Un gregario diventato presidente: intervista a Cristian Salvato

Le parole di Cristian Salvato sul ciclismo italiano e sulla sicurezza stradale.

 

 

Cristian Salvato è nato il 18 agosto 1971 a Campo San Martino (Padova) ed è una delle figure istituzionali più importanti del panorama ciclistico italiano. Se la sua carriera da professionista è durata relativamente poco – dal 1995 al 2001 -, quella nelle categorie giovanili gli ha regalato le gioie più importanti: Salvato, infatti, è stato campione del mondo nella cronosquadre in ben tre occasioni diverse, la prima tra gli juniores e le altre due tra i dilettanti. Entrato col ruolo di consigliere nell’ACCPI – Associazione Corridori Ciclisti Professionisti Italiani dopo un periodo d’assenza dall’ambiente, Salvato ne è diventato presidente nel 2013. Si definisce un folle amante del ciclismo.

Quando Cristian Salvato era un ciclista professionista avrebbe mai pensato di intraprendere la carriera che poi effettivamente ha intrapreso?

No, era difficile immaginarlo. Prima sono stato un ottimo dilettante, poi un gregario serio e devoto, ma a trent’anni avevo già smesso. Quando venni contattato per il ruolo di consigliere dell’ACCPI, lavoravo come direttore commerciale in un’azienda di mobili ed ero piuttosto titubante: non avevo molto tempo a disposizione, mancavo nel ciclismo da qualche anno e non volevo svolgere un ruolo così importante in maniera approssimativa.

Però accettai e devo dire che ho fatto bene, mi sono sentito come un pesce ritornato nel suo mare dopo qualche tempo passato in un acquario. Diventare presidente è stato emozionante, peraltro i miei predecessori erano ex campioni oppure avvocati: insomma, professionisti di un certo livello. Io, invece, ero un gregario e non me lo scordo. Il mio ruolo comporta diversi oneri, ma che onore poterlo ricoprire. Ciclisticamente parlando, il nostro sindacato è il più antico, quindi la soddisfazione di esserne il presidente è doppia.

Cristian Salvato stringe la mano ad Amedeo Colombo, il suo predecessore alla presidenza dell’ACCPI. ©ACCPI, Twitter

Se tu dovessi spiegarlo ad un appassionato poco avvezzo alle dinamiche istituzionali, cos’è l’ACCPI e di cosa si occupa?

Come dico spesso e volentieri, io sono la Camusso del ciclismo. Lo dico per scherzare, però può aiutare a capire il ruolo che ricopro e i compiti dell’associazione. L’ACCPI, molto semplicemente, è l’Associazione Corridori Ciclisti Professionisti Italiani e si occupa dei diritti e dei doveri dei ciclisti professionisti italiani. Per andare nel concreto: contratti, assicurazioni, premi, stipendi, sicurezza stradale. Posso fare due esempi un po’ più recenti, così da spiegare ancora meglio.

Prego, Cristian.

Per quanto strano possa sembrare, fino a qualche anno fa non c’era nessun protocollo che riguardasse il meteo. Un fatto abbastanza insolito, se si considera che il ciclismo ha una storia ultracentenaria e si corre notoriamente all’aperto fin dagli albori. Ecco, lo abbiamo introdotto noi ed è una cosa di cui vado particolarmente fiero. Un altro esempio è la centralizzazione dei premi. Ci sono state delle lamentele e delle polemiche dovute ai ritardi nei pagamenti, non lo nego, ma si tratta di un gran bel servizio: i cambiamenti richiedono tempo e si tratta di un lavoro enorme, ma i pagamenti sono interamente certificati e controllabili. Stiamo consegnando al futuro un servizio che, una volta perfezionato, diventerà imprescindibile.

Dal tuo punto di vista, cos’è cambiato nel ciclismo negli ultimi vent’anni?

