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Wellens e la via dell'onestà: "Il mio no ai farmaci dei furbi"

Al Lombardia il belga che lasciò il Tour per non prendere medicinali: "Se il mio corpo si è ribellato, vuol dire che ero andato al di là di quanto avrebbe potuto sopportare. Non ho fatto l'eroe, non avrebbe avuto senso"

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"TIM Wellens", ha detto alla vigilia del Mondiale di Bergen Tom Boonen, "è uno dei pochi "merckxiani" del gruppo". Per mentalità, per spirito: è uno dei pochi capaci di attaccare senza remore, senza voltarsi mai, senza pensare alle conseguenze. Così, se sarà in giornata e magari se dovesse piovere (i corridori merckxiani con la pioggia si esaltano), la sagoma di Tim Wellens potrebbe spuntare sabato sul Muro di Sormano, una sagoma lunga e smilza, e poi giù dal Civiglio e dal San Fermo verso Como, verso il traguardo del Lombardia.

Però Tim Wellens, nato il 10 maggio 1991 a Sint-Truiden, Limburgo belga, sulla linea di confine tra Fiandre e Vallonia, vincitore di tappa al Giro, ad Aremogna nel 2016, e di altre 13 corse, è diventato un personaggio e anche un simbolo durante l'ultimo Tour de France, lo scorso 16 luglio. Si era a 40 km da Laissac, a 150 km dall'arrivo di Le Puy-en-Velay. "Il giorno prima arrivo quasi stramazzando sul traguardo di Rodez, ultimo, a mezz'ora dal primo, a un quarto d'ora dal grosso del gruppo. Stavo malissimo, febbre, brividi, mal di gola, dolori muscolari. E un caldo bestiale".

Decide comunque di partire.
"Al foglio firma ho sentito sensazioni buone, mi sono detto "dai Tim, Parigi è vicina, non puoi mollare"".

Non va, però.
"Mi fermo, non andavo più".

All'arrivo, il medico della Lotto Soudal, Servaas Bingé, racconta: Wellens ha rifiutato di assumere farmaci. Poteva farlo, non ha voluto.
"È così. Ho deciso di dare corso alla natura, ho lasciato decidere a lei. Se il mio corpo si è ribellato, vuol dire che ero andato al di là di quanto avrebbe potuto sopportare. Non ho fatto l'eroe, non avrebbe avuto senso, e non ho fatto il furbo".

Le TUE, le autorizzazioni mediche all'assunzione di farmaci con principi attivi dopanti sono una furbata, secondo lei?
"C'è una zona grigia posta tra la linea della necessità e quella della furbizia dentro la quale operano alcuni corridori e alcuni medici, ed è difficile a volte stabilire quale debba essere il limite, è una questione soggettiva, di momenti della tua carriera e di una corsa. Sono onesto, se fossi stato in corsa per la maglia gialla forse, ma non ne sono sicuro, mi sarei comportato diversamente, ma anche arrivare a Parigi è un obiettivo per corridori come me e non arrivarci è un danno. Ho affrontato le conseguenze della mia decisione".

Qual è la morale?
"Non esiste un codice di condotta, non esiste una morale univoca, ognuno risponde del suo corpo e della sua coscienza. A molti il mio gesto è piaciuto. Io sono attaccato fortemente ai miei principi, altri hanno un altro modo di vedere le cose e non c'è una soluzione semplice. Io continuo a correre perché mi piace, perché è una cosa che ho ereditato dalla mia famiglia. Sa che la famiglia Wellens detiene un record?".

Quale?
"Mio padre e i miei due zii sono stati professionisti e hanno corso insieme il Tour 1981: non era mai successa nella storia del ciclismo una cosa così".

Cosa le piace del ciclismo?
"Non è un lavoro dalle 9 alle 17, ti porta in giro per il mondo. Non è semplice, soprattutto quando c'è cattivo tempo, ma è appagante. Corro dall'età di 10 anni, è stata durissima arrivare a buoni livelli. Sono stato perseverante e questo è tutto".

E le piace l'aggettivo "merckxiano"?
"Il fatto che me l'abbia dato Tom Boonen è un onore, ho sempre avuto il suo poster in camera ".

Ha un mito ciclistico?
"Da ragazzo impazzivo per il povero Franck Vandenbroucke. Oggi ammiro Sagan, Van Avermaet, Gilbert. Ma sono miei avversari e corro con l'ambizione di batterli. Alla maniera di Merckx, perché no".
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