Franco Bitossi si racconta: "Nelle salite in bici con gli amici verso il Castello di Montelupo mi accorsi di andar forte"

Franco Bitossi

Franco Bitossi

Qualche settimana fa, con una notizia in prima pagina, “Il Tirreno” ci ha orgogliosamente informato che il nostro territorio pare essere diventato il buen retiro di molti grandi nomi dello sport italiano. Luciano Spalletti, Walter Mazzarri e Antonio Di Natale hanno infatti acquistato casa dalle nostre parti e progettano di trasferirvisi più o meno stabilmente.

Non si vuole qui sindacare sulla qualità della vita delle nostre città, né contestare la rilevanza della notizia, ma piuttosto segnalare che a Empoli già da tempo abita un ex-campione assai più titolato, che per numero di successi conseguiti distanzia di molto gli illustri personaggi sopra citati.

Si tratta evidentemente di Franco Bitossi, che annovera nel proprio palmares qualcosa come 21 tappe al Giro d’Italia e 4 al Tour de France, un Giro della Svizzera e una Tirreno-Adriatico, due Giri di Lombardia e due Campionati di Zurigo, avendo altresì vestito per tre volte la maglia tricolore di Campione d’Italia e per nove volte la maglia azzurra ai Campionati del Mondo su strada. In totale, dal 1961 al 1978, Bitossi ha messo insieme 171 vittorie, che al momento del ritiro ne facevano il corridore italiano più vincente della storia – negli anni, sarebbe stato superato da Francesco Moser con 273, Beppe Saronni (193), Mario Cipollini (189) e Alessandro Petacchi (178).

Bitossi ha accettato di ripercorrere la sua carriera in una densa intervista, conversando gentilmente nel salotto della sua casa empolese, dove (come si vede nella fotografia) campeggiano vessilli e memorabilia juventini, dovuti all’irrefrenabile passione calcistica della moglie, la signora Anna.

DOMANDA – Voglio partire dal tuo attuale (benché saltuario) impegno agonistico, il gioco delle bocce: ci sono similitudini fra le bocce e il ciclismo?

RISPOSTA – Le bocce richiedono soprattutto concentrazione e raccoglimento, qualità che ogni atleta deve avere, ma anche sforzo fisico, dato che può capitare in un torneo dove ci sono centinaia di giocatori di disputare 10/12 partite e di stare in tensione dalla mattina a notte inoltrata. Ci sono giocatori di bocce che infatti non disdegnano la bicicletta per allenarsi alle gare e soprattutto per rinforzare le gambe.

D. – Le bocce ti hanno aiutato a superare il vuoto della fine della carriera da ciclista?

R. – Non c’è stato nessun vuoto quando ho appeso la bicicletta al chiodo; anzi, per certi aspetti è stata una liberazione, avevo 38 anni (Bitossi è nato nel 1940 – N.d.R.) e dopo così tanto tempo passato a pedalare, a condurre vita da atleta, con tutte le rinunce e lo stress che questo comporta, avevo voglia di ricominciare una vita normale. Ho smesso senza nessun rimpianto e ho preferito uscire dal mondo delle corse.

D. – Una carriera lunghissima, che però rischiò di interrompersi presto, per i noti problemi al cuore.

R. – Fin da dilettante, mi capitavano queste crisi, andavo in extra-sistole e subentrava la tachicardia, che mi costringeva a fermarmi per normalizzare le pulsazioni. Ero sinceramente convinto che questo handicap mi avrebbe impedito di diventare professionista, non avrei potuto conquistare la fiducia di una squadra e dei tifosi. Le crisi arrivavano improvvisamente e non si trovava una spiegazione: arrivavo fino a 200 battiti al minuto e l’ossigeno non circolava più come doveva, costringendomi a interrompere lo sforzo. Con il tempo imparai che proprio queste soste regolarizzavano il battito, permettendomi di riprendere senza conseguenze.

D. – Fu così che il “cuore matto” diventò il tuo marchio di fabbrica e la chiave per conquistare il favore degli appassionati.

R. – Fino al 1968, le crisi mi colpivano durante le corse in linea o nei primi giorni di una corsa a tappe, poi scomparivano. Grazie dunque alle corse a tappe ho potuto diventare un corridore professionista, benché le mie caratteristiche fossero più adatte alle gare di un giorno. C’era evidentemente una componente psicologica ed emotiva che contribuiva a causare lo scompenso cardiaco, che svaniva con l’andare della competizione e la scomparsa dell’ansia che mi attanagliava nei primi giorni. Non a caso, le accelerazioni del battito si manifestavano nei momenti di maggiore tensione agonistica, all’attacco di una salita o comunque nei momenti cruciali della gara. Insomma, fu facile per giornalisti e tifosi affibbiarmi quel soprannome, sfruttando l’analogia con l’allora celebre canzone di Little Tony.

