FELLINE. «ORA MI ALLENO A VINCERE»

PROFESSIONISTI | 30/03/2017 | 07:10
Fabio Felline ha iniziato il 2017 assaporando il dolce gusto del trionfo sulle strade della Riviera di Ponente con addosso la maglia della Nazionale italiana. Il ventiseienne torinese della Trek Segafredo ha infilato tutti gli avversari e con una bellissima cavalcata solitaria ha messo la sua firma sulla 54a edizione del Trofeo Laigueglia, la corsa ligure che vanta un albo d’oro di assoluto prestigio.
Non vinceva dal settembre 2015 (Gp Fourmies, Francia), e dopo il grave incidente di un anno fa che sembrava avergli compromesso l’intera carriera, nella classica d’inizio stagione ha finalmente ritrovato il sorriso. Primo passo per la ricerca dell’equilibrio perfetto a cui punta come atleta e uomo.

Non poteva iniziare meglio il tuo 2017...
«È proprio così. In vita mia non mi era mai capitato neanche da giovanissimo di vincere la prima corsa stagionale. È stata un’emozione molto forte quella che ho provato sotto lo striscione dell’arrivo. È dall’anno scorso che inseguivo questa vittoria e nonostante avessi disputato un ottimo finale di stagione (con tanto di maglia verde alla Vuelta a España, ndr), mi è sempre sfuggita di mano. Avevo deciso di provare nelle battute conclusive e così ho fatto. Si andava a un ritmo pazzesco, ma non ho avuto paura di attaccare sulla salita di Colla Micheri. Da lì in avanti ho stretto i denti e mi sono difeso bene dal ritorno degli inseguitori. Mi sono dosato nei 13 chilometri che mi dividevano dal traguardo, in pianura ho tenuto bene e in discesa ho aperto il gas sfruttando le mie doti. È stata una vittoria molto bel­la, cercata per come ho lavorato in questo ultimo periodo, inaspettata perché alla prima gara non sai mai come girano le gambe e quindi non sai se sei in grado di centrare il successo. Il tutto è stato ancora più speciale perché indossavo la maglia azzurra e perché a Lai­gueglia erano presenti tutte le persone che avrei voluto lì con me, a partire dai miei genitori, papà Maurizio e mamma Cinzia, separati da anni ma uniti per me. Non mi avevano mai visto vincere dal vivo... Mancavano solo le nonne, ma non si sono perse la sintesi della corsa in tv e neppure un articolo sui giornali del giorno dopo».

Nei primi anni nella massima categoria hai raccontato che sbagliavi tutto. In che senso?
«Non facevo il corridore al 100%, non perché me ne fregassi del mio lavoro ma semplicemente perché non ero pronto. Sono passato a 19 anni, con gente che mi considerava un predestinato a cui sarebbe venuto tutto facile. Mi è mancata la fase di crescita da ragazzino ad atleta, sono subito stato buttato tra gli uomini e mi è servito del tempo per maturare, mi sono venuti mille dubbi. Mi allenavo pochissimo, meno di un dilettante, quando pedalavo per cinque ore era un giorno da segnare sul calendario. Non sapevo cosa fosse il dislivello, prima di vestire la maglia dell’Androni non avevo mai usato il contachilometri, non avevo me­todo. Se mi dicevano che dovevo fare 4 ore, io guardavo l’orologio: partivo alle 10 da casa e tornavo alle 14. Nel 2012 al mio primo Giro d’Italia ho stupito tutti andando forte nella terza settimana. A 22 anni dovresti morire sulla bici per la fatica che comporta un Grande Giro, invece io in quelle tre settimane ho dato stimoli nuovi al mio corpo. Nei primi anni mi allenavo in corsa, a casa non sapevo farlo. Ricordo benissimo le parole di Fabrizio Tacchino, preparatore della mia squadra di allora, che non riusciva ad allenarmi perché ero una testa di ca**o, scrivilo pure perché è vero. Mi disse “se continui ad essere così naif, nel ciclismo non andrai da nessuna parte”. All’epoca me la presi per questa sua tirata di orecchie, ora capisco che aveva ragione».

