Se non dico la mia, sto male: intervista a Luca Scinto

Con Luca Scinto abbiamo parlato del direttore sportivo, di Visconti, di Tiberi.

 

 

Luca Scinto è nato a Galleno il 28 gennaio 1968. Dopo una lunga e prolifica trafila nel dilettantismo, Scinto è passato al professionismo nel 1994 e vi è rimasto fino al 2002. In soli otto anni si è affermato come uno dei migliori gregari italiani, diventando uno dei fedelissimi di Michele Bartoli e della Nazionale italiana. In ammiraglia è salito subito dopo essersi ritirato: fino al 2008 si è dedicato ai dilettanti, dopodiché è approdato al professionismo. Esuberante, vulcanico, incapace di scendere a compromessi: Luca Scinto è una voce che il ciclismo italiano (e non solo) deve assolutamente ascoltare.

 

Luca, esattamente cinque anni fa, a cavallo tra il 2014 e il 2015, maturavi l’idea di abbandonare momentaneamente il ciclismo professionistico. Cos’era successo? E cos’hai capito, vivendo una stagione estremamente diversa da quelle abituali?

Mi era passata la voglia, detto in parole povere. La grinta e la passione che tutti mi riconoscono erano venute meno e avevo bisogno di allontanarmi, di staccare la spina, di guardare il mio mondo e la mia vita da un’altra prospettiva. Le positività che colpirono la squadra in quel periodo mi dettero il colpo di grazia: non ero più sicuro di niente, non mi fidavo né dei miei mezzi né dell’ambiente.

Nel 2015 ho vissuto una stagione diversa: ho riflettuto tanto, ho respirato un po’ di più e ho visto un ciclismo diverso, essendomi concentrato perlopiù sui giovani della Franco Ballerini e sulle ragazze della Alé Cipollini, formazione femminile per la quale ho fatto un po’ di promozione e per questo devo ringraziare Federico Zecchetto. E poi, piano piano, sono ripartito. Ho capito chi erano le persone che mi volevano davvero bene e chi erano, invece, quelle che me ne volevano solo a parole; ho visto e conosciuto un mondo diverso da come lo pensavo, nel bene e nel male; e soprattutto ho capito che senza ciclismo non posso stare.

Insieme a Francesco Frassi. ©Neri Sottoli-Selle Italia-KTM, Twitter

Quant’è esigente il ruolo del direttore sportivo per come lo interpreti tu?

Tanto, a volte troppo. Però permettimi di dire che gran parte della risposta sta nel “per come lo interpreti tu” che hai appena sottolineato. Io sono un direttore sportivo da quando mi sveglio a quando vado a letto, dentro e fuori la corsa, di persona e anche con un messaggio, se non posso fare altrimenti. Però lo faccio perché mi piace, perché ho questo fuoco che brucia: ma questo fuoco non brucia per tutti, o ce l’hai o non ce l’hai. Non puoi improvvisarti direttore sportivo dall’oggi al domani, a maggior ragione se non interpreti in un certo modo.

Oggigiorno ne vedo tanti di direttori sportivi che non sanno andare oltre le mail, i messaggini e i programmi al computer. Io credo invece che un direttore sportivo debba interfacciarsi in continuazione coi corridori: confrontarcisi, scherzarci, ragionarci di biciclette ma anche di altro; dev’essere bravo a compattare il gruppo, a conoscere i suoi atleti, ad affascinarli con le parole e coi fatti così da farsi seguire e rispettare. Questo significa sacrificare tanto tempo, pensare sempre alle cose giuste da dire e da fare, salire nelle camere dei ragazzi e rimanerci anche mezz’ora, se necessario; non chiudersi nella propria e chi s’è visto, s’è visto. Come dicevo prima, ci vuole passione: e non tutti ce l’hanno.

Ormai Luca sei in ammiraglia da oltre quindici anni, quindi hai accumulato una certa esperienza. Com’è cambiato il mestiere del direttore sportivo? Chi sono i tuoi riferimenti?

