Sangue ciclista: intervista ad Andrea Di Renzo

Di Renzo porta in gruppo l’esperienza maturata in anni di dilettantismo.

 

 

«Papà, voglio diventare un corridore», disse un bambino alto quanto lo potrebbe essere chiunque all’età di sei anni. «No», gli rispose il padre, che poi aggiunse: «Fino a dieci anni non è possibile correre in bicicletta, non esistono categorie per la tua età».

Marco Antonio Di Renzo mentiva in buona fede. Da ex corridore conosceva quel mestiere: gioie e dolori di un ciclismo che ti presenta un conto ancora accettabile finché lo pratichi per passione, mentre assume tutto un altro registro nel momento in cui diventa un lavoro. «Fare la vita», la definisce Andrea Di Renzo nella nostra chiacchierata. Chissà quante volte suo padre glielo avrà ripetuto.

E Marco Antonio Di Renzo sapeva quello che poteva significare lanciare suo figlio nella mischia sin da quella giovane età, tenera come un arrosticino di cui vanno tutti ghiotti in Abruzzo, e dunque si giocò bene le sue carte. Come fosse seduto al tavolo verde, Marco Antonio decise che non era il caso di scherzare col destino del piccolo Andrea; forse la cosa migliore sarebbe stata quello di farlo aspettare, di non azzardare, di nascondere i punti che aveva in mano, prima di mettere suo figlio in sella a una bicicletta ed eventualmente vedergli fare la vita, come anni prima toccò a lui.

Fu intelligente e lungimirante come quando era professionista. Di Renzo senior, infatti, da corridore ha vinto poco ma bene e di sicuro si è fatto notare: lo si ricorda per una vittoria di tappa alla Vuelta nel 1996, ma anche per essere arrivato ultimo nel Giro del 1998.

«A casa abbiamo ancora una videocassetta con la doppia intervista tra Pantani e mio papà», mi confessa Andrea Di Renzo. «È molto divertente e la custodiamo… gelosamente». E dopo quell’ammissione, Andrea Di Renzo è un fiume in piena. Pensavo di intervistare un ragazzo schivo, timido, di quelli cresciuti a pane, salite e bicicletta – quest’ultima parte si conferma, anche se al posto del pane ci metterei gli arrosticini – e invece mi sono ritrovato contro un fiume in piena.

La telefonata dura più di un’ora e confesso che non succede spesso. Andrea Di Renzo non tralascia alcun particolare. È meticoloso, cura il particolare, ritiene importante la forza delle parole. Le carica di enfasi e di inflessioni, ti spiega accuratamente ogni dettaglio con quel suo marcato accento, tributo a una terra che porta sempre con sé, nel modo di correre, di vivere, di andare in bicicletta.

Andrea Di Renzo è conscio di quanto sia importante aprirsi per farsi conoscere: non solo come pedalatore, ma anche come persona. Spesso, quando raccontiamo i corridori, ci soffermiamo a parlare di preparazione, di corsa e risultati e a volte si nasconde il fatto principale: spingiamo, tifiamo, osserviamo, critichiamo o analizziamo persone con una storia dietro; protagonisti di uno spettacolo, è vero, ma pur sempre esseri umani con i loro sentimenti, paure, ambizioni. Banale, forse retorico, ma non così tanto, evidentemente, se ci ritroviamo a doverlo mettere in chiaro, in tempi in cui si leggono attacchi di ogni genere.

Non me ne vorrà per la digressione, il giovane Di Renzo, ma la sua situazione mi ha dato lo spunto giusto per rimarcare l’assunto “sono corridori, non macchine o numeri”. E chiedo scusa nuovamente a lui e ai lettori se mi permetto di tralasciare per questioni di spazio – e chi dice che nel web si può scrivere senza limiti si sbaglia – i dettagli sulle squadre in cui ha militato sin dai suoi esordi, su alcuni risultati e sulle difficoltà incontrate prima di emergere e passare professionista. Dall’episodio che diede il via a tutto, però mi sembrava giusto partire: la sua prima volta in sella.

©Photors – Riccardo Scanferla

«A dieci anni papà mi disse: “dai, andiamo a fare un giro in bicicletta”». Roba da non crederci, per il piccolo Andrea: dopo quella bugia a fin di bene di qualche tempo prima, è arrivato il momento della sincerità, di mantenere la promessa. Chissà quante volte Di Renzo junior avrà aspettato quell’istante e avrà sognato di trovarsi di fianco a Di Renzo senior, che solo pochi anni prima battagliava in gruppo con quelli che lui guardava dalla televisione.

Andrea si sentiva come fosse stato Di Luca («So che è un nome un po’ così da fare, però capite: abruzzese, correva con papà; quando conquistò il Giro, noi a casa facevamo il tifo per lui. E poi quella Liegi: che vittoria!») oppure Marco PantaniUn mito per chiunque abbia seguito il ciclismo»). E insomma, uscirono assieme in bici: Andrea con una bici Moser gialloblù con le leve del cambio sul telaio, forse un po’ vecchiotta già per l’epoca; d’altronde era il suo primo approccio, non abbiate pretese.