D. – Come è sbocciata la passione per il ciclismo e come ti accorgesti di andar forte?

R. – Come tutti quelli della mia età, ho vissuto il dualismo Bartali-Coppi e mi sono appassionato alla bicicletta tifando per Gino. A Camaioni, andavamo con le bici da passeggio perché non c’erano le automobili e qualche volta si organizzavano delle gare fra di noi. Poi, mio padre mi comprò un vecchio modello con il cambio, che usavo anche per andare a lavorare a Montelupo. Sempre  con gli amici, all’ora di pranzo si usciva per qualche sfida fra ragazzi, solitamente si scalava la salita del Castello di Montelupo e mi accorsi che andavo più veloce degli altri. Cominciarono così a suggerirmi di correre più seriamente e trovai una squadra a Porto di Mezzo, con questa venne anche un’altra bicicletta, sempre usata, ma più moderna e nell’agosto del 1957 presi ad allenarmi e corsi quattro gare. Nel frattempo, continuavo il lavoro e mi allenavo nei ritagli di tempo, soprattutto il sabato e la domenica, ma anche al mattino e la sera, prima e dopo il lavoro in fabbrica. Venne così la prima gara da allievo nell’aprile 1958, arrivai ottavo, poi sesto e infine secondo in una corsa che si concluse allo Stadio Castellani. Allora, feci un investimento e comprai una bicicletta dalla componentistica migliore, con cui conquistai un altro secondo posto. Qualche domenica dopo, durante una gara che finiva a Scandicci, caddi in discesa e mi procurai diverse ferite e quella settimana rimasi a casa dal lavoro, mi allenai quindi con più frequenza prima della corsa che organizzava la mia società di Porto di Mezzo: andai in fuga e arrivai da solo, fu la mia prima vittoria, era il 29 giugno 1958. Ne seguirono diverse altre, con molti secondi e terzi posti. Ricevetti così le prime offerte di squadre dilettantistiche, mi accasai con la “Porta Romana” di Firenze e conquistai ben 13 successi. Fu la consacrazione, grazie a una segnalazione di Alfredo Martini, passai alla Philco di Fiorenzo Magni nel 1961, con cui rimasi un anno per poi trasferirmi alla Springoil con Gastone Nencini, dove rimasi dal 1963 al 1965.

D. – La notorietà e le prime vittorie di peso arrivarono al Giro del 1964.

R. – La prima vittoria al Giro, a San Pellegrino Terme, il 18 maggio 1964, è quella a cui tengo di più, perché mi tolse gli ultimi dubbi e mi fece capire che nonostante il “cuore matto” potevo diventare un ciclista di rilievo. Dopo quella tappa, pur nel ruolo di gregario di Nencini, vinsi altre tre volte e finii primo nella classifica degli scalatori, anche grazie al successo nella Cuneo-Pinerolo, dove a suo tempo aveva trionfato Fausto Coppi.

D. – Hai vinto per tre volte la classifica degli scalatori al Giro, ma il miglior piazzamento nella corsa rosa è stato solo un settimo posto nel 1965 e nel 1970.

R. – Devo dire di non aver mai avuto la mentalità giusta per le grandi corse a tappe. Per esempio, al Giro del 1965, nel tappone che si concludeva a Madesimo, ero nel gruppo di testa con la maglia rosa Vittorio Adorni. Fu una giornata tremenda, piovve quasi sempre e scalammo lo Stelvio fra due pareti di neve, con l’arrivo anticipato in cima al passo a causa di una slavina che impediva di proseguire per Merano. Insomma, quando Adorni staccò il gruppetto, io rimasi tranquillo in terza posizione, preoccupato di conservare la posizione d’onore; invece, avrei dovuto attaccare per distanziare gli altri che mi precedevano in classifica generale e che erano rimasti attardati dopo la fuga di Adorni. Quella ingenuità mi costò almeno due o tre posizioni in classifica, avrei potuto finire sul podio. Forse le remore dovute agli scompensi cardiaci mi hanno condizionato più di quanto all’epoca credessi.

D. – Nel 1965, comunque arrivò la vittoria finale al Giro di Svizzera…

R. – Ero partito male, forse ancora imballato dal viaggio, accumulai alcuni minuti di ritardo dal leader Huysmans nella prima frazione. Mi ripresi subito e cominciai a recuperare, fino a che nella penultima tappa Huysmans andò in crisi su un mio attacco. Nel finale rimasi solo con Mugnaini, che mi aiutò a tenere alta l’andatura e al traguardo lo lasciai vincere, mentre io salii al primo posto in classifica generale.