Di maestro ce n’è soltanto uno: Giancarlo Ferretti. Era carismatico, sapeva motivare i suoi ragazzi e sapeva farli rendere al massimo. Mi sono sempre sentito vicino al suo modo di pensare. Dei colleghi attuali mi piace molto Davide Bramati. Siamo coetanei e vince già da un pezzo, quindi di lui posso solo parlare bene; e poi è un motivatore, sa muovere alla perfezione i suoi ragazzi, cerca sempre il contatto fisico, come del resto piace fare a me. Parlare di Ferretti e Bramati, secondo me, aiuta a capire due aspetti della questione: punto primo, il ciclismo è cambiato ma ci sono delle costanti, delle dinamiche che continuano a ripetersi e ad assomigliarsi; punto secondo, che la tecnologia e tutto quello che le ruota intorno può essere preziosa ed è sicuramente inevitabile, ma non è tutto.

Il ciclismo non può essere ridotto a questo. Bisogna capire che comanda la testa: un atleta abbattuto, sfiduciato o distratto dai problemi della quotidianità non può rendere quanto uno sereno. Ma per capire, o per provare a capire, cosa c’è che non va in un ragazzo, devi parlarci, devi passarci tanto tempo insieme, devi fargli capire che di te può fidarsi. Giusto o meno, la tecnologia continuerà ad avanzare e difficilmente potremo fare qualcosa; riscoprire l’aspetto umano della questione, invece, si può fare: dipende tutto da noi. Oltre agli insegnamenti di Ferretti e dell’esperienza, insomma, c’è anche qualcosa di mio: nel bene e nel male. Credo di essere un ottimo uomo da ammiraglia.

©Neri Sottoli-Selle Italia-KTM, Twitter

Avrei voluto chiedertelo più avanti, ma approfitto del fatto che ne stiamo già parlando. Ti piace il ciclismo odierno?

A me piace il ciclismo di una volta, lo dico a costo di passare per nostalgico. Io con la tecnologia non ci vado tanto d’accordo, ma far finta che non esista o impedire che progredisca è impossibile, oltre che stupido. Io mi ci affido il meno possibile, giusto per l’indispensabile. Ecco, credo che nel ciclismo questa visione si sia persa. Ci si affida alla tecnologia per tutto: per conoscere le corse, per allenarsi, per correre, per parlare. Strumenti come il frequenzimetro e il potenziometro vanno usati in allenamento, non in corsa, e anche durante gli allenamenti è sbagliato affidarcisi del tutto perché uno perde l’abitudine ad ascoltare il proprio corpo, a cercare di capirlo, a sviluppare una certa sensibilità, quella sensibilità che spesso distingue i campioni da tutti gli altri.

Ti faccio degli esempi. A volte mi affianco a qualcuno dei miei e lo vedo sofferente e nervoso. “Oggi non è una bella giornata, non mi si alzano i watt e la frequenza di pedalata”, e li vedi sprofondare nella preoccupazione. A me dà noia sentire questi discorsi, perché i numeri dicono tanto ma non dicono tutto. La storia del ciclismo è piena di corse vinte da corridori che nelle prime due o tre ore annaspavano a metà gruppo e scuotevano la testa. Se i numeri non sono quelli che ti aspetti e non sai andare oltre, ti ritrovi a fissare in continuazione questi aggeggi e a chiederti cosa c’è che non va.

Un altro atteggiamento che non sopporto è quello della superficialità. In corsa mi si affiancano i miei e mi chiedono quando arriva il rifornimento, quando inizia la salita, quant’è lunga e dura; la sera prima, quando avrebbero dovuto studiare queste cose, erano col cellulare in mano ad ascoltare la musica e a guardare chissà cosa. Io sono il direttore sportivo, quindi il mio mestiere è anche ripetere allo sfinimento queste cose, però non va bene arrivare a metà gara e sapere poco e nulla di quello che ti aspetta. La tecnologia può influenzare e distrarre: per questo bisogna stare attenti e ricordarsi di pensare con la propria testa. In vent’anni siamo passati dal dialogo alle mail e nel mezzo ci sono stati i fogliettini. Una volta il dialogo era l’unico modo per parlare e per conoscersi, oggi non è più così ed è fondamentale capire quali sono le conseguenze di tutto questo.