Dato che non era pratico con i tacchetti, si fece montare su quell’attrezzo a due ruote i pedali a gabbietta. Al termine di quella giornata fecero i ventinove di media. «Mica male, a quell’età. E poi immaginatevi il percorso: tutto un su e giù. Arrivai a casa esausto, ma felice», racconta con la voce a metà tra il commosso e l’entusiasta, come se stesse rivedendo davanti ai suoi occhi un filmato mandato ormai a memoria e che ha acquisito nel tempo un senso evocativo.

Ed è di vocazione che parliamo: quella del ciclista. E poi c’erano quelle parole che aspettava da tanto tempo e che lui conserva come qualcosa di speciale, come parte della sua formazione. «Ho convinto mio padre che forse potevo correre. “Che dici se ti iscrivo con la Guarenna (squadra della zona N.d.A.)?”, mi chiese». Risposta scontata.

©https://www.bicitv.it

E Andrea Di Renzo cresce, da quel momento, non solo come un bambino in mezzo ai ciclisti, ma come un ciclista in un mondo di corridori, alimentando le sue virtù: calma e pazienza. Corre in contatto con la sua terra: fino a vent’anni non tradisce l’Abruzzo. Nel 2014 si stava allenando vicino casa. Cade in discesa, assaggia l’asfalto; anzi, se lo ritrova letteralmente in bocca: frattura dello zigomo e microfrattura sull’orbita oculare. «Mi sono dovuti venire a prendere in elicottero e purtroppo, mentre ero in convalescenza in ospedale, la squadra mi ha detto che avrebbe chiuso i battenti a fine stagione». E da lì la decisione di andare a correre per la prima volta lontano da casa.

Si trasferì a Brescia, un posto che all’epoca pareva lontano, l’America dei nostri avi. Una stagione alla Delio Gallina, dove conobbe la nostalgia. «Fu un anno importante, per me: lontano da casa ho fatto fatica, ma ho acquisito anche tanta esperienza». Se fosse un calciatore brasiliano sarebbe stata saudade, ma l’avrebbe risolta con una giocata, una finta di gambe, un tiro all’incrocio. Invece gli toccò pedalare come si faceva in famiglia ormai da tanti anni.

Se potesse tornare indietro, rifarebbe tutto per filo e per segno: non c’è pentimento nel suo cammino; magari solo qualche dubbio quando guarda ai fatti salienti della sua carriera. Passa professionista in questo 2020 dopo un cammino tortuoso come le strade che affrontava tutti i giorni prima di trasferirsi nella Marche, dove abita la sua ragazza. «Fino a quando mi allenavo in Abruzzo, andavo forte in salita: tra 2017 e 2018, non mi nascondo, quando la strada saliva ero forse il migliore dilettante italiano. Poi arrivavo a fine anno e non passavo di categoria; ho avuto anche qualche contatto, ma si risolveva sempre in un nulla di fatto».

©Angelo Citracca, Twitter

Ed è per questo motivo che un paio di volte va vicino al ritiro. «Ho rischiato di fermarmi. Poi tutti insistevano: mio nonno, mio padre, i miei direttori sportivi.”Continua, che fai, non mollare, guarda che ancora non sei maturo, le qualità per emergere ce l’hai”. E io che dovevo fare? Testa bassa ogni giorno in allenamento e in corsa. C’ho provato, ho insistito, ho tenuto duro e ora sono qui, a realizzare un sogno».

Che poi è realtà, il ripercorrere quel sentiero che in famiglia hanno marcato con una certa disinvoltura. Il tutto grazie a un contratto firmato il giorno prima di finire di nuovo in ospedale. «Questa ve la devo raccontare: settembre 2019, corsa nelle Marche, vince Fiorelli e io arrivo secondo. Mi si avvicina il direttore sportivo di una squadra dilettantistica e mi chiede cosa faccio l’anno successivo. Gli rispondo che o passo professionista o smetto. Mi chiama un’altra squadra: rispondo la stessa cosa. Mio padre si allarma: “se non passi professionista che fai?; “nulla papà, vengo a lavorare”, gli faccio io. Arriva ottobre e mi contatta Citracca e mi dice che mi vuole alla Vini Zabù-KTM. Il giorno della firma si corre a Montecatini. Cado, mi ritrovo in ambulanza. Al traguardo mi aspettavano Citracca, Scinto e mio padre che mi telefona quando non mi vede arrivare. “Papà, tutto bene, sono in ambulanza con una clavicola rotta”». Per fortuna, per firmare Di Renzo non ha avuto problemi. «Perché avevo un tutore che mi reggeva la spalla», spiega lui.

