Una questione di tempismo: intervista a Giacomo Nizzolo

Giacomo Nizzolo vuole e deve rilanciare una carriera fin troppo sfortunata.

 

 

Giacomo Nizzolo aveva immaginato un esito diverso per il primo Tour de France della sua carriera; e invece ha dovuto digerire il ritiro arrivato nella dodicesima tappa, tra Tolosa e Bagnères-de-Bigorre, dopo aver pedalato per un centinaio di chilometri nella speranza che i problemi allo stomaco e la caduta del giorno precedente dimenticassero di manifestarsi. Fin lì aveva corso bene, Nizzolo: quarto nella prima tappa, altre due volte settimo e la sensazione che, se le cose si fossero messe in un certo modo, una frazione potesse essere alla sua portata.

“E non dite che sono stato chiamato per sostituire Cavendish”, puntualizza. “La mia partecipazione era stata concordata a gennaio, altrimenti non avrei abbandonato il Giro d’Italia”. In quella manciata di secondi che ha visto Nizzolo smontare di sella e avviarsi verso il sedile dell’ammiraglia, si è palesato Contador. “Era sinceramente dispiaciuto, mi ha detto di farmi forza e di rimettermi; nulla di che, insomma, le cose che si dicono in situazioni del genere. Però mi ha fatto piacere. Abbiamo corso insieme, mi conosce e sa che sono uno di quelli che non mollerebbe mai”.

No, Nizzolo non getta la spugna tanto facilmente. Per guadagnarsi la convocazione al Tour de France di quest’anno, ha dovuto cambiare squadra – dalla Trek-Segafredo alla Dimension Data – e avere la meglio sugli acciacchi che lo hanno appesantito tra il 2017 e il 2018. “Quelle due stagioni rappresentano ancora un grosso cruccio per me, non lo nego”. Capirne i motivi è piuttosto semplice: il 2016 era stata un’annata più che positiva per lui. Aveva esultato in sette occasioni, conquistando la maglia di campione italiano e la seconda classifica a punti consecutiva del Giro d’Italia;  fu undicesimo alla Gand-Wevelgem, terzo ad Amburgo, ottavo a Ploauy e quinto nella prova in linea dei mondiali di Doha.

Prima una tendinite e poi un virus impedirono a Nizzolo di consacrarsi proprio nel momento più importante della sua carriera. “Se uno potesse sapere cosa gli riserverà la sorte, sarebbe un bel vivere. Tocca prendere quello che viene e regolarsi di conseguenza. Può darsi che in alcuni frangenti abbia anticipato fin troppo il rientro, ma finché uno non rientra alle corse come fa ad accorgersene?”.

Nizzolo compirà trentuno anni a gennaio, un’età delicata ma preziosa: abbastanza maturo per poter giocare d’astuzia e d’esperienza ma ancora in forze per avvicinarsi ai sogni di sempre – oppure al Nizzolo che fu. Intanto si potrebbe pensare ad una classica: la Milano-Sanremo – “Quella che più mi si addice, da bambino non mi perdevo nemmeno una partenza, i corridori mi sembravano degli extraterrestri” – oppure la Gand-Wevelgem, “anche se per rimanere davanti nelle classiche è necessario aver trascorso un inverno tranquillo e produttivo, cosa che a me non è mai capitata”.

Incredibile ma vero, Nizzolo non ha ancora vinto una tappa al Giro d’Italia; ci riuscì in quella di Torino che chiudeva l’edizione del 2016, ma venne declassato a causa di una manovra giudicata pericolosa – all’atto pratico fu il più forte, Modolo non lo avrebbe sopravanzato: ad oggi, è arrivato nove volte secondo, cinque volte terzo, cinque volte quarto, sei volte quinto – i piazzamenti entro i primi dieci sarebbero molti di più, ma ve li risparmiamo.