Dall’anno scorso hai cambiato metodo di preparazione?
«Ogni stagione bisogna andare più for­te, sacrificarsi un po’ di più per migliorare, da tre anni a questa parte l’ho ca­pito e mi è cambiata la vita. Il peso che mi indica la bilancia ora, una volta lo raggiungevo ad aprile. Non avevo mai provato l’altura a gennaio e quest’anno sono stato 23 giorni in quota sul Teide alle Canarie. Se due anni fa me l’avessero proposto avrei detto di no, stare così tanto in un posto tra i lupi, in cui non c’è nulla a parte rocce e vento, nemmeno una nuvola, non pensavo potesse fare per me, invece evidentemente dà i suoi frutti. Da quando ho iniziato a correre a 11 anni non avevo mai vinto la prima corsa stagionale, in questo periodo di solito faccio una fatica boia. Il Trofeo Laigueglia è stata una gara durissima, anche per la pioggia. L’ho sempre sognata così ed è ve­nuta come meglio non potevo immaginare. Alla Ruta del Sol ho dimostrato ulteriormente di aver lavorato bene in inverno».

E ora dove sei diretto?
«Ho tante corse nel mirino, spero di essere all’altezza per riuscire a cogliere altre vittorie. A tutte quelle che andrò a disputare dove avrò il ruolo di capitano o di battitore libero cercherò di cogliere l’occasione, anche al Giro delle Fiandre, all'Amstel Gold Race e alla Liegi-Bastogne-Liegi. Finirò la prima parte di stagione con il Giro della Romandia a tappe in Sviz­zera poi mi concederò un po’ di meritate vacanze».

Tra tutte quale Classica preferisci?

«Diciamo che l’Amstel Gold Race è diventata una gara particolare per me, ci terrei molto a far bene, vedremo... Un anno fa caddi nel tratto di trasferimento procurandomi la frattura della base cranica e del setto nasale. Quel maledetto 17 aprile stavo controllando la corretta chiusura della ruota anteriore e ancora non riesco a spiegarmi come la mia mano possa essere finita tra i raggi. Poi, tanto sangue sull’asfalto, dolore, spavento e immediata corsa all’ospedale per le radiografie. Sui social network si sono succedute le voci più allarmistiche sul­le mie reali condizioni. Qualcuno ha parlato addirittura di carriera a rischio e francamente è un’ipotesi che non ho mai voluto neanche prendere in considerazione. Dopo quella terribile caduta vedo tutto sotto una luce diversa, quell’incidente mi ha cambiato, oggi sono più sereno, tranquillo, maturo e senza smania del risultato. Corro con il piacere di far­lo, non mi pesa allenarmi e riesco ad esprimermi al meglio. L’Amstel mi ha segnato sotto tanti punti di vista, tornarci ha un significato particolare».

Cosa ti ha colpito dei nuovi capitani Contador e Degenkolb?
«La Trek Segafredo ha presentato fin dai primi training camp un gruppo forte e affiatato, i primi risultati dell’anno lo dimostrano. John è senza dubbio un bravo ragazzo ma non posso giudicarlo come compagno perché non ci ho ancora mai corso insieme mentre con Alberto mi ci sono allenato più a stretto contratto in ottica Tour de France. Al Teide c’era anche lui e nella tranquillità di un ritiro lontano dalle gare ho avuto modo di conoscerlo bene, è davanti a un caffè in un bar o facendo una passeggiata all’aria aperta che capisci davvero una persona. È un vero campione, un professionista in ogni particolare e altruista nel dispensare consigli, dal rapporto da utilizzare in salita alla posizione più aerodinamica da adottare, passando per i semplici suggerimenti che possono fare la differenza nella vita quotidiana. Da lui imparo qualcosa ogni giorno. Mi pia­ce lo spirito con cui fa le cose. Con lui si lavora e si molla, ti fa vedere il momento in cui massacrarti di fatica in bicicletta e quello in cui ci si può rilassare. Ci siamo trovati subito».