D. – Hai dunque beneficiato di uno dei tanti accordi che si stringono durante le corse?

R. – Beh, quello di Mugnaini fu soprattutto un aiuto morale, ormai mancava poco all’arrivo e per quel presunto aiuto dovetti anche lasciargli la tappa! Non si deve comunque pensare che si tratti di chissà quali inganni e raggiri, semplicemente può succedere che si formino interessi convergenti fra chi gareggia per la classifica generale e chi invece punta al successo del giorno, in quei casi è facile e naturale accordarsi, non c’è niente di male.

D. – Altre volte invece gli accordi non vanno a buon fine, come successe sempre al Giro della Svizzera del 1970 con Felice Gimondi.

R. – Io avevo già vinto la prima tappa dopo il cronoprologo, battendo proprio Gimondi e il leader della generale Rudi Altig. Nella tappa che arrivava ad Arosa, Gimondi e io facemmo il vuoto e fu chiaro che avremmo lottato per conquistare la maglia. Io avevo pochi secondi di vantaggio e quindi fu ovvio concordare uno scambio: la vittoria di tappa a lui e la maglia a me. Poi, sulla salita per Arosa, io ebbi un cedimento e gli chiesi di rallentare, visto il vantaggio incolmabile sugli inseguitori. Invece di frenare, Gimondi accelerò e mi staccò di qualche decina di metri. Persi un po’ di fiducia, ero arrabbiato per la rottura dell’accordo e quando anche Gimondi accusò la fatica, mentre dall’ammiraglia mi incitavano a non desistere, strinsi i denti e in poche centinaia di metri lo raggiunsi di nuovo. E lui mi fece: “Allora, siamo d’accordo, vinco io?”. “No, ora tu vinci se mi batti!”, gli risposi e in effetti vinsi la volata e presi anche la maglia. Ci furono polemiche e l’indomani la squadra di Gimondi mi attaccò duramente: alla fine, quel Giro della Svizzera non l’abbiamo vinto né io né Gimondi!

D. – A proposito di accordi più o meno espliciti, come hai giudicato la conclusione del Mondiale di Firenze, quando gli spagnoli Valverde e Rodriguez si sono fatti beffare dal portoghese Rui Costa?

R. – Con Rodriguez in fuga a pochi chilometri dal traguardo, lo scatto di Rui Costa doveva essere rintuzzato da Valverde, visto che Nibali si era già sfiancato nel tentativo di recuperare il fuggitivo venendo sempre chiuso dallo stesso Valverde, che in teoria era anche il più veloce del gruppetto. Tuttavia, dopo 270 chilometri di gara, molti dei quali corsi sotto una pioggia battente, le gerarchie tendono a modificarsi, magari Valverde non si sentiva proprio bene o al limite ha valutato come il male minore lo scatto di Rui Costa: non dimentichiamo che i due sono compagni di squadra, può darsi che Valverde gli abbia dato via libera. Certo che a rimetterci è stata la Spagna.

D. – Torniamo alla tua carriera e apriamo il capitolo del Tour de France, dove esordisti nel 1966: cosa ricordi della Grande Boucle?

R. – Era il periodo del dominio di Jacques Anquetil, ma quell’anno il Tour fu deciso da una fuga-bidone, in cui si inserì Lucien Aimar, gregario di Anquetil, che conquistò la maglia gialla e poi usufruì dell’aiuto dello stesso Anquetil per portarla fino a Parigi. Io non avevo esperienza, ma vinsi comunque due tappe, a Caen e a Torino. Di quel Tour ricordo soprattutto la frazione fra Bourg d’Oisans e Briançon, con le ascese della Croix-de-Fer, del Telegraph e del Galibier. Erano solo 147 km, ma fu corsa a ritmo indiavolato e ben 27 corridori finirono fuori tempo massimo. Nella discesa dalla Croix-de-Fer, ero con Anquetil, Poulidor e Altig, fummo passati tutti da Tommy Simpson, ma lo ritrovammo poco dopo in un cespuglio. Rimontò in sella e ci staccò ancora. Sulla salita del Galibier si scatenò di nuovo la battaglia, io cercai di tenere la ruota dei primi, raggiunsi Simpson prima della vetta, ma mi superò di nuovo all’inizio della discesa, poi cadde ancora. Nella lunga picchiata verso Briançon la strada è larga e bella e riuscii a tenere la sua scia. All’improvviso, mi parve che piovesse, sentivo delle gocce, ma c’era un bel sole, allora immaginai che fossero le stille di sudore di Simpson, che era impegnatissimo nel tentativo di staccarmi. Quando giungo all’arrivo, mi viene incontro il massaggiatore tutto preoccupato: “Franco, che ti è successo, sei caduto? Sei tutto coperto di sangue!”. Allora capii: non erano gocce d’acqua o di sudore quelle che mi avevano bagnato, ma il sangue che perdeva Simpson, che dopo le due cadute era tutto scorticato!

