Gli esami non finiscono mai: intervista a Giovanni Aleotti

Intervista a Giovanni Aleotti, una delle promesse del ciclismo italiano Under 23.

 

 

Giovanni Aleotti è un corridore in divenire. Un ragazzo che poco a poco cresce e si trasforma, come uomo e come atleta. Sogna, come tutti. Quando lo fa, a occhi aperti, si immagina di essere competitivo nelle corse in linea, magari al Giro dell’Emilia, che sarebbe come segnare un gol nello stadio di casa – per lui, interista, un gol a San Siro: “Su quelle strade mi sono allenato per anni e le conosco a memoria, ci sono cresciuto; seguendo dal vivo il Giro dell’Emilia mi sono innamorato di questo sport.  E nel 2018 mi tremarono le gambe non solo per la fatica: ho disputato quella corsa con la maglia della nazionale e in gruppo c’erano corridori come Nibali, Roglič e Bernal. Fu un’emozione unica“.

Quel giorno non c’era Philippe Gilbert, nato e cresciuto sulle strade dell’altra corsa dei desideri di Aleotti, la Liegi-Bastogne-Liegi; un corridore, il belga, che peraltro fa parte del Pantheon personale del corridore classe ’99: “Mi ispiro a lui per il suo modo di interpretare le gare e di vincere. Per le sue imprese è un punto di riferimento per tutta la nostra generazione. Correrci a fianco alla Adriatica Ionica Race, alla quale ho partecipato con il Cycling Team Friuli, è stata una sensazione fantastica“.

Scruta e studia da vicino i grandi del ciclismo attuale, sogna le corse di un giorno, ma in questo 2019 la sua prova più importante a livello internazionale è in una corsa a tappe: podio al Tour de l’Avenir, un risultato che dimostra quanto i suoi limiti siano ancora inesplorati e i margini ancora ampi: “Volevo vincere una tappa e ci sono andato vicino. Mi sono ritrovato in classifica dopo la cronosquadre, sono migliorato giorno dopo giorno, ho vestito la maglia a pois e poi quella gialla; ho visto che la condizione cresceva, tenevo i più forti sulle salite lunghe e alla fine ho colto un podio incredibile, frutto di un miglioramento costante”. 

Aleotti è grato, solido, maturo. E senza troppi giri di parole: va forte. È grato a quella terra, la provincia di Modena – per la precisione Finale Emilia – devastata dal terremoto del 2012 e che “porta ancora evidenti cicatrici“; su quelle strade da bambino scorrazzava “con una Scout giallo fluo con il cambio sul cannone“, la sua prima bicicletta, in sella alla quale ha raccolto la sua prima vittoria: “Non sono un vincitore seriale, ma quelle due o tre corse all’anno le ho sempre portate a casa, sin dalla categoria giovanissimi“. E lo dimostra anche nel 2019, puntuale con tre successi: Trofeo Edil C, Diexer Bergrennen-Diex e Coppa Città di San Daniele.

È grato ai genitori, grazie ai quali si è avvicinato a questo sport: “Vedevo mio padre uscire in bici con gli amici e mi sono appassionato al ciclismo.” È grato al Cycling Team Friuli e al CTF Lab, che gli hanno permesso di crescere: “Sono stato fortunato ad aver trovato questa squadra composta da persone estremamente competenti; mi aiutano a migliorare gara dopo gara e qui sto maturando come corridore e come persona. Con loro abbiamo fatto un percorso di crescita graduale che sta dando i suoi frutti“.  Chiedere a Fabbro, Venchiarutti e Bais, gli ultimi tre corridori passati professionisti dopo essere germogliati con la casacca del team friulano.

Aleotti è solido, tanto da coniugare ciclismo e scuola: “Studio scienze motorie all’Università; sono riuscito a dare cinque esami nella scorsa sessione invernale, e se durante il Giro è stato praticamente impossibile mettermi sui libri, prima del Mondiale sono riuscito a superare anche un esame.” Un Mondiale che gli ha lasciato un mix di sensazioni: “Felicità per la vittoria di Battistella, ma delusione personale per un problema meccanico che mi ha tolto di mezzo nella fase calda della corsa: stavo bene e puntavo a un buon risultato.

È maturo da riconoscere quanto sia importante l’attività all’estero che svolge con i bianconeri: “Corriamo spesso nell’Europa dell’est e quelle gare ti fanno progredire: cambi di ritmo, chilometraggio intorno ai duecento chilometri, avversari che corrono con il coltello tra i denti. Tutti elementi che ti permettono di salire di livello. In Italia si disputano troppo spesso circuiti da cento chilometri, poche corse a tappe: così è difficile avere una certa competitività quando ti scontri con i coetanei stranieri“.

Definisce van der Poelun fenomeno” e De Marchi “un punto di riferimento per tutti noi del Cycling Team Friuli, per come ci stimola, per la sua professionalità e per il legame con la nostra squadra e il territorio“; mentre Cassani “sa toccare le corde giuste” e Pidcock: “è fortissimo: tra Avenir e Mondiale ci ha dato un sacco di filo da torcere.” E quando si parla del suo coetaneo, l’argomento cade in modo inesorabile sulle parole dette pochi giorni fa proprio dal piccolo corridore britannico: “Sono d’accordo con lui: diventare professionisti troppo giovani non sempre è un bene, si rischia di bruciarsi. Io ho la fortuna di correre con una squadra che mi permette di crescere per gradi, di correre qualche gara con i professionisti, e questo aiuta a far sì che io possa prepararmi bene senza troppe pressioni per gli obiettivi stagionali “.

Quegli obiettivi che quest’anno, seppur in parte, sono stati centrati: “Le vittorie potevano essere di più, a volte mi sono giocato male qualche finale: questo significa che devo migliorare. Se devo darmi un voto mi do un nove: sono rimasto competitivo per tutta la stagione, ma per darmi un dieci bisognava fare qualcosa di più“. Parole di un ventenne che studia per diventare un ciclista professionista, ché tanto gli esami non finiscono mai.

 

Foto in evidenza: ©ASD U.C. Sandanielesi, Facebook

Alessandro Autieri

Alessandro Autieri

Webmaster, Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. Doppia di due lustri in vecchiaia i suoi compagni di viaggio e vorrebbe avere tempo per scrivere di più. Pensa che Mathieu Van der Poel e Wout Van Aert siano la cosa migliore successa al ciclismo da tanti anni a questa parte.