Ci sono corridori che si mettono al servizio della propria squadra, pronti ad entrare in azione nei momenti di difficoltà o di bisogno dei propri capitani, corridori che macinano chilometri su chilometri in testa al gruppo per farne il ritmo allo scopo di andare a riprendere la fuga di giornata o per scandirne la velocità oppure per lanciare il proprio velocista. Tra questi c’è un generoso Cesare Benedetti, professionista dal 2010, proveniente dalla Val di Gresta (TN), che è passato dall’incertezza del futuro come corridore fino quasi a una chiusura anticipata della carriera, all’inaspettata riconferma nel circuito world tour con il team Bora Hangrohe.
Le prossime due stagioni (2019-2020) ti vedremo ancora con la maglia nero-verde della Bora Hansgrohe. Dopo un periodo un po’ difficile in cui non sapevi se venivi riconfermato dal team hai ottenuto grazie alla tua professionalità, impegno e generosità la piena fiducia del management Bora…
“Il periodo un po’ difficile, in termini di contratto, è ormai storia di tre anni fa, stagione 2015. A quel tempo un filo di speranza c’era sempre ma ad un certo punto ho sinceramente pensato che la mia carriera si chiudesse li. Ho interpretato il finale di stagione come se ogni corsa fosse l’ultima, cercando di divertirmi fino in fondo, ed è arrivata l’insapettata riconferma. Inaspettata perchè il nostro team manager solitamente quando dice una cosa (bella o brutta che sia) è quella. Penso sia stata la prima e unica volta che l’ho visto ritornare sui suoi passi e modificare una decisione da lui già presa. Ad ogni modo nelle tre stagioni successive penso di avere svolto un discreto lavoro per i miei compagni e sono riuscito in qualche piccola occasione anche a farmi vedere davanti. Sono contento della fiducia accordatami dalla squadra e lo sono ancora di più quando sono i miei compagni a riconoscerla”.
Quanto ci impiega un team professionistico a lasciare a piedi un corridore?
“Io penso di essere stato fortunato con la scelta delle squadre, dal lontano 1999 quando ho cominciato a correre, passando per tutte le categorie fino agli U23 e i professionisti. Mi sono sempre trovato come “in famiglia” ma dal 2015 ho capito che non lo è (nonostante continui ad avere un bel rapporto con tutti in squadra). Ci sono tanti motivi per cui una squadra possa lasciare a piedi un corridore. Ad esempio nel ciclismo non ci sono tutti quegli sponsor che c’erano fino a qualche anno fa quindi ogni sponsor in squadra è benvenuto. Ovviamente bisogna andare incontro allo sponsor che magari ha interessi in una nazione piuttosto che in un’altra e allora preferisce dei corridori rispetto ad altri. Oppure può essere la squadra che con la sua politica decida ad esempio di puntare sulla crescita dei giovani di una determinata nazione piuttosto che di un’altra. Ad ogni modo non ho visto tantissimi corridori che meritavano rimanere a piedi. Ho visto però corridori con potenziale rimanere a casa perchè avevano un carattere difficile da gestire e creavano problemi in squadra. Ma sono solo idee che mi sono fatto io, non le vere dinamiche di questo campo, quelle le conoscerò se un giorno sarò dall’altra parte”.
Fai trasparire sicurezza nel tuo modo di essere, sei realmente così?
“Purtroppo le apparenze ingannano, la sicurezza non abita a casa mia”.
Ti vediamo spesso impegnato davanti al gruppo a fare l’andatura, il tuo compito di gregario lo svolgi alla perfezione, qual’è stata finora la corsa più dura da controllare?
“Quelli che lo svolgono alla perfezione sono altri, non di certo io. Faccio quello che posso. Mi vengono in mente molti momenti difficili ma forse la corsa più dura da controllare è stata la tappa di Fermo della Tirreno Adriatico 2017 che poi Sagan ha coronato con un numero lasciandosi alle spalle uomini che in salita non erano di certo fermi. Sia per come il gruppo ha interpretato quella tappa, sia per la durezza del percorso, è stata una giornata tiratissima. La vittoria di Peter rimane un bellissimo ricordo”.