L’intervista scivola via tra aneddoti, qualche risata, il segnale del telefono che ogni tanto va e viene, ma con Andrea che non vuole tralasciare nulla, come quando racconta di Pogačar. «Fortissimo. Al Giro del Friuli mi ha lasciato a bocca aperta; io arrivai terzo in classifica generale, lui vinse. Il primo giorno andammo in fuga in dodici, c’era anche lui, lo marcavo. Centocinquanta chilometri in avanscoperta a quarantanove di media. Il giorno dopo si scala il Matajur, io non ne avevo per le fatiche del giorno prima e cercavo di tenere botta, ma lui che faceva? A ogni tornante rilanciava con forza, grinta, cattiveria. Impressionante: corridore di classe, di un’altra categoria. Per me nel giro di pochi anni vincerà il Tour de France. Magari non quest’anno, perché a oggi vedo Roglič favorito, ma nei prossimi anni Pogačar sarà li a giocarsela».

Non è solo lo sloveno a fare effetto su Di Renzo: nella sua personale classifica c’è spazio anche per uno spagnolo e per un belga. «Fino a quando in gruppo c’era Contador, era lui il mio preferito. Ora sono colpito da Evenepoel. L’ho visto da vicino in Argentina: mi piace, non ha paura, va forte perché gli viene naturale andare forte. Ha motore, corre sempre davanti, non teme nessuno su nessun percorso».

©Vini Zabù KTM, Twitter

Corridori, Pogačar ed Evenepoel, che hanno un «talento naturale», come lo definisce Di Renzo, a differenza di quelli che lui vede provare ad andare forte a tutti costi, trascinandosi fino all’esasperazione per strappare un contratto. «Mio padre, Tonino D’Alonzo e Floriano Torretti sono le figure più importanti nella mia carriera da ciclista. Mi hanno sempre insegnato che il ciclismo è sacrificio e senza sacrificio non arrivi a nulla, ma non mi hanno mai messo pressione. Tutti mi dicevano “Di Renzo, il figlio d’arte”, ma mio papà mi ha sempre fatto crescere con calma, senza pressioni, consigliandomi il giusto senza mai interferire o stressarmi: lui è passato da questa vita e sa cosa vuol dire. E quindi quello che dico io è che se non riesci a passare devi sapere dire basta; magari se ti piace pedalare puoi continuare ad andare in bici, ma fai l’amatore. Il ciclismo deve essere divertimento e non come certi ragazzi che vedo, i quali si allenano come professionisti già nelle categorie juniores. Poi nel giro di un paio anni sono già logorati, esasperati».

Racconta che Visconti è un leader nato, che correre per lui, com’è successo al Laigueglia, è una gratificazione che non può che farti crescere. Aggiunge, parlando della sua nuova esperienza con la Vini Zabù-KTM, due parole su Scinto. «È un direttore sportivo vulcanico, è vero, ma ci fa sentire tutti a proprio agio tenendo alto il morale della truppa, proprio come dovrebbe fare un comandante».

E sull’utilizzo della tecnologia, sposa perfettamente l’idea del tecnico toscano. «Il mantra è che dobbiamo conoscere il nostro corpo per capire da soli quando spingere o meno. In allenamento possiamo usare fascia cardio e potenziometro, ma in corsa no. Si seguono le sensazioni. L’anno scorso è stato il primo anno in cui ho usato fascia e potenziomentro, quindi per me in realtà cambia poco. Però, per fare un esempio, al Giro del Friuli vedevo che salivamo forte, il cuore non andava su di pulsazioni e io mi sentivo stanco facendomi influenzare dai dati, finendo per saltare di testa. Invece avrei potuto mantenere ancora l’andatura dei migliori. Per me è una scelta intelligente: in allenamento sfrutti i dati per migliorare e poi in corsa, invece, dai tutto a prescindere».

Prima di chiudere gli sento dire «Ciao Luca». La telefonata è iniziata dopo l’allenamento e Andrea è, presumibilmente, in pausa in un bar. C’è qualcuno che lo aspetta, forse quel Luca è proprio Scinto. Non gliel’ho chiesto, non importa. Quello che gli chiedo, invece, prima di mettere giù il telefono, è se lo vedremo brillare magari in salita, magari al Giro d’Italia 2020. «Presto per dire se potrò correrlo, ma tra una tappa in montagna e magari la maglia blu degli scalatori, un pensierino tocca farlo». Ha atteso, è cresciuto con calma, c’ha creduto: ora arriva il tempo di raccogliere. D’altra parte, il sangue che scorre dentro è quello di un ciclista.

 

 

Foto in evidenza: ©Photors-Riccardo Scanferla

Alessandro Autieri

Alessandro Autieri

Webmaster, Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. Doppia di due lustri in vecchiaia i suoi compagni di viaggio e vorrebbe avere tempo per scrivere di più. Pensa che Mathieu Van der Poel e Wout Van Aert siano la cosa migliore successa al ciclismo da tanti anni a questa parte.