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La frontiera di Merckx: "Europa, svegliati, non essere schizzinosa col nuovo ciclismo"

A Doha domani la prova su strada, l'ex ciclista: "Il caldo c'era pure quando vinsi a Montreal nel '74"

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DOHA - HA gli occhi rossi, "il sole, ho preso troppo sole". Aveva gli occhi rossi anche quella volta a Savona, però l'immagine era in bianco e nero e non si vedeva, e lì piangeva. Scende dall'auto della giuria. Lo portano all'ennesima premiazione. Poi arriva, vuole una sedia? No no, facciamo così. Stanco, troppo caldo, vorrebbe essere sulla luna per non stringere altre mani, ma Eddy Merckx non può essere stanco, ne ha perso il diritto anni fa, facendo mulinare queste gambe, che ora lo sorreggono dentro la sera, in un'aria acre, su una strada vuota. C'era, la prima volta che il Mondiale lasciava l'Europa. Accadde a Montreal, nel 1974, caldo bestiale, vinse. Su Doha c'è la sua mano, il ciclismo qui l'ha portato lui, nel 2002, con la prima edizione del Tour del Qatar, e l'ha riportato lui, salvando il Mondiale, così dice.

Da cosa l'ha salvato?
"Questo era un Mondiale complicato da organizzare. Soprattutto perché capita nell'anno olimpico e nessun'altra località s'era fatta avanti con l'Uci, prevedendo la mancanza di corridori di qualità, temendo un'edizione in tono minore".

Per questo avete puntato sui velocisti.
"Un Mondiale non troppo impegnativo, io dico così, che poi possa vincerlo un velocista non è scontato, e comunque va bene. Visto chi ci sarà, direi che non sarà un Mondiale in tono minore, anzi. Qui poi è bellissimo".

Sarà tutto così il ciclismo tra dieci anni?
"Non ho una visione, magari sono troppo vecchio. So però che dobbiamo smettere di essere così schizzinosi, noi europei, se il mondo del ciclismo si allarga è una cosa bella, vuol dire che stiamo lavorando bene, che la bici piace, che una volta i Mondiali se li giocavano italiani, belgi e francesi e ora è dal 2008 che vince ogni anno un paese diverso. Ed è giusto che il grande ciclismo vada a cercare nuove rotte. La passione qui non c'è o magari non c'è ancora. Chissà tra dieci anni".

Ne sono trascorsi 51 dal suo primo Mondiale, a San Sebastian.
"Non lo vinsi e non vinsi nemmeno il secondo, al Nurburgring ".

Qui si lamentano del caldo.
"Raccontavano i vecchi di Reims '47, caldo atroce, ricordate che i Mondiali un tempo si correvano anche subito dopo il Tour. Qui a Doha si corre in condizioni difficili ma non eccezionali. Se qualcuno s'è lamentato, è perché non si è preparato bene, e aveva il dovere di farlo".

Sarebbe servita una preparazione specifica.
"Dovevano venire prima e ambientarsi, acclimatarsi. Un velocista, sapendo di avere una, due occasioni nella vita per mettere quella maglia meravigliosa, doveva sacrificare una parte della stagione per questo obiettivo".

Che corsa verrà fuori?
"Difficile, tosta, una classica, lo spero, vorrà dire che i belgi saranno davanti".

Perché i belgi amano così tanto il ciclismo? Ha mai trovato una risposta?
"No, ma è bello che lo amino, è uno sport che non lascia indifferenti, puoi amarlo oppure odiarlo, non ammette mezze misure".

A quale Mondiale dei tre che ha vinto è più legato?
"Difficile dirlo. A Heerlen, nel 1967, ero giovane, ma corsi da vecchio, con intelligenza. A Mendrisio andai via con Felice, vinsi bene. Montreal forse è stato il mio Mondiale più bello. Mi dispiace non essere mai riuscito ad arrivare da solo, ho dovuto faticare sempre fino all'ultimo metro".

Che valore ha avuto nella sua carriera la maglia iridata?
"Un valore immenso, è un oggetto sacro, il vero simbolo del ciclismo. Mi auguro ogni volta che sia degno il suo vincitore. Quest'anno lo sarà, ne sono sicuro".

Può essere l'anno di Tom Boonen, al suo Mondiale d'addio?
"Sarebbe festa nazionale in Belgio. Tom è un mito, lo merita e ha vinto una quantità enorme di tappe in Qatar. Ma sarebbe bello comunque vedere una maglia del Belgio davanti, abbiamo vinto più Mondiali di tutti no?"

26 voi, 19 noi, 8 i francesi.
"Ecco. Il mondo è più largo adesso. Ma speriamo lo stesso di fare 27".
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