Corro finché posso: intervista a Eva Lechner

Eva Lechner si racconta a pochi giorni dal campionato mondiale di ciclocross.

 

 

Quando Eva Lechner acquistò la sua prima mountain bike, era un’adolescente che di ciclismo sapeva poco o nulla. Conosceva in parte quello su strada, merito dei pomeriggi passati col padre davanti alla televisione e delle battaglie – «guerre», come le chiama lei – tra Pantani e Ullrich. Non conosceva nemmeno Paola Pezzo, che in sella alla sua mountain bike aveva vinto due ori olimpici in quattro anni tra il 1996 e il 2000. Non pensava nemmeno che con una mountain bike si potesse partecipare ad una corsa.

A quel tempo, le consapevolezze di Eva Lechner erano due: che una mountain bike aveva un prezzo e che il suo futuro, per poter essere definito radioso, avrebbe dovuto svilupparsi nel mondo dello sport. Per quanto riguarda la prima certezza, Lechner fece seguire i fatti alle parole: passò un’estate lavorando come babysitter e racimolò i soldi necessari per comprare la prima bicicletta. Nell’indirizzare il suo futuro, invece, fu fondamentale il suo primo allenatore, conosciuto proprio in negozio. Le propose di pedalare insieme di tanto in tanto, giusto per capire quanto forte fosse questa passione. Poche settimane più tardi, c’era qualcosa di più urgente della passione: il talento, il quale iniziava ad esigere uno spazio autonomo per mettersi in mostra.

©Renano, Wikipedia

Quando le chiedo come mai il ciclismo e non un altro sport, Eva Lechner non sa cosa dire: «Ne ho provati altri,» prova a spiegarsi «ma evidentemente il ciclismo era quello che faceva per me più di qualsiasi altra cosa». Lo immaginavo: ma perché?, insisto. «Credo sia una questione di noia. Ho provato anche atletica leggera, ma mi resi conto che tra quello che facevo in allenamento e quello che facevo in gara c’era una differenza abissale. Nel ciclismo, invece, si tratta di pedalare e basta».

Tuttavia, considerando le specialità che compongono il mosaico, dire “ciclismo” è troppo vago: nel caso della Lechner, il termine giusto è fuoristrada. «Mi diverto di più, c’è poco da fare. La strada l’ho sempre sfruttata per allenarmi e prepararmi. E poi su strada conta molto la squadra; anche troppo, per come sono fatta io». L’ultima affermazione mi fa storcere il naso: in che senso? «Al di là della mia preferenza per il fuoristrada, le possibilità per correre più spesso su strada ci sarebbero state. È l’ambiente che non mi piace: troppa invidia, probabilmente dovuta al fatto che ci sono troppe donne. In mountain bike o nel ciclocross è tutto più familiare e io preferisco così».

Delle tre discipline, come lei stessa ha sottolineato, la strada è quella in cui ha speso meno tempo ed energie. Un segno, tuttavia, lo ha lasciato: nel 2007, a soli ventidue anni, vinse la prova in linea dei campionati italiani, relegando Giorgia Bronzini al terzo posto. Nella mountain bike e nel ciclocross, contare le vittorie, i piazzamenti e le medaglie è un esercizio degno di un contabile. Basti ricordarne un paio: l’argento ai campionati del mondo di ciclocross del 2014 dietro a Marianne Vos e un altro argento, l’ultimo in ordine cronologico, strappato ai campionati europei disputati qualche mese fa a Silvelle. Yara Kastelijn, la ragazza che le ha negato l’oro, è di dodici anni più giovane.

Medaglia d’argento a Silvelle. ©ACCPI Assocorridori, Twitter

«Vorrei ricordare un’altra gara». Prego. «Tabor, campionato del mondo di ciclocross, 2015. Trecento metri dopo la partenza mi ritrovo a terra col forcellino rotto. Già sapevo che la mia corsa, ormai, era compromessa. Decido di caricarmi la bicicletta in spalla e di arrivare ai box. Sostituisco il mezzo e riparto. Non so se fermarmi o meno, intanto continuo a pedalare. Quando taglio il traguardo del primo giro, ho cinque minuti di distacco dalle prime. Quando taglio il traguardo conclusivo, il ritardo è sceso a quattro minuti e quaranta: praticamente ho pedalato più forte delle prime, ma sono arrivata trentunesima».