Corridore al servizio della squadra ma anche uomo di classifica come è successo al Giro di Slovacchia di quest’anno dove hai centrato il podio…
“In Slovacchia correvamo per Felix Großschartner ma nella tappa più dura è andato in difficoltà, soprattutto perchè era arrivato a quella corsa direttamente dalle gare in Canada, dopo un lungo viaggio e con poche ore di sonno. Mi è stata data quindi la possibilità di rimanere davanti e ho colto l’occasione per un piazzamento nei dieci. Nelle tappe successive ho poi migliorato la posizione in classifica grazie ad un arrivo in volata insidioso (vinto dal mio compagno Selig) dove nel finale il gruppo si è rotto e io ho tagliato il traguardo in quarta posizione. Ho quindi chiuso la corsa al terzo posto. Ovviamente il giro di Slovacchia è una corsa minore, però mi sono divertito a trovarmi davanti e per uno sponsor come Bora per questo Stato rappresenta un mercato importante. Finire davanti è stata una cosa positiva”.
Hai recentemente postato sul tuo profilo Instagram una tua foto sul muro di Sormano, affrontato durante il Giro di Lombardia del 2015 scrivendo” quando che in salita ancora qualcosina andavo, adesso gnanca a butoni …” che significa nemmeno a spinte, però per quello che abbiamo visto quest’anno sembri essere un corridore su cui fare affidamento anche sulle salite…
“Se devo essere sincero negli ultimi due anni non sono stato molto contento delle mie prestazioni in salita. Assieme al grosso cambiamento avvenuto in seno alla squadra, è cambiato molto anche il mio modo di affrontare le gare, ho molta meno libertà di andare in gara e sono molte di più le occasioni in cui mi avete visto tirare in testa al gruppo. Faccio un esempio, se al Giro ci sono due tappe piatte e noi abbiamo il velocista che può vincerle (vedi Bennett) e sto davanti a tirare 350km in due giorni, è dura poi quando al terzo giorno c’è una tappa dolomitica. Non si riesce ad avere la gamba dei migliori e nemmeno degli altri che nei due giorni precedenti sono stati tutto il giorno a ruota a recuperare. Questo fatto mi è un po’ dispiaciuto, per me ma anche per i nostri leader di classifica, mi sarebbe sicuramente piaciuto arrivare più lontano nelle tappe in salita per supportarli al meglio. C’è da dire anche che quando mi avete visto davanti sul Sormano al Lombardia 2015 venivo da 6 mesi di dieta senza glutine per provare a risolvere un problema al fegato (che poi non dipendeva affatto dal glutine) ed ero 3kg in meno di adesso. Può non sembrare molto ma in salita si sentono”.
A proposito di muri, lo Zoncolan può essere veramente considerata la salita più dura d’Europa?
“Ho scalato lo Zoncolan una sola volta durante l’ultimo Giro ed è stata sicuramente la salita più dura che abbia incontrato al Giro d’Italia. Però mi sembra di ricordare molta più sofferenza affrontando Punta Veleno nel 2012. Non so neanche se si può considerare una strada, quando inseriscono nelle gare quel tipo di salite io le chiamo sempre “sentieri asfaltati”.
E’ azzardato dire che il ciclismo, almeno in alcune circostanze, è uno sport estremo?
“Penso che non sia azzardato. Potremmo considerare due fattori, la variabilità delle condizioni ambientali e climatiche in cui alle volte viene praticato e i momenti in cui si rischia la vita. Non ho nessun dato alla mano ma penso proprio che muoiano più persone andando in bici rispetto magari ad uno sport estremo come il base jumping o buttarsi da un aereo a 4000m di altezza. In proporzione in quel mondo gli incidenti sono inferiori in numero. Alla fine scendere in discesa a 90 all’ora in gara è sempre più sicuro che girare in mezzo al traffico in allenamento”.
Lo scorso inverno hai incontrato Jan Ullrich, che uomo hai trovato, come sta e cosa vi siete detti?
