15 gennaio 2019 - 22:35

Nibali, Squalo più affamato che mai: «Dai dubbi è nato un Vincenzo nuovo»

«Da quel tifoso avrei voluto almeno le scuse. Sanremo e Lombardia hanno scacciato i brutti pensieri post Tour: ora vado più forte, farò Giro e Grande Boucle»

di Marco Bonarrigo

Squalo Vincenzo Nibali, 34 anni, professionista dal 2005, ha vinto due Giri d’Italia (’13 e ‘16), un Tour de France (’14) e una Vuelta (’10). Nibali ha conquistato anche due volte il Lombardia (’15 e ‘17) e, lo scorso anno, la Milano-Sanremo (Ap)
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Addio Liguria (da Coppi a Gimondi), ciao ciao Toscana (da Moser a Pantani). Oggi il paradiso invernale dei ciclisti professionisti è la Catalogna. Clima mite, alberghi a misura di atleta, strade perfette e rispetto assoluto di chi pedala hanno trasformato Costa Dorada e Costa Brava nel quartier generale dei grandi team. È sulle belle colline di Cambrils, a due passi dalle meraviglie di Tarragona, che parte il 2019 di Vincenzo Nibali e della sua Bahrain Merida. Lo Squalo vuole tutto (e di più): dalla Tirreno alla Liegi passando per la Sanremo, dal Giro al Tour per finire con il Lombardia.

Affamato, Vincenzo?
«Molto. La caduta al Tour mi aveva fatto venire brutti pensieri. I risultati del Mondiale e del Giro di Lombardia li hanno scacciati. Sono un Nibali nuovo».

Nuovo?
«Quando ti rompi una vertebra non sei più quello di prima. Cambiano equilibrio, posizione in sella, spinta sui pedali. Ho lavorato duro con ginnastica e osteopati e ora so di poter andare forte come prima. O di più».

19 luglio, Alpe d’Huez. Un tifoso maldestro,una cinghia della macchina fotografica che s’infila nel manubrio: il disastro.
«Nel ciclismo i momenti negativi ci stanno. Se è colpa tua, come quando ho sbagliato ai Giochi di Rio, lo accetti. Così invece è dura».

In autunno ha passato una giornata alla Gendarmerie francese per ricostruire l’episodio.
«Abbiamo visto video amatoriali da tutte le angolazioni. Il tifoso è perfettamente riconoscibile, ma non è stato identificato. Lo si vede chiaramente che sgattaiola via dopo la caduta. Non ce l’ho con lui, ma una lettera di scuse (anche anonima) l’avrei gradita».

Se non fosse caduto?
«E se io non fossi caduto a Rio?».

Ci si consola col suo scatto vincente alla Sanremo. Per tanti il gesto tecnico-tattico più bello dell’anno.
«Mi stupisce che tanti abbiano gridato al miracolo. Quello che ho scelto sul Poggio è l’unico punto in cui può scattare un non velocista. Ci avevo già provato nel 2012 con Gerrans e Cancellara, ma avevo perso in volata».

Lei è il solo vincitore di grandi giri competitivo anche nelle classiche di un giorno. Le manca la Liegi.
«Ci proverò anche quest’anno. Corsa meravigliosa ma devi essere al 100% e non sbagliare nulla».

Nel 2012 non sbagliò nulla, fu solo battuto (in contropiede) dall’uomo sbagliato: Maksim Iglinskiy, poco tempo dopo rivelatosi un dopato.
«All’epoca m’incazzai, ora penso positivo: Iglinskiy non c’è più e tanti come lui sono stati fatti fuori dall’antidoping. Questo è il ciclismo che mi piace».

Tra Mondiale e Olimpiade, potendo sceglierne una sola?
«Olimpiade. Resta tutta la vita e l’atmosfera è magica».

Quest’anno Giro e Tour. Ma non per la doppietta.
«Il Giro per vincerlo, perché lo amo, perché conquistare il terzo sarebbe fantastico. Per me, la corsa dell’anno. Poi il Tour, dando comunque il massimo».

Quelle rimonte impossibili che invece hanno fatto la storia: dalla Roma a Nibali e Senna
Roma, lezione di rimonta

Dumoulin e Froome nel 2018 hanno doppiato il podio.
«Grandi atleti ma condizioni difficili da ripetere. Quello che sappiamo è che al Giro bisognerà partire a tutta mentre al Tour l’inizio è in apparenza più semplice. La preparazione andrà calibrata al massimo».

Lei come hai cominciato?
«Cambiando. Dopo tanti anni ho fatto ferie lunghe: dovevo staccare. E, su consiglio di coach Paolo Slongo, ho trascorso 50 giornate in palestra. Tanto lavoro su addominali e dorsali e tanta «core stability» per avere più equilibrio senza ingrossare la massa muscolare. Niente debutto esotico in Argentina — dove pedalavamo a ritmi troppo bassi — prima corsa a tappe ad Abu Dhabi contro Froome cercando subito un buon ritmo.

Altre novità?
«Lavoro certosino sui materiali e sulle bici, grazie alla collaborazione con la McLaren. E attenzione alla cronosquadre che al Tour può essere decisiva. Con noi ora c’è Rohan Dennis, il miglior specialista al mondo: può essere il nostro propulsore. Al Giro e al Tour disporrò di compagni diversi per ciascuno degli appuntamenti: solo Damiano Caruso correrà entrambi».

Quest’anno è stato in Italia solo una settimana, a Messina, per le feste di Natale. Come vede la sua città e la sua regione dalla ricca Lugano?
«Stanche, come sempre. Se parliamo di bici, si fatica a pedalare in tutta l’isola e non solo per strade pericolose e mancanza di fondi. Il ciclismo regionale è stato azzerato: pensi che qualcuno organizzava corse-fantasma per speculare sui contributi economici. Bisogna ripartire. Io ci provo con una squadra di ragazzini che porta il mio nome».

Sicilia, terra di emigrati come lei. E rifugio temporaneo di migranti.
«Ho un cugino che lavora a Pozzallo, nella guardia costiera. I suoi racconti degli sbarchi mi colpiscono sempre, rappresentano realtà complesse, difficili da giudicare. Noi italiani da soli non possiamo farcela. Senza l’aiuto di tutta l’Europa non ci può essere accoglienza degna di questo nome».

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