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Bernard Hinault: "Il mio ciclismo da eroi è ammalato di tattica ma serve ancora follia"

L'ex ciclista tra ricordi e il fascino della Liegi-Bastogne-Liegi. Nell'80 vinse rischiando di perdere due dita per il freddo

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LIEGI. Nel punto più meridionale del grande otto che non si chiude e si intreccia sulla Redoute, dove tutto inizia alla Liegi e a volte tutto finisce, nella raramente vista in tv - e ancor più mitica per questo - Bastogne, oggi i corridori potrebbero trovare la neve. Il freddo andrà a schiaffi, attimi gelidi e sprazzi di sole inconsistente, è il Belgio vallone che omaggia l'altro Belgio con i 600 metri in pavé di Rue Naniot, a spaccare la corsa, a 3 km dalla fine. Nibali non ha la condizione, Valverde ne ha troppa, entrambi si ritroveranno al Giro, qui lo spagnolo ha qualcosa in più, il sogno della quarta volta. Ma oggi, soprattutto, la Liegi-Bastogne-Liegi numero 102 dovrà correre più veloce delle nuvole. Come non le riuscì nel 1980. Quando a Remouchamps, dove inizia la Redoute, c'era un solo uomo al comando. Intabarrato "come uno yeti", scrissero i belgi. Con due dita ai limiti della cancrena, con un orrendo berretto rosso in testa. Oggi Bernard Hinault continua a non sentir nulla su quelle dita della mano destra. Né il caldo, né il freddo.

Lei, Hinault, disse: "Sono i rischi del mestiere".
"Ce ne siamo scelto uno tosto, io, loro, non è un mestiere normale, è un po' follia e diverse altre cose, coraggio, incoscienza. Oggi sono cambiati i materiali, ma svegliarsi al mattino, aprire le tende e vedere che piove o nevica è uguale a ieri, quando correvo io".

Chi non c'era, chi non la ricorda, cosa ha perso quella domenica di 36 anni fa?
"Uno spettacolo crudele e splendido. Su 174, arrivammo in 21 al traguardo, io vinsi con oltre 9 minuti sul secondo, a un certo punto misi le mani sul radiatore dell'ammiraglia per scaldarmi, dietro di me era tutto un tremare, mollare, battere i denti. Una giornata all'inferno. Ne vissi un'altra al Delfinato, 4 anni dopo, sul col de Rousset, a giugno e c'era una neve altra cinque dita. Capita nel nostro sport e in nessun altro".

Quel 1980: 13 vittorie tra cui Liegi, Giro e Mondiale. La chiamavano Tasso, ma non le stavano dietro.
"Dormicchiavo in gruppo, all'epoca era possibile. Oggi le gare sono alla morte, dal via. Ma è un dannarsi strano: quasi sempre le corse si decidono sull'ultima salita o all'ultimo chilometro o sull'ultimo strappo. Alla mia epoca c'era più inventiva, anzi, forse più gioia. La tattica esasperata sta danneggiando il ciclismo. Lo dicono tutti i corridori della mia epoca".

La tattica ha il suo fascino.
"Non c'è dubbio, Guimard, il mio ds, era un maestro in questo. Ma il giorno dello Stelvio, io e Bernard andammo all'impronta, quasi a orecchio. Ci "sentivamo". Uno così è Nibali, per esempio".

Le piace come corridore?
"Molto, è uno che può vincere i Giri e le Classiche, sono pochi, è l'unico di questa epoca. Che bella quell'impresa sul pavé, al Tour 2014".

Froome, Contador, Quintana?
"Sono grandi corridori, grandi lavoratori, molto meticolosi, se hanno un obiettivo non lo sbagliano, ma puntano tutto su una sola corsa l'anno. Come se avessero chissà quante vite da corridori. Io ho vinto 5 Tour, 3 Giri, la Classiche e un Mondiale. Non parliamo di Merckx. Se avessimo puntato su un obiettivo solo l'anno, avremmo vinto dieci volte meno".

Lei è stato l'ultimo francese a vincere la Liegi (1980) e il Tour (1985). Da trent'anni fate a fatica a esprimere un ciclismo di alto livello.
"Abbiamo però una nidiata interessante, almeno tre-quattro ottimi corridori e una grande scuola della pista. Lì, ormai, si costruiscono i campioni".

Che idea s'è fatto del doping tecnologico, questa storia dei motorini nelle bici?
"Un punto bassissimo. Ho una proposta: non va fermato solo chi bara, ma tutta la sua squadra, fino a fine stagione. Impossibile che i team non sappiano. Sui sistemi di lotta, l'Uci si proclama tranquilla, dicono di poterli trovare con i tablet. Lo spero".

Che futuro vede per il ciclismo?
"Lo vedo lontano dai suoi confini classici. Il mondo va in bici, è una moda e uno stile di vita. Vedo continenti come l'Africa o l'Asia in ascesa, molte gare sono nate e ne hanno soppiantate altre con la forza del denaro. La tv ha portato la bici nel mondo, sono migliorate le riprese, oggi il ciclismo è uno spettacolo vero. Spero che non si snaturi per troppa "modernità". Corse come la Parigi- Roubaix o la Liegi devono continuare a vivere e a essere il sogno dei corridori".

Era la sua corsa preferita, la Liegi?
"Delle classiche senz'altro, era la più adatta a me. Della Roubaix tutti sanno cosa pensassi ("ciclocross" disse, però la vinse, nel 1981), ma prendete la Redoute, fatela in bici almeno una volta, ne resterete rapiti. Ho adorato Sanremo e Lombardia, ma la Liegi è per me, come per molti francesi, anche se si corre in Belgio, la più bella, vale quasi un Mondiale".

Perché il prossimo anno lascerà il suo ruolo di responsabile delle relazione esterne nell'Aso, la società che organizza Tour, Roubaix, Liegi?
"Perché avrò 62 anni e sono in pari col ciclismo. Ora voglio dedicarmi anima e corpo alla mia famiglia, è giusto così".
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