È cambiato il ciclismo, ma questo lo sapete già. La tecnologia è diventata parte integrante, tanto in sella alla bicicletta quanto nei momenti di riposo. Mi piace sottolineare la compattezza degli italiani: nonostante cellulari, tablet e quant’altro, gli italiani riescono sempre a formare un gruppo e a trascorrere insieme un po’ di tempo nelle hall degli alberghi. Non è così scontato, lo dico per questo. Non c’è paragone nemmeno se spostiamo l’attenzione sul doping. Oggi nel ciclismo si sta bene e posso affermare tranquillamente che si tratta di uno sport sano e pulito; il ciclista che sbaglia ci sarà sempre, ma la tendenza è stata invertita. I romantici e i nostalgici possono dire quello che vogliono, ma la realtà è questa.

Il logo di una battaglia tutt’altro che banale. ©Mauro Scovenna, Twitter

E da presidente dell’ACCPI quali altri cambiamenti hai riscontrato?

Sai, finché sei un corridore professionista e hai trent’anni pensi soltanto a correre, perché è quello che vuoi fare e quello per cui sei pagato. Non è facile trovare il tempo e le energie per guardare altrove. Quando arrivi a ricoprire una carica istituzionale, ti accorgi di tante cose. Ad esempio, i campioni più rappresentativi del periodo nel quale correvo io si facevano sentire di più rispetto agli odierni.

Non ho corso con Moser, ma con Fondriest, Pantani, Cipollini e Bugno sì e si comportavano in maniera diversa. Al contrario, oggi si presta un’attenzione assai maggiore ad alcuni aspetti che vent’anni fa erano, come dire, oscuri. Nell’ambiente ciclistico attuale c’è una professionalità altissima. Chi ha un po’ di memoria si ricorderà delle squadre che nascevano e morivano dall’oggi al domani a cavallo tra gli anni novanta e i primi duemila. Contratti strani e manager furbi erano il pane quotidiano: lo dico con cognizione di causa, dato che sono uno di quelli che a suo tempo perse dei soldi proprio a causa di situazioni controverse. Oggi è molto difficile che succeda lo stesso: i corridori e le squadre sono monitorati con attenzione.

Analizziamo lo stato di salute che stanno attraversando i diversi movimenti ciclistici che concorrono a formare il panorama ciclistico italiano. Partiamo dal professionismo maschile.

Una delle battaglie principali che stiamo portando avanti è quella sui diritti d’immagine degli atleti, che negli altri sport sono contemplati mentre nel ciclismo no. Poi ci sono le battaglie classiche, quelle che si combattono giorno dopo giorno da ormai diversi anni. Un esempio? Il montepremi di alcune corse è ridicolo, se rapportato al budget di cui dispongono gli organizzatori: è impensabile che il Giro delle Fiandre distribuisca soltanto cinquantamila euro, per dirne una. Con RCS e ASO si è già visto qualche cambiamento, ma la strada è ancora lunga. Per quanto riguarda il minimo salariale non possiamo lamentarci, è più alto persino di quello calcistico. E poi c’è la battaglia delle battaglie: quella per la sicurezza stradale, che riguarda tutti: uomini, donne, giovani, professionisti, amatori. E non solo.

A chi altro ti riferisci, Cristian?

Alla portata globale di questa battaglia. Una delle cose che mi fa più arrabbiare è l’atteggiamento con cui una buona parte dell’opinione pubblica si approccia al discorso. Sembra che quella per la sicurezza stradale sia una battaglia che riguarda soltanto i ciclisti, che interessa soltanto ai ciclisti e che i ciclisti fanno per sé stessi. È proprio qui che risiede l’importanza di tutto questo: tutti dovrebbero partecipare e dare il loro contributo perché tutti sono coinvolti, più o meno direttamente. Non si tratta soltanto del professionista che si allena e dell’amatore che pedala con gli amici: ci sono anche i pedoni, i bambini, gli anziani, chi usa la bicicletta per una commissione, per andare a lavoro, a scuola o all’università. Tutti dobbiamo contribuire, farci sentire, dare il buon esempio e propiziare il cambiamento.

C’era una volta Francesco Moser. ©fiumerosso, Twitter

Siamo d’accordo, ma crediamo sia necessario un cambio di passo anche da parte delle istituzioni.

Esatto, è qui che volevo arrivare. L’ACCPI e la Federazione Ciclistica Italiana si danno da fare, così come i vari enti e le associazioni che gravitano intorno al ciclismo e alla sicurezza stradale, ma è evidente che non basta. Tocca alla politica intervenire in maniera decisa. Finché Danilo Toninelli era il ministro di riferimento, si era riusciti a fare qualcosa; ma dal momento che il governo è caduto, siamo ripartiti da capo. Non ce la facciamo più: siamo stanchi, arrabbiati e sfiduciati. Ma non dobbiamo mollare.

