Fertonani: "Bici, amore mio"
Il corridore genovese della Caisse d'Epargne-Illes Balears racconta la sua vita a due ruote: "Il mio sport non regala niente, tutto quello che si ottiene lo si merita. E' duro ma che allegria nei ritiri"
Marco Fertonani, 30 anni, qui vince una tappa alla Vuelta 2006. Archivio
Marco Fertonani, 30 anni, qui vince una tappa alla Vuelta 2006. Archivio
MILANO, 28 dicembre 2006 - Se la vita è una strada, e ogni strada è una vita. Se respirare è come pedalare, tant’è che comunque c’è bisogno, e si ha bisogno, sempre, di aria. Se nel Duemila chi va in bici lo fa più per passione che per professione, anche se poi le due cose, un giorno, magari, forse, riescono anche a sposarsi. Si dice che con i se, e pure con i ma, non si vada da nessuna parte. Marco Fertonani, invece, ci va.
- Se le chiedessero: perché proprio il ciclismo?
"Perché la vita è bella, bella perché strana, e a volte le cose succedono solo per un caso. Questo: i miei fratelli fondarono una squadra di ciclismo amatoriale, io giocavo a basket e chiesi loro una bici tanto per allenarmi. Studiavo, lavoravo, mi allenavo. Poi m’iscrissi a una gran fondo. Quella gran fondo mi cambiò la vita. E da allora è stato un crescendo di emozioni".
- Se potesse spiegarle.
"Spirito agonistico, voglia di migliorarmi, desiderio di primeggiare. L’emozione di partecipare a un Giro d’Italia, l’emozione di correre il prologo del Giro d’Italia a Genova, la mia città, sulle strade di casa, davanti agli amici e ai parenti, l’emozione di vincere una corsa, l’emozione di correre nella squadra che fino a qualche anno fa era stata di Miguel Indurain. L’emozione di fare della tua passione sportiva un lavoro: per quanto duro, grazie a questo lavoro guadagni, giri, vedi, conosci, ti diverti. L’importante è capire che questa fortuna di lavoro non dura tutta la vita".
- Se dovesse descrivere i suoi compagni?
"Venti spagnoli, tre russi, cinque francesi e un italiano, che poi sono io. Gli spagnoli sembrano trasformare ogni corsa in un campionato del mondo, l’affrontano senza regole, in modo spettacolare. I russi sono silenziosi, stanno fra di loro, tendono a chiudersi. Però Vladimir Efimkin, che è russo ma abita in Italia, è allegro e aperto. I francesi amano le fughe, le corse al nord, la battaglia, ci danno dentro e vanno - allo stesso modo - da febbraio a ottobre".
- Se fosse uno psicologo, definirebbe questi rapporti più di amicizia o di conoscenza?
"Forse più di conoscenza. L’amicizia ha bisogno anche di frequentazione, e io non ho compagni di allenamento. Abito a Busalla, di là dal Passo dei Giovi venendo da Genova, di qua venendo da Serravalle Scrivia. Però si possono avere buone relazioni, anche al di là della squadra. L’importante è saper distinguere fra relazioni interessate ad aspetti economici o umani. Perché gli interessi economici esistono: a fine anno i contratti scadono, alcune squadre si sciolgono, i posti sono limitati, ed è sempre una lotta, se non una guerra, per trovarne uno".
- Se dovesse svelarci il bello del ciclismo?
"Il ciclismo non ti regala niente. Tutto quello che ottieni è perché l’hai meritato. Per avere un risultato in luglio, devi cominciare a rincorrerlo da dicembre. Il ciclismo t’insegna la tenacia, la volontà, la forza anche morale. Ma il ciclismo ti regala anche l’allegria. Al ritiro con la squadra, in dicembre, a Pamplona, mi sentivo felice e contento come ai tempi delle gite scolastiche. Nelle squadre spagnole è un po’ così: meno rigore non significa meno serietà".
- Se non avesse fatto il corridore?
"Sarei diventato avvocato. Per laurearmi in Giurisprudenza mi mancano sei esami, gli stessi che mi mancavano quando sono passato al professionismo. Quel giorno mi dissi: "E’ già tanto fare una cosa bene, meglio non rischiare di farne due male". Scelsi il ciclismo. Ma ogni anno m’iscrivo all’università. Devo stare attento a non far passare più di 10 anni dall’ultimo esame, altrimenti dovrò ripeterne alcuni, e la faccenda si complicherebbe".
- E se riprenderà a studiare legge?
"Mi piacerebbe specializzarmi nel diritto sportivo. E’ un ramo del diritto del lavoro. Ma c’è tanta ignoranza in chi lavora con lo sport. Per esempio, nella tutela della propria attività. Palla lunga e pedalare: d’accordo, ma senza farsi fregare".
- Se avesse una bacchetta magica, quale sarebbe il suo traguardo per il 2007?
"Giro d’Italia, la tappa che si conclude al Santuario della Madonna della Guardia. E’ quello che domina Genova. Tutti i genovesi ci vanno, a piedi o in bici, a chiedere una grazia, o a ringraziare dopo averne ricevuta una. E’ una salitaccia. Io la evitavo perché ha un solo versante, ed è trafficato. Più sali, più si fa dura. Finisce con un tratto in pavè al 16-17 per cento, che però al Giro probabilmente non si potrà fare. Presentando la tappa, Davide Cassani l’ha definita "pedalabile". Secondo me l’ha fatta in macchina. Quel giorno, martedì 22 maggio, mi sentirei più sicuro non con una bacchetta, ma con due gambe. Magiche".