Tornerai al Tour de France dopo la breve esperienza del 2010 da neoprofessionista in maglia Footon Servetto. Cosa ti aspetti?
«Che sia molto diverso dalla mia prima volta, che mi fece un male ca­ne. Come all’Amstel, per altre ragioni, è una corsa a cui vado con l’idea di sfidare me stesso. Ricordo come ho sofferto in quegli otto giorni (si ritirò prima della 9a tappa, ndr) così come il dolore provato dopo la caduta di un anno fa. Non sono bei ricordi, ma spero di tramutarli in esperienze piacevoli e cancellare così i fantasmi del passato. Il Fabio atleta di oggi è diverso da tre anni fa perché è cresciuto tantissimo. Ho sofferto tanto ad emergere. La gente si sarà chiesta perché e per come non andassi come speravano, ma il ciclismo non è matematica. Tornassi indietro non so se affronterei il grande salto nella massima categoria così giovane, non lo farei se avessi la garanzia di passare più in là ma chi ce l’ha oggi giorno? Quando ti offrono un’occasione la cogli al volo, anche se non hai ancora 20 anni. Altri ragazzi sono riusciti ad ottenere tutto subito, io sto crescendo gradualmente anno dopo anno e non mi pento di nulla».

Cosa chiedi al tuo 2017?
«Mi piacerebbe crescere ancora di più e diventare sempre più completo. Nelle categorie minori tanti mi dicevano che correvo solo perché vincevo, a furia di sentirmelo ripetere quasi iniziavo a crederci anche io, invece quando ho dovuto affrontare le prime difficoltà ho capito che non erano solo i risultati a mandarmi avanti, ma l’amore per la bici, per me una vera valvola di sfogo. Ho mosso le prime pedalate a 3 anni, a 10 anni papà e nonno Donato mi hanno iscritto al Pedale Rostese, da quando ho inforcato quella piccola Boeris rossa fornita dalla squadra, a cui è seguita a 12 anni una Olmo gialla e nera, la prima veramente mia, il ciclismo è parte integrante della mia vita. Sogno di diventare un corridore alla Valverde, consapevole che a oggi tra me e lui c’è un abisso, vorrei raggiungere un alto livello sia nelle corse di un giorno che in quelle a tappe. Vorrei im­pormi come un uomo pericoloso per le classiche e che può nutrire ambizioni importanti anche nelle corse di più giorni. La Ciclismo Cup? Non è un mio obiettivo, o meglio, dipenderà da quante corse disputerò in Italia. Non dovrebbero essere molte».

La tua colonna sonora in questo periodo?
«Il mio amico Moreno Moser (si conoscono dalle categorie inferiori e attualmente vivono entrambi a Montecarlo, ndr) mi ha regalato l’abbonamento a Spotify Premium perché diceva che ero scandaloso con la tecnologia, in ef­fetti non sono bravo a scaricare la musica. Sto ascoltando alcuni best di cui non ci si può mai stancare come gli album dei Depeche Mode e degli U2. Ogni tot esce un pezzo ritmato che fa sognare e mi dà la giusta carica prima di montare in sella. Ri­spet­to agli ul­timi tre anni in cui ero fidanzato e convivevo, ora ho più tempo li­bero e la musica mi fa compagnia, se una volta mentre preparavo la valigia chiacchieravo con la mia ragazza ora mi rilasso ascoltando belle canzoni. E quando non ho voglia di stare in ca­sa esco con gli amici».

Alla fine della stagione sarai felice se...?
«Se mi sentirò realizzato in tutti gli aspetti della vita. Il mio sogno è poter dire che sono contento come atleta e sereno come uomo. Sarà banale come dire che i soldi non comprano la felicità, ma ciò che più mi interessa è trovare l’equilibro perfetto. Mi sento sulla strada buona, di certo ho iniziato con il piede giusto».

Giulia De Maio, da tuttoBICI di marzo
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COMMENTI
Ragazzo, professionista onesto e serio
30 marzo 2017 20:12 FrancoPersico
Fabio sei un ragazzo, anzi un professionista davvero onesto ed (adesso) molto professionale. Vero da ragazzo eri un "biricchino" ma è giusto così.... un po' come il tuo amico, altrettanto "biricchino", Mattia Pozzo. Tu ed il biellese vi siete "scontrati" sulla fettuccia di arrivo per anni, corso insieme e poi destini diversi. Ma siete ancora ottimi amici. Questo è anche il bello del ciclismo.
Bravo! Bravi! In bocca al lupo per tutto.
Franco Persico (IM)

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