D. – Nel 1968, parve l’anno buono per salire sul podio, all’ultima cronometro solo 58 secondi ti separavano dal primo posto: come fu il bilancio di quel Tour?

R. – Avevo cominciato quel Tour con i soliti obiettivi, vincere le tappe e la classifica a punti. Andai a caccia di ogni traguardo e trascurai la classifica generale, per esempio nella tappa di Grenoble avrei potuto accontentarmi di un piazzamento di rincalzo e conservare le forze che il giorno dopo mi avrebbero forse consentito di mettere la maglia gialla. Voleva dire un grande dispendio energetico e quando arrivai alla cronometro che avrebbe deciso la corsa avevo già speso tutto e persi molti minuti. Inoltre, non avevo le caratteristiche per essere competitivo nelle cronometro lunghe e non mi sono mai sentito a mio agio mentalmente nelle corse contro il tempo, mi capitava facilmente di innervosirmi e di perdere il ritmo giusto. Il bilancio fu però assai positivo, ogni arrivo non mi vede mai meno di dodicesimo e diventai il primo italiano a conquistare la maglia verde (dopo ci è riuscito solo Petacchi nel 2008 – N.d.R.).

D. – Parliamo dei grandi con cui hai corso: Jacques Anquetil.

R. – Molti dicono che Anquetil fosse scostante e altezzoso, ma con me si è sempre comportato bene, dimostrando rispetto e ricevendo la mia amicizia. Era un grande cronomen, ma quando la strada si rizzava sotto i pedali non si tirava indietro e vinceva anche in salita. Una volta si complimentò con me: “Tutti in Italia parlano di Gimondi, Adorni e Motta, ma per me sei tu il migliore!”.

D. – Raymond Poulidor, l’eterno secondo.

R. – Poulidor era un grande agonista, avevo simpatia per lui e non era inferiore ad Anquetil, anzi era anche più amato dai tifosi. Però, non ha mai avuto una squadra all’altezza, né un direttore sportivo abbastanza scaltro, era così costretto a correre sempre allo scoperto, consumava molte più energie del rivale Anquetil e quando la corsa entrava nel vivo spesso non ne aveva più.

D. – Eddy Merckx, “il cannibale”.

R. – Lui è stato il più forte, senza discussione. Mi ricordo che la prima volta lo incontrai in occasione di un circuito in Belgio, era il 1966, si correva per vincere un’automobile, un premio ambito visto che non circolavano tanti soldi all’epoca. Il tracciato era breve ma nervoso, con salite e discese che si alternavano in rapida successione. Lui era un novellino, si era appena trasferito alla Peugeot, lasciando la squadra di Van Looy, che quindi gli fece una guerra spietata. Ebbene, a soli 21 anni, con tutti i fiamminghi che gli correvano contro, non vinse la macchina, ma arrivò comunque secondo! Mi stupii molto pertanto quando Bruno Raschi, il grande esperto di ciclismo della “Gazzetta dello Sport”, dopo il Giro del 1967, scrisse che Merckx sarebbe diventato un grande cacciatore di Classiche, ma non avrebbe mai vinto il Giro o il Tour. Pensai: “Stavolta, Raschi ha preso un bel granchio!”.

D. – Quali erano i tuoi rapporti con il campione belga?

R. – Andavamo d’accordo e qualche volta l’ho anche battuto, come al Giro del 1967 nella tappa che arrivò sull’Etna o nello stesso anno al Giro di Lombardia. Ma non era facile correre con lui, veniva e vinceva, veniva e vinceva, tutti erano terrorizzati da un suo minimo movimento sospetto. Rammento un episodio alla Parigi-Nizza del 1971. La corsa era appena iniziata e Merckx pedalava in testa al plotone, il nervosismo serpeggiava perché ci si aspettava una sua azione da un momento all’altro. Io di solito stavo indietro all’inizio, restavo a scherzare con i compagni e gli amici. Con Merckx in testa invece nessuno aveva voglia di divertirsi. Accelero e lo affianco al comando, gli dico: “Dài, Eddy, che fai qui? La corsa è appena iniziata, vieni dietro con noi che ci si fa due risate!” Eddy obbedì e il gruppo si rilassò. Ah, però la gara alla fine la vinse lui!

