Damiano Cunego in Maglia Rosa al Giro d’Italia 2004. Bettini

Damiano Cunego in Maglia Rosa al Giro d’Italia 2004. Bettini

Due settimane fa, l’ultima corsa del “Piccolo Principe”. Damiano Cunego si toglie il dorsale e appende definitivamente la bicicletta al chiodo. Il traguardo finale della sua carriera è il Criterium della Japan Cup. Quindici tornate lungo il circuito di Utsunomiya prima di chiudere definitivamente con il mondo delle corse. Eppure, non c’è traccia di tristezza nella voce dell’ormai ex corridore della Nippo-Vini Fantini: “Non è stato un addio improvviso. Si sapeva da tempo. E poi mentalmente avevo concluso con il campionato italiano a giugno”.
Damiano, come ha vissuto gli ultimi chilometri della sua carriera?
“In maniera tranquilla. In fondo, la gara non è stata complicata. Io ero rilassato e poi, trattandosi di una gara non complicata, non ho dovuto esagerare. In fin dei conti, non essendo allenato, sono rimasto in mezzo al gruppo. È stato bello salutare i tanti fan”.
Qual è il bilancio dell’ultimo anno di corse?
“Ho disputato gli ultimi mesi con la giusta consapevolezza. Purtroppo, non ho gareggiato per vincere, ma mi sono preparato bene dal punto di vista atletico. Nel complesso è andato tutto secondo le aspettative”.
E il suo giudizio sulla carriera?
“Sono soddisfatto. Ogni volta in cui si parla di vittorie, la gente ricorda il Giro d’Italia o i tre Lombardia. Eppure, per me, tutti i successi hanno avuto un valore speciale, anche i centri nelle competizioni World Tour. Ad esempio, tengo molto ai miei tre Giri del Trentino. Ogni vittoria è unica, difficile sceglierne una particolare. E poi molti acuti sono stati inaspettati e per questo motivo assumono un sapore particolare”.
Oltre ai tanti successi, nessun rimpianto?
“Effettivamente uno ce n’è… Ma non direi tanto il Mondiale di Varese nel 2008, quanto piuttosto il secondo posto nella tappa dell’Alpe d’Huez nel 2006. Purtroppo non sono riuscito a tenere le ruote di Frank Schleck. Ed è un rimpianto che aumenta quando, nel mondo, mi chiedono se ho mai vinto una frazione della Grande Boucle…”.
Ha avuto occasione di rifarsi nei confronti di Schleck, battendolo al Lombardia 2007 e all’Amstel Gold Race 2008. Non male.
Damiano ride: “Beh dovremmo chiedere a lui se intende fare cambio… A ogni modo, quella delusione è stata compensata da altre vittorie e credo che lo stesso valga per Frank”.
In diciassette stagioni di professionismo, ha assistito ai cambiamenti del mondo del ciclismo.
“Ho iniziato con un certo tipo di ciclismo. Ora il livello è altissimo per la crescita di tante componenti, dalla preparazione atletica alla scelta dei materiali. È incredibile come ogni dettaglio possa fare la differenza e dare un vantaggio. Per me è stato sempre più difficile adattarmi a tutti questi cambiamenti. Inoltre, nel ciclismo attuale, basta una stagione difficile, con un eccessivo accumulo di stress o fatica, per perdere molto in termini di competitività e prestazioni. Un’esasperazione dettata proprio dal continuo innalzamento del livello. Poi, con il passare degli anni, si risente maggiormente. Per un giovane, è molto più semplice adattarsi ai tanti cambiamenti. Certo, poi bisogna sapersi gestire e capire come reinventarsi. Ci si può ritagliare un ruolo secondario o pensare gradualmente di lasciare”.
Non è eccessivamente esasperante?
“Sì, per certi aspetti mette a disagio tutta questa maniacale ricerca della perfezione, perché appunto basta poco per rimanere indietro”.
Peter Sagan ha definito il ciclismo noioso da vedere in televisione. Lei è d’accordo con lui?
“Sì, mi trovo d’accordo con Peter. Mi spiego meglio: da spettatore, vedere una squadra dominante che si mette davanti e tiene un ritmo esasperato azzera le emozioni. Nessuno riesce ad avere fantasia, non succede niente. Dall’esterno può risultare noioso, ma da corridore posso dire che è veramente difficile fare di più: con un’andatura così elevata si è sempre costretti a rimanere davanti, per evitare di farsi sorprendere al primo restringimento della carreggiata o di farsi staccare rimanendo nel fondo del gruppo alla prima accelerazione. E per rimanere davanti serve una super squadra attrezzata per questo tipo di lavoro”.
Quindi cosa si potrebbe fare per migliorare la situazione?
“Difficile rispondere. Si pensava che togliere un corridore a ogni formazione nei Grandi Giri potesse risolvere il problema, ma lo spettacolo non è migliorato. Pensando alle diversità tra le varie formazioni, si potrebbe limitare il numero di squadre ad ogni evento, ma sarebbe ingiusto perché priverebbe alcuni team della possibilità di gareggiare e farsi notare. Il vero problema resta lo squilibrio tra i top team e gli altri, ma questa è una questione riguardante anche gli altri sport”.
Lei è stato un corridore atipico per via del debutto dirompente, pensando all’esplosione al Giro d’Italia 2004 a nemmeno 23 anni. C’è qualcuno tra i ciclisti attuali che potrebbe imitarla nelle prossime stagioni?
“Al momento non ne vedo uno in particolare. Ma credo sia un elemento individuale. Ognuno ha una propria storia. Ci sono corridori che emergono subito, come me o Saronni. Altri, invece, tendono ad esplodere più tardi e ad avere una certa longevità. Ovviamente dipende da ciclista a ciclista, non c’è un criterio preciso”.
E cosa farà Damiano Cunego da grande?
“Utilizzerò ancora la bicicletta, l’attrezzo che mi ha fatto conoscere al mondo. Ora sto preparando al meglio un progetto interessante: mettere la mia esperienza al servizio di chi vorrà allenarsi con me. C’è l’idea di avviare questa esperienza con l’apertura di una palestra a Lugano, il luogo in cui ci sono state le condizioni per dar vita ad un’iniziativa simile. Lì potrò spiegare a chi lo vorrà metodi per allenarsi correttamente. E poi ci tengo a rimanere in forma per non mancare ad eventi in Giappone e negli Stati Uniti dove ho tanti fan”.