Quello di direttore sportivo è l’unico ruolo che ti piace e che senti tuo?

Sì, almeno per il momento. Del mio lavoro mi piace tutto. Fare il direttore sportivo non significa soltanto guidare l’ammiraglia, dare qualche orario e strillare. Io voglio entrare nella testa dei miei ragazzi, voglio conoscerli e voglio capire cosa vogliono e cosa possono darmi. Ognuno ha i suoi pregi e i suoi difetti, quindi la sfida è quella di creare un rapporto bello e forte con persone diverse l’una dall’altra. Un bravo direttore sportivo è quello che fa rendere al massimo i suoi corridori, anche quelli apparentemente meno dotati, che riescono a brillare o a ritagliarsi un ruolo importante se seguiti e apprezzati per quello che sono e per quello che riescono a dare.

Parlo con loro, salgo nelle camere, chiacchiero coi massaggiatori chiedendo loro come stavano le gambe dei ragazzi, se qualcuno di loro si è lamentato o ha fatto bisogni particolari. E poi cerco di formare un gruppo unito e affiatato. Per questo, spesso e volentieri, ci piace ritrovarci sul pullman dopo cena per prendere un caffè e ragionare del più e del meno: delle corse ma non solo, perché ridere e scherzare è tanto importante quanto conoscere le corse e i compagni di squadra. Io voglio sapere tutto, il mio compito è questo. Essere un buon direttore sportivo non è semplice, ma ci provo tutti i giorni e mi piace ancora da morire.

Quando Mattia Bevilacqua diventò campione italiano tra gli juniores. ©scinto luca pitone, Twitter

C’è mai stata per te la possibilità di diventare commissario tecnico della Nazionale? Ne hai fatto parte da corridore, sei uno dei tecnici italiani più stimati e sei stato un grande amico di Franco Ballerini.

No, non c’è mai stata nessuna proposta. Ti dico la verità: in passato mi sarebbe piaciuto molto, ora come ora non saprei. Ho bisogno di vivere la quotidianità del ciclismo e delle corse, mentre con la Nazionale ti giochi tutto al Mondiale; ora ci sono anche gli Europei, è vero, ma è il Mondiale il momento in cui si valuta l’operato della Nazionale. Non c’è bisogno che vi dica quanto sia importante quel ruolo, sarebbe il coronamento di una carriera: però diciamo che ora come ora alla Nazionale preferisco una squadra. Anche per questo non mi sono mai esposto in merito. La maglia azzurra richiede onestà, dedizione e sacrificio, te la devi sentire addosso e dentro, e io adesso non sarei pronto a ricoprire quel ruolo.

Comunque credo d’essere ancora giovane, il tempo è dalla mia parte e se un domani mi venisse proposto potrei anche accettare. Intanto c’è Davide Cassani, che è bravo e sta facendo un bel lavoro. Più che l’età, a preoccuparmi è il mio temperamento. Negli anni mi sono calmato, e per questo devo ringraziare anche alcune persone che mi stanno accanto da tanto tempo, ma rimango lo stesso Scinto di sempre: impulsivo, diretto, scomodo e polemico. Se non dico la mia, sto male. E un commissario tecnico non potrebbe permetterselo, dovrebbe essere più diplomatico.

A proposito del tuo carattere, quanto ti è costato essere Luca Scinto?

Abbastanza, senza dubbio, ma non me ne pento: credo d’avere dei valori giusti. A volte ho sbagliato e non l’ho mai negato, anzi; probabilmente sbaglierò ancora e accetterò sempre le critiche e la tirata d’orecchie. Però se vedo una cosa sbagliata devo dirlo, è più forte di me. Così come incasso le critiche, voglio poterle fare quando lo reputo giusto.

Hai lavorato coi giovani e lavori tutt’ora con i ragazzi della Franco Ballerini, quindi le categorie giovanili le conosci molto bene. Cosa ti piace di questa realtà così diversa da quella del professionismo? Cos’hai imparato tra gli juniores e tra i dilettanti?