La bicicletta sta diventando qualcos’altro, non è più soltanto un mezzo di trasporto di seconda mano e uno degli sport più seguiti al mondo. Siamo sicuri che vinceremo questa battaglia, ma il prezzo da pagare in termini di fatica e paura è altissimo. Recentemente mi sono chiesto: ma se a rischiare grosso non fosse stata Letizia Paternoster, i media ne avrebbero parlato? Credo di no. Ci vuole la vittima famosa, altrimenti non se ne parla. Il ciclismo e la bicicletta hanno bisogno di investimenti e di fiducia e io, almeno per il momento, in questo paese non ritrovo né gli uni nell’altra. È un peccato, se pensiamo alle potenzialità del mezzo e del nostro paese e soprattutto ai milioni che vengono sperperati.

Tuttavia, Cristian, l’ACCPI si occupa perlopiù di ciclisti professionisti. Le corse professionistiche sono sicure?

Secondo me, le riflessioni da fare sono due. La prima: il ciclismo è uno sport pericoloso in sé e per sé, non dobbiamo mai scordarcelo, quindi non si è mai del tutto sereni. Quello che posso dire è che RCS e l’Italia continuano ad essere un riferimento. Viaggio in tutto il mondo per seguire le gare e ogni volta mi rendo conto di quanto lavoriamo bene. La seconda riflessione è legata allo stato delle nostre strade, tendenzialmente pessimo, e al cambiamento che c’è stato negli ultimi anni.

La rete urbana è cambiata enormemente: di strade larghe e dritte ce ne sono sempre meno e in compenso sono arrivate le rotonde e gli spartitraffico. Non arriverei mai a dire che non servono a nulla, ma non si può negare che abbiano ulteriormente complicato la faccenda. Pensa cosa vuol dire per un organizzatore mettere in sicurezza una corsa di trecento chilometri come la Milano-Sanremo.

Anche il ciclismo giovanile ha i suoi problemi da risolvere.

Sarò sincero, non parlerei di problemi da risolvere, bensì di situazioni da chiarire. Bisogna seguire, monitorare e prevenire. Ad esempio, non vorrei che la precocità di Remco Evenepoel venisse presa a modello per valutare i giovani. Ci vuole pazienza, anche perché bruciare talenti è questione di un attimo se non si sa come prenderli e come trattarli. Lo stesso discorso vale per la categoria dei dilettanti, le cui squadre stanno attraversando un periodo di transizione tutt’altro che banale.

Le Continental, quantomeno a livello di esperienze, garantiscono qualcosa in più ma non tutti i ventenni reggono l’urto di un calendario prestigioso e di un gruppo di assoluta qualità. Penso a Ballan, passato al professionismo dopo diverse stagioni tra i dilettanti: oggi è possibile ripercorrere una traiettoria simile? Forse sì, ma se la tendenza continuerà ad essere questa sarà sempre più difficile, e molti giovani potrebbero rimetterci ancor prima di poter dimostrare il loro valore.

©Remco Evenepoel, Twitter

È vero anche che i giovani del 2019 non sono i giovani del 1999. Insomma, in vent’anni cambia il ciclismo ma cambia anche il mondo.

Sì, senz’altro. Come dicevo prima, i ragazzi oggi possono stare più tranquilli perché quello ciclistico è un ambiente sano e sereno. Permettimi di dire che siamo molto orgogliosi della formazione che ogni anno pensiamo per i neoprofessionisti. Scegliamo un paio di giorni tra la fine della stagione e l’inizio della successiva e li dedichiamo interamente ai neoprofessionisti italiani, spiegando loro i diretti e i doveri dei ciclisti professionisti e ascoltando le loro domande, i loro dubbi e i loro pareri. Siamo stati i primi a farlo, adesso nella stessa direzione si sta muovendo anche il ciclismo francese.