D. – Felice Gimondi.

R. – C’era una fiera rivalità fra di noi, spessissimo ci siamo disputati le corse in volata dopo lunghe fughe, ma scesi di bici eravamo e siamo ancora amici. Durante le tappe scherzavamo in mezzo al gruppo e abbiamo abbandonato il ciclismo insieme, al Giro dell’Emilia del 1978.

D. – Eravate amici anche con Marino Basso, che ti “scippò” il Mondiale di Gap?

R. – Sì, nessun problema anche con lui, addirittura dopo il Mondiale di Gap abbiamo anche corso insieme e l’ho aiutato a vincere una tappa.

D. – È rimasto solo il racconto della pagina più triste, quel secondo posto ai Mondiali di Gap del 7 agosto 1972: quali sono i tuoi sentimenti a distanza di tanti anni?

R. – Beh, adesso posso anche liquidare la questione con un sorriso, tutti mi chiedono di raccontare e spiegare a distanza di quarant’anni, ma allora fu una sconfitta dura da digerire, mi assillò per giorni e giorni. Diversamente da altre edizioni del Mondiale, mi ero risparmiato e alla fine mi sentivo benissimo, inoltre ero nella fuga giusta, con i compagni Basso e Dancelli, con Merckx, Guimard, Zoetemelk e Mortensen.

D. – Una condizione ideale per un finisseur come te…

R. – Ai 3/4 chilometri dall’arrivo, Guimard scatta e io mi metto alla sua ruota, ma non collaboro. Allora il Francese rallenta e gli altri ci riprendono quasi subito. Sto bene, sono fresco e parto in contropiede. Guadagno subito un centinaio di metri, pedalo in scioltezza e prendo fiducia. Penso: “Merckx è un amico e non mi inseguirà, Dancelli e Basso faranno il gioco di squadra e Guimard è stanco, solo Zoetemelk e Mortensen potrebbero rincorrermi, ma sono in minoranza”. All’ultima curva, vedo che ho 300 metri di vantaggio, manca poco più di un chilometro.

D. – Sembrava fatta!

R. – Esatto, insisto sul rettilineo finale e volo su una breve discesa, arriva una lieve asperità e decido di inserire un rapporto più leggero, ma mi sembra “troppo” leggero e commetto l’errore fatale: ne metto uno più duro e mi pianto. Mi giro, ma le auto del seguito mi impediscono di vedere gli inseguitori, allora mi porto al centro della strada e mi investe il vento contrario. Sento la folla che rumoreggia, che accompagna il recupero forsennato del gruppetto che ormai mi è alle costole, provo disperatamente a spingere, ma a meno di dieci metri dalla linea bianca, Basso piomba su di me a velocità doppia e mi lascia solo la piazza d’onore.

Le ultime parole di Bitossi calano di tono, diventano un sussurro che svela come quel trauma lontano visiti ancora la serenità dell’anziano campione, che ha sperimentato sulla sua pelle la più spietata legge dello sport: il secondo arrivato è soltanto il primo dei battuti. C’è spazio per un’ultima, sommessa recriminazione: “Dietro non mi hanno aiutato, sarebbe bastato che Basso e Dancelli spezzassero qualche cambio; con un normale gioco di squadra avrei comunque tagliato il traguardo per primo”.

Chi vuole, può visionare in rete quegli ultimi metri, udire la voce spezzata dall’emozione di Adriano De Zan che coglie l’aspetto tragico della vicenda e che pure descrive la feroce rimonta degli inseguitori, che ingoiano il fuggitivo come fa la belva con la preda dal destino ormai segnato. Tuttavia, e qui sta il risarcimento della storia, proprio quella beffa amara ha regalato al corridore toscano una sorta di dolente immortalità, un passaporto per l’eternità, visto che ancora oggi tutti continuano a chiedergli di rievocare quei minuti interminabili e, mentre se ne ascolta la narrazione, come è capitato a me, non si può fare a meno di provare una dolorosa simpatia per il perdente.

Chi si fregiò del titolo iridato, al contrario, è solo un altro nome in un lungo elenco e a fatica lo si distingue da tutti gli altri.

 

Franco Bitossi e il blogger di gonews.it Paolo Bruschi

Franco Bitossi e il blogger di gonews.it Paolo Bruschi

Paolo Bruschi