Un’esperienza bellissima e un ambiente nel quale ritorno sempre volentieri. I ragazzi, specialmente gli juniores, ti ascoltano di più perché sono ancora molto giovani e hanno tutto da imparare. Anche se negli ultimi anni ho notato tanta fretta, da parte di tutti: corridori, squadre, famiglie. Sembra che le gerarchie, le stesse gerarchie che fino a pochi anni fa venivano rispettate e affrontate con calma, siano lì per essere scalate in fretta e furia.

Invece ci vuole pazienza. Di Remco Evenepoel ne nasce uno ogni cinquant’anni, non prendetelo come modello di riferimento se no salta tutto. Secondo me, la maggior parte dei ventenni che oggi fanno parte del World Tour smetterà intorno ai trent’anni. Come fanno a durare fino a trentacinque o quarant’anni, se già a diciotto sono dei professionisti in miniatura? Più di tanto non puoi durare. Sia chiaro, è una mia considerazione e nulla più, però la vedo così. Avere a che fare con juniores e dilettanti nel 2019 è molto stimolante: ci sono tante sfide da affrontare, raramente le categorie giovanili hanno attraversato periodi così complessi.

Visconti, Bevilacqua, Tiberi. ©Neri Sottoli-Selle Italia-KTM, Twitter

Voi della Franco Ballerini potete parlare con cognizione di causa, dato che fino al 31 dicembre 2019 Antonio Tiberi è un vostro corridore.

Oltre ad essere talentuoso e ben strutturato, Tiberi è un ragazzo d’oro e ci tengo a sottolineare la sua maturità nonostante l’età. Credo di poter dire che la Ballerini l’ha gestito bene, facendolo crescere con regolarità. Il potenziale è enorme e in prospettiva lo vedo forte nelle grandi corse a tappe. Gli faccio i miei auguri più sinceri per il passaggio ala Colpack e per la sua carriera tra i professionisti che inizierà nel 2021 con la Trek-Segafredo. Spero che durante il suo viaggio possa trovare delle persone serie, appassionate e competenti: nessuno che gli monti la testa, che gli prometta mari e monti e che lo lasci da solo nei momenti difficili, perché prima o poi arrivano anche quelli e saperli gestire fa tutta la differenza del mondo. Ne ho conosciuti tanti che partivano con tante credenziali e si sono persi.

Domande secche, adesso. La gioia e la delusione più grandi della tua carriera da direttore sportivo, Luca.

Fortunatamente di giornate belle ne ho vissute tante: i tre tricolori di Giovanni Visconti, la vittoria di Oscar Gatto al Giro d’Italia 2011, e ancora Visconti che batte Egan Bernal e si aggiudica il Giro della Toscana 2019, praticamente una delle corse di casa nostra. L’avevamo preparata con cura, l’avevamo messa nel mirino fin dall’inizio della stagione. Non ho dubbi invece sulla delusione più grande: Filippo Pozzato. Ci sono andato d’accordo soltanto per tre mesi nel 2012, e infatti arrivò secondo al Giro delle Fiandre. Poi, quand’è tornato da noi nel 2016, non aveva più voglia di correre e di fare il professionista. Doveva fare da chioccia ai più giovani e invece dava il cattivo esempio e generava tensione. Una delusione sotto tutti i punti di vista: umano e sportivo.

E la corsa che ti piacerebbe vincere più di ogni altra?

Facile: una tappa al Giro d’Italia con annessa maglia rosa. Oddio, a pensarci mica tanto facile, ma nel nostro mondo si vive anche, se non soprattutto, di sogni. Non dico di portare la maglia rosa per tanti giorni, beninteso: ne basterebbe anche uno, ma che soddisfazione sarebbe. Tutti gli anni fremiamo per sapere se siamo stati invitati o meno al Giro d’Italia perché è la corsa del nostro paese e fare bene in quelle tre settimane ha un valore inestimabile. Ad alcuni potrà sembrare che ci accontentiamo di poco, ma non m’interessa.

