Poche parole e molti significati: intervista a Marta Cavalli

Il futuro del ciclismo azzurro si riflette nelle parole di Marta Cavalli.

 

 

Marta Cavalli ricorda molto bene una volata di Mark Cavendish al Giro d’Italia. Fu proprio dopo quella volata che uscì nel cortile di casa a Cremona con la sua bicicletta provando a imitare il modo di sprintare di quei velocisti. I suoi primi allenamenti erano proprio così, magari dopo aver aiutato il papà, anche egli ciclista, a sistemare la sua bicicletta, a riempire le borracce oppure dopo aver ascoltato il nonno che le raccontava delle storie sulla sua squadra di ciclismo.

Poi la prima bicicletta, una mountain bike fucsia con ruote chiodate e un piccolo vezzo: il cavalletto. La bicicletta doveva avere il cavalletto. Perché? Perché così poteva stare in piedi senza essere poggiata per terra o al muro. Una forma di cura, di attenzione primordiale. Poi la prima gara in un circuito cittadino: “Mio papà da bordo strada mi gridava di stare tranquilla a ruota. Lo ho ascoltato per un poco poi vedendo tutti i bambini che scattavano ho iniziato a scattare anche io. Sono arrivata stremata, senza un filo di energie”.

Si è fatta strada così la decisione di fare sul serio: “Vedere le gare da casa è bello ma manca sempre qualcosa. Quando mi capita provo a immedesimarmi nel corridore immaginando cosa farei fossi al suo posto. Il punto è che non essere lì, non essere quel ciclista, non sentire quelle sensazioni, manca sempre. Certe volte manca anche la tensione di inizio corsa, quella positiva: quel morso allo stomaco che provo quando sento la gara. Quest’anno al Giro delle Fiandre, ad esempio. In pista la tensione è sempre più forte: il pensiero di dissipare tutto il lavoro per una distrazione di un secondo è assurdo. Eppure anche quello manca”.

Alcuni ricordi sono freschi, mentre altri scoloriscono, nell’album delle foto di famiglia. Intanto giunge un’altra consapevolezza: quanto è difficile farsi ricordare, essere sempre tenuti in considerazione? “È qualcosa di estremamente difficile. Se sei come me in particolar modo. Io sono una persona molto introversa. Sto in silenzio. Guardo, ascolto, lavoro tanto ma non parlo molto. Non faccio battute divertenti. L’estroversione non mi appartiene per nulla. La gente fatica a ricordarsi di te se sei così. È molto più facile rimanere nella mente di qualcuno se ridi, scherzi o sei chiacchierone. È più facile perché ti notano, perché salti all’occhio. Se sei introverso farti ricordare è molto più difficile. Vorresti tanto ma devi metterci molto molto più impegno, devi cercare continuamente di dimostrare quello che sei, come sei”.

A Cavalli piacerebbe essere ricordata come una ragazza seria e una professionista diligente, in particolare dallo staff della sua squadra, la Valcar Cylance Cycling. “Ricordo ancora la riunione di squadra al termine del primo anno giovanissimi; eravamo quattordici ragazze, a correre siamo rimaste in tre. Quando diciamo che Valcar è una famiglia intendiamo questo: c’è tutta la capacità di comunicazione che si ha con persone che conosci da quando sei ragazzina. La comprensione da parte di persone che ti hanno vista crescere. Ma anche molto altro”.

Parlando con noi, nella mente di Marta riaffiora una sensazione che diventa tangibile; ce la racconta in un modo così denso che sembra di poterla vedere: è la stretta di mano che si dà con il suo preparatore. “In quelle strette c’è tutto. Sacrifici, paura,  tensione, sfoghi, dolore, urla liberatorie a fine gara. Quel “batti cinque” così forte che ti fa formicolare la mano. Quelle strette hanno un potere speciale: condensano tutto”.

