentale, ma bisogna saperlo farlo. Alleno anche alcuni dei nostri assistiti, come Nicola Conci: aver continuato a pedalare a buoni livelli dopo il ritiro, insieme ai vari aggiornamenti che sostengo periodicamente, mi è servito molto.

È proprio quello a cui stavo pensando, Paolo. Tu non sei soltanto un procuratore: lavori anche come scopritore di talenti. Scout, secondo la terminologia anglosassone. Quali sono, secondo te, le caratteristiche principali del buon scopritore di talenti?

Essere stato un professionista vuol dire tanto. Tuttavia, credo che un campione avrebbe difficoltà a riconoscere il talento: di solito, chi riesce con naturalezza in un determinato ambito non riesce a capire i modi di fare e le tempistiche degli altri. Credo molto anche nell’approccio scientifico: saper leggere i numeri, saper fare un test e conoscere la fisiologia è fondamentale, per me. E poi, ci vuole l’approccio umano: andare alle corse, osservarle con attenzione, andare oltre il risultato; e ancora, domandare, cercare, stabilire legami intimi e solidi con gli osservatori del posto. Per quel che riguarda la mia esperienza, tenere qualche giovane in casa mia si è rivelata una scelta azzeccatissima. Standoci insieme per un certo periodo di tempo, ti accorgi se vivono con serenità o meno, se si distraggono, se prendono dei vizi deleteri. È come diventare padre un’altra volta, alla fine sono degli adolescenti o poco più. È normale che facciano qualche errore ed il nostro compito, almeno il mio, è quello di essere presenti, aiutarli e correggere gli atteggiamenti sbagliati nei limiti del possibile.

A casa di Sosa, in Colombia. ©Paolo Alberati

Lavorando a stretto contatto coi giovani, che idea ti sei fatto del ciclismo giovanile?

Rimanendo in tema, faccio un paio di considerazioni riflettendo sui ragazzi colombiani. Io, in Colombia, ci sono stato tante volte: sia per lavoro, sia per conoscere meglio alcuni ragazzi e le loro famiglie. Per arrivare a casa di Sosa, nel tratto finale, c’è una strada sola: è lunga otto chilometri e mezzo ed è completamente sterrata; ma non lo sterrato battuto di tante corse: al contrario, ci sono sassi e massi. L’elettricità in casa Rivera è stata accesa per la prima volta nel 2017, dopo che il ragazzo ha percepito il terzo stipendio da professionista. Cosa voglio dire con questo? Voglio dire che questi ragazzi sudamericani, ad esempio, non danno niente per scontato: vivono col minimo indispensabile, con lo stretto necessario, e in certi casi anche con meno. Sono abituati a stringere i denti, a fare fatica, a rinunciare a qualcosa. Per loro, i ritiri non sono un sacrificio perché fare un ritiro in Toscana o in Sicilia è sempre meglio che vivere nei loro posti. Questo, allo stesso tempo, significa rischiare di perdere la bussola una volta che si arriva in Europa. È già successo, purtroppo, e succederà di nuovo: ci si lascia conquistare dal benessere, ci si lascia distrarre, si sgarra a tavola. Hanno bisogno di riferimenti solidi, ovviamente: si torna a quello che dicevamo poc’anzi. I nostri ragazzi, e per nostri intendo gli italiani, gli europei, gli americani, gli australiani, sono abituati troppo bene fin da subito perché nascono in una realtà completamente diversa. Se proprio devo, dico che c’è troppa esasperazione. È sbagliato forzare i tempi fin da subito, sono d’accordo, ma allo stesso tempo è qui che entra in ballo la determinazione, la cosiddetta “fame” degli atleti. Io lo dico sempre: quei ragazzi che oggi decidono di scommettere sul ciclismo sono degli eroi. Se si guardano intorno, in un attimo si rendono conto d’essere dei bischeri: chi glielo fa fare, in un mondo comodo e pigro come quello odierno? Alfredo Martini, che ho avuto l’onore di conoscere abbastanza bene, me lo diceva sempre: ai suoi tempi, la vita del ciclista era sacrificata fino ad un certo punto perché tanto non c’era nulla da fare né distrazioni dalle quali difendersi. Si mangiava ugualmente il giusto, si faceva fatica lo stesso, addormentarsi presto e svegliarsi presto era la norma. Ecco, l’ambiente siciliano se vuoi è molto simile a quello sudamericano: i ragazzi siciliani guardano alla Toscana o al Veneto come i sudamericani guardano all’Europa, non danno niente per scontato, accumulano esperienze importanti che i loro coetanei non conoscono. Poco tempo fa parlavo con lo zio di Giovanni Visconti, che mi raccontava delle prime corse di Giovanni fuori dalla Sicilia: per risparmiare soldi, non prendevano la cuccetta e nella traversata da Palermo a Civitavecchia dormivano dove capitava. Un ragazzo che si è fatto un viaggio simile, quando arriva in corsa non può accettare la sconfitta o la remissività: per essere lì, ha dovuto viaggiare in nave e dormire per terra.

©Paolo Alberati

E allora, allargando il discorso al movimento ciclistico internazionale, cos’è che non va?

Da un punto di vista agonistico, credo che i corridori accusino sempre di più la lunghezza del calendario: si corre sempre, da gennaio a ottobre, e bisogna farsi trovare sempre pronti. Un tifoso non ci pensa, ma la realtà è questa. Non si può fargliene una colpa, ci mancherebbe, d’altronde non è tenuto a immedesimarsi negli atleti: ma se fossi un ciclista professionista del gruppo attuale, questo aspetto mi peserebbe molto. In Italia non abbiamo molti sponsor interessati ad investire nel ciclismo ed è un peccato. Io credo che dipenda perlopiù da due motivi: il momento storico che sta attraversando il paese, certamente non florido; e qualche errore nel modo in cui il ciclismo comunica con l’esterno: come mai il movimento ciclistico tedesco aveva vissuto malissimo il decennio passato e adesso nel World Tour ci sono due squadre con licenza tedesca? Un’economia più solida, senza dubbio; ma riallacciandomi al discorso giornalistico che facevamo prima, forse il racconto che il giornalismo sportivo italiano ha fatto del ciclismo si è concentrato troppo sul doping e poco su tutto il resto. Ecco, il doping non mi spaventa più: sicuramente qualche testa continuerà a cadere, ma in linea di massima rispetto a vent’anni fa non ci sono paragoni. La tematica principale, per me, rimane la sicurezza stradale. Uno dei miei figli ha undici anni ed è uno sportivo: gli piacciono la mountain bike e l’atletica. Ed è una fortuna, perché in mountain bike andiamo nella zona dell’Etna e gli allenamenti di atletica si svolgono in pista, dunque al sicuro. Altrimenti, se dovessi portarlo in strada, come potrei farlo? Non mi fido, ho paura per la sua incolumità. Le città italiane affogano nel traffico e a rimetterci sono soprattutto i nostri figli: credo sia fondamentale ripartire da qui.

 

 

Foto in evidenza: ©Paolo Alberati

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.