Io la vedo dalla sponda opposta: è più facile vincere le corse quando hai tanti campioni, gregari di lusso e un budget spropositato. Noi dobbiamo fare con quel poco che abbiamo: scommettere sui giovani per poi vederli andare via se possono ancora crescere, puntare spesso e volentieri sulle fughe da lontano, sperare che RCS ci consideri e ci inviti alle corse italiane più importanti del calendario. Per una squadra come la nostra, momenti simili sono unici; per una squadra che ha Froome e Nibali, invece, dev’essere normale: quello che per noi è un sogno, per loro è un obiettivo.

©Neri Sottoli-Selle Italia-KTM, Twitter

Nel ciclismo non esiste il concetto di bandiera: le squadre cambiano in continuazione, i corridori cambiano squadra spesso e volentieri, così come gli sponsor, che ora subentrano e ora abbandonano. Eppure, nonostante tutto, il sodalizio tra Scinto, Citracca e gli sponsor che vi sostengono da anni prosegue a gonfie vele. Cosa c’è alla base di questo rapporto?

Amicizia e stima, direi. Angelo Citracca è un amico, uno di quelli veri, uno dei pochi coi quali mi confido. Ci conosciamo da tanti anni, ci piace pedalare insieme e ci confrontiamo non soltanto sul ciclismo, ma anche sulla nostra vita. Abbiamo discusso e litigato, è vero, ma siamo sempre tornati insieme perché ci vogliamo bene e vogliamo entrambi il bene dell’altro. Lui è più chiuso e introverso di me, ve ne sarete accorti, ma il valore della persona e del professionista sono indiscutibili. È un gran testardo: non avete idea di quante volte gli ho detto di lasciar perdere, di non ammazzarsi di lavoro per far quadrare tutto, di uscire dal professionismo per concentrarsi esclusivamente sulle categorie giovanili. E invece, tra alti e bassi, siamo ancora lì.

Io l’ho sempre detto: Citracca è un fenomeno, perché con dei budget modesti è sempre riuscito ad allestire delle ottime squadre. Ha occhio per i corridori, sa trattare con gli sponsor e sa tenerseli stretti. Un giorno mi piacerebbe vederlo lavorare potendo contare su un budget veramente importante: sono sicuro che farebbe meglio di tanti altri manager. Le prova tutte, pur di non lasciare a casa tutte quelle persone che lavorano per lui e per la squadra. È davvero una bella persona, una risorsa per il ciclismo italiano. E ovviamente un grazie va anche ai nostri sponsor: non è scontato trovare persone appassionate e disposte ad investire certe somme in uno sport come il ciclismo, che tanto può dare e tanto può togliere, e io ne so qualcosa.

Un bel rapporto è anche quello che c’è tra te e Giovanni Visconti. Perché vi siete avvicinati così tanto, secondo te?

Guarda, io mi sono ritirato nel 2002 e a novembre dello stesso anno, in un bar, io e Citracca ci siamo stretti la mano e abbiamo iniziato questo viaggio. A quel tempo lavoravamo coi dilettanti e Angelo mi disse subito che ne avevano preso uno talentuoso, caparbio e promettente: era Visconti. Di un ragazzo e di un corridore come Giovanni posso solo parlare bene. Pedala ancora per passione, è un professionista impeccabile, un vero e proprio riferimento per i giovani. Quest’estate è risalito in bicicletta cinque giorni dopo il terribile incidente in Austria, nonostante avesse un buco in pancia; una persona normale stava ferma qualche mese, lui dopo cinque giorni era sul San Baronto.

Non ci sono mai stati attimi di tensione?

Certo che ci sono stati. Quando Giovanni andò alla Movistar, era il 2012, io mi arrabbiai molto, ma col tempo ho capito che stavo sbagliando io: lui era un ottimo corridore, aveva ventotto anni e giustamente voleva giocarsi le sue carte in una delle squadre più forti del mondo. Sbagliai, non voglio sostenere il contrario, ma Giovanni sa che quell’errore era dovuto alla stima e all’affetto che ho sempre avuto nei suoi confronti. Anzi, ti dirò di più: secondo me Giovanni ha reso molto meno di quello che prometteva e di quello che avrebbe potuto dare. Non fraintendermi, ha vinto delle bellissime corse: due tappe e la maglia di miglior scalatore al Giro d’Italia, il Giro dell’Emilia, tre campionati italiani; ha anche vestito la maglia rosa, senza dimenticare tutti i piazzamenti che ha fatto. Però nessuno mi leva dalla testa che avrebbe potuto fare molto di più. Secondo me, ad esempio, gli manca una classica: un Lombardia, ad esempio, il miglior Visconti avrebbe potuto vincerlo.