“L’ho incontrato su un volo da Palma di Mallorca per la Germania. Avevo sentito delle voci in quel periodo che non se la passasse bene ma non ho visto quell’uomo distrutto che si è visto poi in estate, mi sembrava abbastanza in forma. In realtà non ci siamo detti niente, gli ho solo espresso la mia ammirazione e gli ho chiesto di poter fare una foto insieme. Io rimango un grande tifoso del ciclismo dei suoi tempi, il ciclismo che ho guardato crescendo. Ancora oggi mi emoziona di più guardare un video di una corsa degli anni novanta rispetto magari ad una gara che corro io in prima persona. Per Jan mi dispiace molto, rispetto lui e sto vicino col pensiero a tutti quelli cho ogni giorno devono combattere con la propria forza di volontà e con l’ambiente circostante per colpa di qualche tipo di dipendenza. Il mondo moderno fa abbastanza schifo, se non hai un animo abbastanza forte e cinico, finisci per morire schiacciato sotto a qualche peso invisibile”.
Cosa stai progettando a Gliwice? Ti trasferirai lì in futuro con un nuovo progetto lavorativo?
“Una domanda sul mio futuro è la classica domanda da un milione di dollari. Per ora cerco di pensare solo ad andare in bici e faccio fatica a fare anche quello. Mi piacerebbe che mia figlia frequentasse la scuola in Polonia perchè la ritengo un ambiente migliore rispetto al nostro, un ambiente al passo coi tempi in cui però sono rimasti la rigidità, il rispetto e la tradizione che da noi sono scomparsi. Questo vorrebbe dire allontanarla dalle mie montagne e per questo sono abbastanza combattuto. Per me personalmente e per quello che ho visto fino ad ora penso che mi si potrebbero aprire molte più porte là, dove ho molto più seguito rispetto che a casa mia. A livello sportivo forse potrei inventarmi qualcosa di più in Polonia rispetto che sul mio territorio; nel Trentino-Südtirol nel turismo sportivo c’è una fortissima concorrenza, tantissime persone si guadagnano da vivere con quello, sarebbe difficile quindi trovare spazio. Ad ogni modo non so bene quello che vorrò fare, si farà quello che si trova visto che non ho nessun titolo di studio preciso, ho solo un diploma di liceo scientifico che mi ha insegnato tutto e niente. Ogni tanto penso che sarebbe bello rimanere nell’ambiente del ciclismo e altre volte però vorrei cominciare a fare qualcosa di utile, non mi dispiacerebbe fare lo stradino in qualche valle qua in Trentino”.
In questo periodo ti alleni anche in mtb, hai partecipato anche a delle gare in mtb, che cosa rende più speciale la bicicletta da corsa e la strada rispetto alla mtb?
“Le uscite in MTB sono abbastanza rare, ma finalmente sono riuscito a procurarmene una quindi punto ad allenarmi un po’ di più con questo mezzo in inverno, soprattutto quando devo svolgere un lavoro di fondo piuttosto che lavori speficici. Quando si percorrono certe rampe in MTB, che siano sentieri o strade cementate, la frequenza cardiaca fa presto a salire anche perchè si lavora di più anche con la parte superiore del corpo rispetto alla strada. Si ottiene quindi un esercizio molto allenante senza dovere concentrarsi come quando si fanno ripetute su strada. Ho partecipato ad una solo gara in MTB nella mia vita e correva l’anno 2000, niente di serio.
Non so se ci sia qualcosa che renda la bici da corsa migliore, la MTB offre diversi vantaggi, uno su tutti quello di stare lontano dal traffico. Penso sia tutto molto relativo, dipende dai gusti. Guardando le gare penso che sia più speciale la strada per via delle dinamiche di corsa, gli scatti, gli attacchi e le volate. Le gara in MTB rischiano forse ogni tanto di trasformarsi in gare individuali, anche se ora ci sono diverse specialità del cross country in circuito molto esaltanti. Sono stato ospite alla prova di Coppa del Mondo in Val di Sole in luglio e mi sono sorprendentemente divertito molto”.
Propositi per la prossima stagione?
“Mi piacerebbe riconfermarmi sui livelli di quest’anno. La stagione 2018 è stata soddifacente perchè oltre ad essermi fatto trovare pronto quando dovevo, i nostri capitani hanno spesso finalizzato il lavoro e ci hanno regalato diverse vittorie. Il 2019 comincerà come l’anno passato alla Mallorca Challenge, quindi Murcia, Almeria e Algarve. Poi avanti fino a Paesi Baschi e Ardenne. A differenza dell’anno scorso dovrei arrivare al Giro con qualche corsa in meno, chissà che con un po’ più di freschezza non salti fuori qualche buona prestazione alla corsa rosa”.
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