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Uno degli obiettivi di Nizzolo sarà sicuramente anche sfatare questo tabù: sfrutterà tempismo e freddezza, secondo il suo autorevole parere le due doti più importanti per un velocista, e magari la presenza di un ultimo uomo esperto che possa pilotarlo in mezzo al marasma. “E che mi è quasi sempre mancato, se posso permettermi. Di quelli che ho conosciuto, Renshaw è senza dubbio il migliore: non ha più l’esplosività degli anni d’oro, ma sa calarsi nella parte come nessun altro. Il velocista deve avere un ultimo uomo valido e di cui fidarsi, ecco perché molti sprinter fanno le volate per conto loro: perché non si fidano”.

Nizzolo si fiderebbe di se stesso nelle vesti di apripista? “Non saprei, non ci ho mai pensato, mi vedo ancora a caccia della vittoria. Non nego che mi piacerebbe avere una squadra dedicata il più possibile al mio risultato, mi risparmierei quantomeno di iniziare le volate dalla testa del gruppo come spesso mi è successo; ma capisco che il sistema di punteggio che regola le classifiche attuali obbliga ogni formazione ad avere più alternative possibili, tra volate, fughe e classifica generale”.

Perché Nizzolo questo è – ed è sempre stato: un velocista. Nel modo di correre, nel modo di approcciare la vittoria, nel modo di pensare. “Sono stato bravo ma anche fortunato, è giusto dirlo. Volevo diventare un velocista e sono nato con le caratteristiche giuste per esserlo ad ottimi livelli”. Dall’infanzia affiorano soprattutto le battaglie tra Cipollini e Quaranta – “Il primo per forza e costanza, il secondo per l’estro che dimostrava ogni volta che batteva il primo” – e un ritornello che avrebbe continuato a sentire per diverso tempo: le volate sono cambiate, non sono più quelle di una volta.

Già, ma cosa vuol dire? All’apparenza tutto e nulla: hanno buttato gli sprint nello stesso calderone delle mezze stagioni – quello delle lamentele, per intendersi. “Sono passato professionista nel 2011 e già lo si diceva”, sorride Nizzolo. “Come dicevo prima, il funzionamento delle classifiche sconsiglia alle squadre di puntare soltanto sul velocista. Dunque non ci sono più dei treni organizzati e, per vincere spesso e volentieri, bisogna essere davvero forti”. La presenza di così tanti sprinter sullo stesso livello è uno degli spunti più interessanti di questa stagione. “Me ne rendo conto, è interessante per me che la vivo da vicino”, ci conferma. “E fidatevi: non è un livellamento verso il basso, bensì verso l’alto; se ogni giorno vince un nome diverso, è perché i primi cinque o sei della classe sono veramente forti”.

Se Nizzolo guardasse indietro, le sensazioni predominanti sarebbero agrodolci: rabbia per le occasioni sfumate, dispiacere per i problemi fisici indipendenti dalla sua volontà, nostalgia del passato – nove anni di professionismo non sono pochi. Meglio guardare avanti, anche se questo significa incertezza, responsabilità e una certa dose di predestinazione. Nizzolo sembra aver definitivamente superato i dolori e gli infortuni, come un velocista che vede la strada libera davanti ai suoi occhi dopo aver schivato i detriti che si staccano dalla testa del gruppo.

Quel che oggi vede solo parzialmente – il Tour de France ma anche le tre vittorie stagionali e il terzo posto raccolto ad Amburgo – può comunque verificarsi. Lui lo sa bene, dato che al ciclismo c’è arrivato senza che nessuno ce lo indirizzasse; una visione globale dello sport che gli è rimasta, se è vero che segue tuttora i motori, il calcio, le arti marziali miste, il basket e il tennis. D’altronde quella del mimetismo è un’arte che un velocista deve saper maneggiare egregiamente: piombare sul traguardo al momento giusto anche quando la distanza non è precisamente stimabile, né un attimo prima né un attimo dopo.

 

 

Foto in evidenza: ©Emanuela Sartorio

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.