©Neri Sottoli-Selle Italia-KTM, Twitter

Secondo te, Luca, è ancora in tempo per provarci?

Ne sono convinto. Secondo me, un corridore che si allena con passione e regolarità è più forte a trentacinque anni che a venticinque: per questo dico che Giovanni, pur non essendo più un ragazzino, ha ancora un paio d’anni davanti per fare delle belle cose. Se a suo tempo avessimo avuto il budget necessario per costruirgli una bella squadra attorno, oppure se nei suoi anni migliori avesse avuto Luca Scinto in ammiraglia, Giovanni Visconti avrebbe fatto molto meglio. Ma non perché io sono bravo e gli altri no, figuriamoci; ma perché tra me e Giovanni c’è sintonia, amicizia, complicità.

Io Visconti lo capisco come pochi altri: mi ascolta, riesco ad entrargli in testa, a motivarlo, a tranquillizzarlo. E poi non fatevi ingannare dall’umiltà e dalla tranquillità con cui si presenta di tanto in tanto ai microfoni o in televisione: lui ha questo carattere, tende sempre a mettere le mani avanti, ma in corsa diventa un animale. Però ormai non ha senso ripensare a quello che è stato. Pensiamo piuttosto a quello che possiamo fare insieme: per noi è un piacere poter contare su un corridore e un uomo come Giovanni Visconti e il 2019 ha dimostrato che l’atleta c’è ancora e che può dare ancora molto.

Luca, prima di lasciarti vorrei un parere sulla riforma che cambierà un’altra volta le carte in tavola. Immagino tu non sia tanto contento.

Assolutamente no. Il ciclismo sta diventando sempre più costoso e sempre più complicato. Ancora oggi, dopo un anno che se ne ragiona, non ho ancora capito a favore di chi è stata pensata e fatta questa riforma: ma qualcuno che ne trae vantaggio ci dev’essere, altrimenti non si spiega. I problemi sono sempre gli stessi: le Professional francesi che hanno budget da World Tour o quasi, quindi correrci contro è diventato davvero complicato; il numero delle World Tour, diciannove, che è esagerato; e poi gli obblighi delle squadre Professional.

Il numero minimo di corridori, i punteggi per fare le classifiche, il passaporto biologico: abbiamo praticamente gli stessi doveri di una World Tour ma, a differenza loro, dobbiamo metterci in mostra per mesi e mesi per racimolare un paio di inviti. E non è detto che ci si riesca. Come fai a stilare dei programmi con tutti questi punti interrogativi sul calendario? Se io vado da uno sponsor, la prima cosa che mi chiede è: “Il Giro d’Italia lo fate?”. Io sono costretto a dirgli che non lo so, perché gli inviti non seguono dei criteri precisi e si può essere dentro come fuori. Mi sembra tutto troppo complicato.

Una riforma del genere soffoca il movimento italiano, e non pensate che in Spagna siano messi meglio. Io credo che alle formazioni italiane debba essere data la possibilità di partecipare alle corse italiane più importanti. Intanto una, la Nippo, se n’è andata. Siamo rimaste in tre, vediamo quanto dureremo. Purtroppo non ci si può inventare nulla. La passione c’è, si continua a correre per vincere e a cercare quello sponsor che possa far svoltare la situazione, ma non si può proseguire all’infinito. Le leggi non le facciamo noi e chi le fa evidentemente è convinto d’essere nel giusto. Finché sarà possibile andare avanti al meglio, lo faremo; se no ci fermeremo, senza tante chiacchiere: punto e basta.

 

 

Foto in evidenza: ©Neri-Selle Italia-KTM, Twitter

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.