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Preziosi, la felicità in un giorno: "Quella vittoria alla Liegi..."

Il primo italiano a vincere la Doyenne, era un emigrante ("dalla Campania a 13 anni per seguire mio padre che lavorava nelle miniere intorno Charleroi") e ripercorre quei momenti: "Eravamo stravolti dopo sette ore sotto l'acqua, al freddo. C'era Adorni, lo feci passare, mi misi alla sua ruota, lo superai negli ultimi venti metri"

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AVELLINO - Sant'Angelo all'Esca, Avellino, profondissimo sud. Qui, tra il verde di boschi impenetrabili e il fiume Calore è nato nel 1943 Carmine Preziosi, il primo italiano capace di vincere la Liegi-Bastogne-Liegi. Una storia incredibile che lui, con orgoglio e una timidezza infinita, racconta. E mentre parla, tornano in mente le immagini. Un filmato in bianco e nero, qualità bassissima, il 1965. Una volata affollata nel velodromo, così finiva un tempo la corsa delle cotes. Una caduta di sette, otto corridori. Preziosi prende la testa, aveva 22 anni, non sapeva, non immaginava che quello sarebbe stato il più bel giorno della sua vita di corridore.

Come andò quella volata, Preziosi? 
"Ci fu una caduta, eravamo stravolti dopo sette ore sotto l'acqua, al freddo. C'era Adorni, lo feci passare, mi misi alla sua ruota, lo superai negli ultimi venti metri. Vinsi bene".
In Belgio tra gli italiani.
"Erano e sono tanti. Anch'io ero emigrato dalla Campania a 13 anni per seguire mio padre che lavorava nelle miniere intorno Charleroi. Ricordo la sua dedizione al lavoro e ricordo la mia prima bicicletta, eravamo ancora a Sant'Angelo. Le corse lungo il fiume. I grandi spazi. In Belgio tutto è più piccolo e più ordinato".
Ha corso anche negli anni di Merckx, nei meravigliosi Sessanta del ciclismo.
"Ricordo le mie prime corse, c'era ancora in bici Pino Cerami, uno dei primi paisà italiani del ciclismo,  c'è ancora una gara, il Gp Cerami, dedicata a lui. Eravamo guardati con simpatia dalla gente, anche perché in bici belgi e italiani non si erano mai dati troppo fastidio, per così dire, a loro le classiche, a noi i Grandi giri. Certo, dopo la mia vittoria magari qualcosa è cambiato...".
Alla Liegi c'era il velodromo ma non c'era ancora la Redoute. Che corsa era?
"La più tremenda, la più lunga, la più snervante. La Redoute sarebbe arrivata alcuni anni dopo. Allora la corsa si decideva sulla Forges".
Dopo, come proseguì la sua carriera?
"Fui felice un giorno, ho avuto altri bei momenti, ma mai più così. Mi fermai definitivamente dopo una frattura al torace, poi ho aperto una falegnameria. Avevo fatto mille mestieri, dal vetraio all'autista al cameriere. Anche nel ciclismo, sono stato velocista, passista, molte altre cose. I ciclisti di oggi non immaginano cosa fossero le corse allora, con una maglia di lana sulla pelle, il fango, il freddo terribile del Belgio, oggi che è così tutto tecnologico, apparentemente protetto. Noi si stava un mese fuori per le classiche del Nord. Era un'avventura, ogni volta".
Com'erano le corse allora?
"Durissime e lunghe, soprattutto molto lunghe, e c'erano sempre tutti, ma proprio tutti i migliori. Anche per questo i corridori di secondo piano, com'ero io forse, vincevano pochissimo".
Per il ciclismo si emigra ancora dal sud.
"Non ci sono le strutture, i soldi, l'organizzazione probabilmente. Ma emigrare per forza è una cosa terribile, lo so, immagino cosa si stato per Nibali e gli altri. Il Belgio mi ha cambiato la vita, non so come sarebbe stata a Sant'Angelo, forse non sarei diventato corridore, forse mi sarei inventato qualcos'altro. Ma essere ricordati, sapere di esserlo, anche grazie allo sport, è una cosa molto bella, un privilegio che mi è capitato. Mi commuove".
Al Giro i corridori del sud sono solo quattro.
"Non mi stupisce, anche ai miei tempi i corridori del sud erano rarissimi".
A Sant'Angelo ci torna?
"Raramente, credo di non aver nemmeno più dei parenti ancora lì. Le mie radici però sono irpine e ne sono orgoglioso".
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