Forse non vorrebbe che glielo si ricordasse, ma dal 2001 – vale a dire da quando ha iniziato a pedalare – a oggi sono passati quasi vent’anni. Come si fa a ripartire, a trovare nuovi stimoli, ad attestarsi su dei livelli così elevati?, le chiedo io piuttosto banalmente. «Credo che il talento conti molto e io non posso lamentarmi», mi risponde lei tutt’altro che banale. Queste parole confermano l’idea che mi ero fatto di lei: disponibile ma diretta, gioviale ma essenziale; ogni tanto una risata, perché si è pur sempre giovani e perché lo sport è la cosa più importante, è vero, ma delle cose meno importanti. Una donna tutta d’un pezzo, comunque. Qualcuno meno legato del sottoscritto a vincoli professionali potrebbe ritrovarne la causa nella provenienza della Lechner: Bolzano, ovvero “dai monti”, come si usa dire in maniera poco elegante di persona pacata e seria, al limite del brusco.

Partendo dal fondo, Eva Lechner è la seconda; su entrambe le maniche della divisa che indossa s’intravede il numero tre. ©Flowizm…, Flickr

«Se continuo a pedalare», prosegue lei, «dipende dai miei risultati: da quelli che riesco ancora ad ottenere, è vero, ma anche da quelli che non ho mai centrato. Penso ai Mondiali o alle Olimpiadi». Domanda scema, ma talvolta bisogna correre il rischio: se potesse scegliere? «Magari potessi scegliere. Dico entrambe, giusto per non sbagliare». Passi per il talento, sicuramente abbondante: ma Lechner dovrà pur metterci qualcosa di suo, più suo di quanto non sia il talento. «La passione, la precisione, la fermezza: faccio tutto quello che mi viene detto e cerco di farlo sempre al meglio. In gara può capitare che mi perda, che mi faccia distrarre da un dettaglio stupido. In allenamento non succede mai. Credo sia un pregio, ma a volte ho pensato fosse anche un difetto: la pressione che mi metto addosso da sola è enorme e in qualche occasione l’ho scontata».

Venire dai monti, al di là della battuta, significa anche godere di un paesaggio e di una tranquillità inaccessibile a molti. Se non fosse cresciuta nella natura, se non ci fosse stato il bosco di Monticolo a due passi dall’albergo che avevano in affitto i suoi genitori, la vita di Eva Lechner si sarebbe sviluppata altrimenti. Magari all’università: ha provato due volte, Scienze Motorie a Innsbruck e Arte e Design a Bolzano, ma non era la sua strada. Se non avesse questa confidenza con la natura, sicuramente non si occuperebbe dei suoi cinque cavalli. «Quattro cavalli e un pony», precisa lei. «I cavalli sono degli arabi purosangue: due più anziani e due più piccoli; i due più giovani si chiamano Everest ed Esperanza. Il pony è uno Shetland».

Mai pensato di diventare un fantino? «Certo, ma quand’ero piccola non avevamo i soldi per permetterci uno o più cavalli. E così dissi a me stessa: appena avrò la possibilità, ne comprerò uno». Detto, fatto: e grazie alla carriera costruita partendo con quella mountain bike comprata coi suoi soldi quand’era un’adolescente. «Cosa mi piace dei cavalli? Prendermene cura e cavalcarli, ovviamente. E poi il silenzio: dopo settimane di allenamenti, viaggi, corse, eventi, dichiarazioni ed interviste, con loro posso godermi il silenzio. Non fanno domande».

©Il Nuovo Ciclismo

Non essendo un cavallo, mi prendo la libertà di porle le ultime due domande. La prima è sul campionato del mondo di ciclocross che si correrà a Dübendorf nel prossimo fine settimana: «Le favorite sono le stesse: Alvarado, Worst, Brand, Kastelijn, Cant. Per il resto, temo di dovervi deludere: non ho molto altro da dire. Il percorso non l’ho mai visto, se non in video o in grafiche. Sembra veloce, ci sono diversi rettilinei. L’incognita principale sarà il meteo: essendo su prato, se dovesse pioverà sarà molto più lento». Si è salvata in calcio d’angolo, Eva Lechner.

Ci dica qualcosa almeno sul suo futuro: «Cosa devo dirvi? Non sono più giovanissima, lo so: d’altronde, a luglio compirò trentacinque anni. Però perché dovrei smettere, se pedalo ancora volentieri, se raccolgo ancora degli ottimi risultati e se i sacrifici che faccio non mi pesano esageratamente? Amici e conoscenti, tra una battuta e l’altra, mi spingono a continuare: mi ricordano che sono fortunata a fare quello che ho sempre sognato, mi dicono di godermela, ché la vita lavorativa è molto più complicata». Dunque non ha mai pensato al ritiro? «Sì, qualche volta c’ho pensato, non lo nego. Mi piacerebbe rimanere nel ciclismo, magari lavorare coi giovani o coi bambini, ma non ho ancora un’idea precisa. Avrò tempo per pensarci e decidere. Intanto ci sono le corse e io corro finché posso». Questo è un bel parlare, altroché.

 

 

Foto in evidenza: ©Vita Sportiva, Twitter

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.