©VALCAR CYLANCE

Cavalli ha una capacità particolare: preferisce aggiungere che togliere. Nel lavoro come nel racconto. Lo fa con il modo delle persone timide: poche parole e molti significati. “La mia soddisfazione più grande in pista è sicuramente la vittoria di questo inverno a Hong Kong. In pista sono cresciuta sbagliando: se non sbagli non cresci. Non solo: ho imparato viaggiando. Nessuno pensa a te quando sei lontana da casa, non c’è la tua famiglia lì ad aiutarti. Devi pensarci tu. Devi adattarti. Io credo che quello che noi stiamo facendo adesso sia importantissimo per il domani”.

Vivere il presente per quello che è non è facile, e spesso ciò che accade conta nella sua proiezione sul futuro: tanto nei momenti belli quanto in quelli difficili. Due esempi: la vittoria al campionato italiano e la crisi al Giro di Norvegia 2017. Ci confessa che la vittoria al campionato italiano è senza dubbio il successo più importante della sua carriera: “Portare in giro quella maglia, avere il tricolore sulle spalle, rappresentare l’Italia, essere applaudita e riconosciuta per questo è stato un onore.

Mi mancherà. All’inizio della mia carriera mi imbarazzavo quando qualcuno mi chiamava o mi applaudiva. Grazie a quella maglia ho imparato ad affrontare anche questa circostanza. Il nostro è uno sport che non ha molta visibilità: se qualcuno si interessa è perché lo ama profondamente. Noi abbiamo il dovere di ricambiare questo affetto mettendo tutta la nostra umanità all’interno di quel rapporto. Non sopporto gli atleti altezzosi con i tifosi”.

La prima riflessione non è stata qualcosa di statico, ma di dinamico: “E adesso cosa ci faccio con questa maglia? Si creano delle aspettative e si ha sempre il timore di deludere. Il timore che la gente possa pensare che la tua vittoria sia stata un caso“. Marta Cavalli quel timore ha imparato a fronteggiarlo proprio quando i pedali non giravano e le toccava risalire in ammiraglia ben prima del traguardo: “Giro della Norvegia. Due anni fa. Tappa di 140 chilometri. Dopo venti chilometri mi ero già staccata, dopo cento ero salita in ammiraglia. Mi ero ritirata. Quello è stato un momento chiave dove mi sono detta che non potevo continuare così. Non potevo andare in giro per il mondo e rimanere staccata dopo venti chilometri. Dovevo reagire e allenarmi duramente e mi ripetevo che prima o poi i risultati sarebbero arrivati“.

Quel “dovevo” è ostinazione pura, qualcosa che inizia a dar forma ai risultati ancora prima che si concretizzino, inizia a dar forma a quella olimpiade a cui sogna di partecipare o a quella vittoria davanti a van Vleuten e van der Breggen. Quel predicato verbale è la base per un futuro Giro delle Fiandre: “Ho i brividi ancora adesso. Quando pedali non senti nemmeno il tuo respiro tanto è il tifo della gente. Fisicamente sei al massimo ma è come se te lo dimenticassi”.

Piedi talmente a terra da dichiarare, forse, di non avere un vero e proprio idolo in gruppo: “Bisognerebbe provare a imparare da ogni ragazza nel gruppo: ci sono veramente tantissime ragazze che mettono una abnegazione incredibile in ciò che fanno anche senza raccogliere i risultati che meriterebbero. Credo anche loro siano un esempio”. In quell’esempio c’è anche l’insicurezza stradale fronteggiata ogni giorno: “Non c’è molto rispetto sulle nostre strade e anche allenarsi diventa un pericolo: io viaggio sempre con una grossa luce rossa per essere visibile”.

Ma occhi talmente verso il cielo da fare un invito a tutti i potenziali tifosi: “Il nostro è uno sport concepito come tipicamente maschile, per questo ha molti problemi di visibilità. Le persone non ci seguono, spesso, a priori. Io mi sento di dire questo: provate a seguirci. A vedere qualche gara. A molti, poi, sono piaciute di più le nostre gare, perché più vive, più combattute. Se non vi piacciono nulla di male ma almeno vi siete dati una possibilità. Almeno ci avete dato una possibilità”. Tra cielo e terra ma in perfetto equilibrio; l’equilibrio di Marta Cavalli.

Foto in evidenza: ©VALCAR CYLANCE

Stefano Zago

Stefano Zago

Redattore e inviato di http://www.direttaciclismo.it/