Crediamo fortemente nei ragazzi e nella cultura del ciclismo: se riusciamo ad insegnargliela e a trasmettergliela, difficilmente ci deluderanno. Ecco, forse in passato è mancato proprio questo: un percorso che introducesse diversamente i giovani nel professionismo e che limasse la loro ignoranza in materia. Il ciclismo è diventato un mondo più esteso e complesso, è innegabile, ma i ragazzi oggi hanno tutti gli strumenti e i mezzi per farcela: sono svegli, grazie alle loro squadre e alla nazionale fanno molte esperienze e in più conoscono abbastanza bene le lingue, l’inglese su tutte.

Concludiamo la panoramica col ciclismo femminile, Cristian.

Prima di qualsiasi riflessione voglio ringraziare Alessandra Cappellotto, un’amica e una professionista straordinaria, una presenza importantissima tanto per me quanto per l’ACCPI in generale e per il ciclismo femminile. Vado orgoglioso dello staff che mi aiuta e non dimentichiamoci che Alessandra è vicepresidente dell’ACCPI: era il mio volere ed è la prima volta che una donna ricopre questa carica. Arrivando allo stato del ciclismo femminile, mi soffermerei più che altro su due punti.

Il primo è quello più attuale, probabilmente: mi riferisco alla tematica della molestie e a tutto quello che ne fa parte, una questione che ormai non riguarda più un settore specifico ma la società intera. Tuttavia, trattandosi di un tema delicato, vorrei evitare di dilungarmi in discorsi qualunquisti: mi limito a dire che seguiamo con attenzione le vicende, che dobbiamo stare attenti a non estremizzare né da una parte né dall’altra e che la presenza di Alessandra Cappellotto è una garanzia a riguardo.

L’altro argomento che tiene banco nel ciclismo femminile italiano riguarda il dualismo tra corpi militari e professionismo. Come si risolve la faccenda?

Questo è il secondo punto di cui volevo parlare. Qualche settimana fa si è fatto un gran parlare di professionismo riconosciuto anche alle atlete femminili, ma il contenuto è stato evidentemente frainteso. Ora, la domanda che pongo io è un’altra: è davvero possibile equiparare premi e stipendi del maschile al femminile, come sento dire? Non c’è il rischio che il castello crolli? Lo faccio notare perché parlare di professionismo è un conto, applicarlo e riconoscerlo come si deve è un altro. Beninteso, io sarei felice se alle donne venisse riconosciuto quello che meritano. Come dicevo, sono stato io a volere fortemente accanto Alessandra Cappellotto proprio perché credo nell’apporto che il movimento femminile può dare all’intero ciclismo italiano. Però non vorrei che si stessero facendo i conti senza l’oste, ecco.

Alessandra Cappellotto. ©Alessandro Brambilla, Twitter

Qual è l’atteggiamento dei corridori italiani nei confronti dell’ACCPI, delle battaglie che vengono combattute e di tutte quelle dinamiche istituzionali che troppo spesso finiamo per dimenticare?

In generale vale quello che ho detto in precedenza: i campioni del passato, anche del recente passato, si facevano sentire di più. Non discuto nemmeno della critica, della lamentela e della polemica, perché tutti possiamo sbagliare e noi siamo aperti ad un confronto. Se proprio devo essere sincero, ho l’impressione che la maggior parte dei corridori veda l’ACCPI più come una spesa che come una resa. Mi spiego. Ognuno di loro contribuisce economicamente ma la mia sensazione è che non sempre il contributo venga dato volentieri. Però quando hanno bisogno noi siamo qui, pronti a lottare per loro.

Chi sono i corridori che si spendono di più?

Faccio tre nomi: Letizia Paternoster, Alessandro De Marchi e Matteo Trentin, l’altro vicepresidente dell’ACCPI oltre ad Alessandra Cappellotto. Però è necessario l’aiuto di tutti. Dobbiamo esporci, darci da fare, farci vedere e farci sentire. Stiamo lottando per un diritto, la sicurezza stradale, che riguarda tutti, non soltanto i ciclisti. E se continuano a non ascoltarci, dovremo inventarci qualcos’altro per lasciare il segno. Non ci fermeremo mai e faremo tutto quello che è in nostro potere per far cambiare la situazione.

 

 

Foto in evidenza: ©ACCPI

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.