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Caccia scatta per primo

Il ciclismo secondo Diego: "L'essenza di questo sport è la fuga. E' un bisogno, un'arte, una voglia. Il primo tentativo non è mai quello buono. L'importante è non voltarsi mai, come in amore"

Diego Caccia, 26 anni, è nato a Ponte San Pietro (Bg). Cyclingnews
Diego Caccia, 26 anni, è nato a Ponte San Pietro (Bg). Cyclingnews
MILANO, 14 novembre 2007 - "Tengo duro in salita, mi arrangio sul mangia-e-bevi, vedo la fuga. E non vinco mai". Il ciclismo secondo Diego Caccia. Eccolo. Caccia in pista equivale a fuga su strada. O no? "Eh, la fuga, il ciclismo sta tutto lì. E' un bisogno, una voglia, un'arte. La fuga si coglie correndo davanti, naso al vento, antenne diritte, occhi anche dietro. Il primo tentativo non è mai quello buono. Il secondo e il terzo già di più. Forse il quarto e il quinto sarebbero i migliori, ma a quel punto è difficile avere ancora gambe. Perché la fuga nasce da un complesso di cose: quando il gruppo si apre, e per un attimo tutti sono stanchi morti, e tu hai la fortuna di cogliere quell'attimo, e di coglierlo non da solo, ma con qualcun altro, e che quel qualcun altro vada forte e ti dia una bella mano".
Poi?
"L'importante è guadagnare subito più tempo possibile. I primi 10-15 chilometri si devono fare a tutta, poi si controlla il vantaggio attraverso la radio o le moto. E se il vantaggio te lo permette, cominci a gestirti. Molli un po' in salita, ci dai dentro in discesa, vai a tutta nei punti favorevoli. La tattica è simile a quando si va in fuga, ma dall’altra parte: non davanti, ma dietro".
Il gruppetto?
"Proprio il gruppetto. Molli in salita perché non ne hai, vai al massimo in discesa per recuperare, cerchi di tenere sul piano. Solo che, in questo caso, non cerchi di vincere, ti basta salvarti. Comunque, se fosse per me, andrei sempre in fuga. Prima o poi dovrà pur arrivare quella giusta, quella che va al traguardo".
La fuga più folle?
"Giro di Lombardia 2006. Scappati io e l'austriaco Totschnig, dopo 20 chilometri. Poi si sono uniti Pagoto e il sudafricano Perry, mio compagno di squadra. Siamo stati ripresi dopo il Ghisallo, quando ormai l'arrivo era nell'aria. Ma è così: se parti presto, la benzina finisce, il serbatoio si svuota e rimani con una gamba su e una giù, in croce".
La fuga più amara?
"Due tappe in Portogallo. In una sono stato ripreso all'ultimo chilometro: ero da solo. Nell'altra sono stato ingoiato ai 500 metri: eravamo in due".
E che cosa si pensa?
"Se sei partito da lontano, ti dici: "Lo sapevo". Se sei beccato a un niente dall'arrivo, ti ripeti: "Proprio vero che la fortuna ci vede poco o niente". Però la speranza c'è sempre. Prima muore il corridore, poi muore la speranza".
Alla... Caccia della vittoria?
"L'ultima risale ai tempi da dilettante. Neanche a dirlo: in fuga, da solo. E la più bella, sempre da dilettante, in una corsa in Emilia: il gruppo si era riportato sotto, ne sentivo il fiatone, resistevo disperatamente all'effetto aspirapolvere e alla tentazione di voltarmi indietro. Mi è arrivato a 10 metri".
Mai voltarsi?
"Mai. E' un guaio. Perdi tempo, morale e vittoria. Come l’amore: certe volte è meglio non vedere, non sapere. Invece bisogna continuare a dirsi "dai, è fatta, è lì, ancora due colpi di pedale". A costo di imbrogliarsi".
Voi corridori non siete gente normale: d’accordo?
"D'accordissimo. Tutta la mia famiglia pedalava: papà dilettante, zia appassionata, anche il nonno, che però non poteva correre perché ai suoi tempi chi portava gli occhiali non aveva il permesso di gareggiare. A me avevano cercato di far fare di tutto, dal nuoto al basket. Finché un giorno mi sono presentato a mio padre direttamente su una bici da corsa. "Io vado", gli dissi".
E lui?
"Era contento. Contento che fossi stato io a decidere, e non lui a spingermi. Avevo 10 anni. All'inizio mio padre faceva finta di niente, lasciava fare, controllava da lontano, forse di nascosto. Rispettava i miei sforzi. Poi, piano piano, ha cominciato ad aiutarmi. Solo pochi consigli, nelle piccole cose. Goccia a goccia fa un mare".
Adesso?
"Sono un privilegiato. Del mio sogno ho fatto un mestiere, della mia passione una professione. Non chiedo di più, sono contento così. Oddio, se poi ne vincessi una... Ma mi sento importante anche se non figuro nell'ordine d’arrivo. Mi piace tirare la volata a Hunter e in salita a Soler, mi piace sentirmi dire grazie, mi piace cercare di superare me stesso".
Per esempio?
"Spagna, Alcobendas, arrivo a 1900 metri, stavo nel gruppetto, gli altri parlavano, io non andavo su neanche a spinta. Pensai: "Ho sbagliato mestiere". Ci dormii su, e la mattina dopo ero come nuovo, pimpante, pronti e via per una nuova avventura".

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