LEFEVERE. «Credo nel ciclismo, credeteci anche voi»

PROFESSIONISTI | 22/02/2016 | 07:51
«Possiamo parlare in italiano, mi piace più la vostra lingua che l’inglese». Esordisce così Patrick Lefevere alla nostra richiesta di intervista in occasione della presentazione a Calpe della sua Etixx Quick Step. Il team manager della plurivittoriosa formazione belga ha un legame profondo con l’Italia e con il ciclismo made in Italy. Nato a Moorsdele nel 1955, Lefevere ha corso anche tra i professionisti nella seconda metà degli anni Settanta.
La sua miglior stagione è stata il 1978, quando tra le altre ha vinto la Kuurne-Brussels-Kuurne e la quarta tappa della Vuelta a España. Appesa la bici al chiodo, ha iniziato una sfolgorante carriera da tecnico. Ha diretto campioni del calibro di Mu­seeuw, Bartoli, Bettini, Virenque, Boo­nen e più di recente Cavendish, Mar­tin, Terpstra, Uran e Kwiatkowski. Dal 1993 a oggi, con i suoi team ha conquistato più di 80 vittorie nelle grandi classiche, tra cui 11 Pa­rigi-Roubaix, 8 Giri delle Fiandre, 6 Gand-Wevelgem, 4 Lombardia, 3 Pa­rigi-Tours, 2 Milano-Sanremo e una Liegi-Bastogne-Liegi.

Questa incredibile scia di risultati ri­flet­te la sua abilità nel costruire anno dopo anno un team ambizioso, come quello che schiera nel 2016. Attento osservatore e critico del mondo delle due ruote, sempre disponibile a uno scambio di idee, ci ha detto la sua sul ciclismo di oggi.

Cosa rappresenta il ciclismo nella sua vita?
«Tutto, perché è dall’età di 4 anni che sono appassionato di questo sport. Al­la mia epoca si poteva cominciare a correre solo a 15 anni, ho aspettato fi­no a quell’età per gareggiare e l’ho fatto per 10 anni. Conclusa l’esperienza da corridore nel 1979, dopo quattro anni di professionismo, sono salito subito in macchina come tecnico (alla Marc Zeep Savon, ndr), ruolo che non ho più lasciato. Oggi pedalo poco, uso come tutti la scusa che ho poco tempo, ma per la mia salute mi farebbe bene usare un po’ la bici».

Ricorda la prima gara in ammiraglia?
«Sì, eravamo a Bruxelles ed ero secondo direttore sportivo, non vincemmo ma andò bene. L’anno successivo la pri­ma gara importante, la Omloop Het Volk, non ci sfuggì. Vincerla fu un grande risultato per un tecnico così giovane, ero euforico. Da lì in poi ho sempre avuto la fortuna di incontrare le persone giuste al momento giusto. Fondamentale è stato approdare alla GB MG nel ’92, alla Mapei nel ’95, decidere di andare a vivere in Italia nel ’98. Nel 2000 ho avuto un tumore mol­to pericoloso (“Ogni giorno è il primo giorno del resto della mia vita” ripete spesso, riferendosi alla battaglia con il cancro che ha vinto nel 2001, ndr), ma quando ancora ero in ospedale avevo creato la Domo-Farm Frites. Ho sempre mantenuto buoni rapporti con i miei sponsor: quando il dottor Squinzi decise di smettere nel giugno 2002, il capo di Quick Step, azienda che avevo portato io in Mapei, mi chiamò chiedendomi se volessi allestire una squadra per lui. Così è nata la Quick Step Davitamon e siamo ancora qui».

Il momento più bello della sua carriera fino ad ora?
«È difficile scegliere, davvero. Quello che conta a volte non è vincere la Pa­rigi-Roubaix o il Fiandre, ma il successo di un ragazzo di 20 anni in una cor­sa minore che ti conferma il potenziale che hai visto dentro di lui e poi vederlo maturare. Oppure storie di rinascita co­me quella di Iljo Keisse: era sospeso per un discutibile caso di doping e un amico comune mi ha chiesto di dar­gli una mano per tornare a correre, io l’ho fatto quasi per beneficenza e lui si è mostrato talmente grato che ora è uno dei corridori più affidabili che ab­biamo».

Il momento che cancellerebbe?
«Sono stati numerosi anche i momenti tristi: l’anno ’98 con lo scandalo Fe­sti­na, oppure nel 2006 quando a Stra­sburgo, da presidente della squadra, fui svegliato alle 4.30 della mattina e mi dissero che dovevo chiamare i miei colleghi per mandare a casa tutti i corridori dal Tour. Poi, quando perdi dei ra­gazzi provi un dolore indescrivibile. Ricordo che presi Wouter Weylandt quando aveva 17 anni, il primo anno che mi lasciò per andare alla Leopard è morto al Giro. Quel giorno tutti mi chiamavano perché non avevano i contatti della famiglia, nessuno aveva il nu­mero della mamma e della fidanzata. Anche la morte di Frank Vandenbrouc­ke ha rappresentato ovviamente un momento molto nero».

Qual è il segreto per portare in alto una squadra di questo livello per tanti anni?
«Stare con i piedi sempre ben piantati in terra. Quando vinci e sei euforico, la sera è bene che ti metti sdraiato comodo sul divano e ripensi alla giornata trascorsa, pensando anche a cosa si è sbagliato e si può far meglio, perché si può sempre far meglio, devi rivedere la gara e proiettarti alle corse successive. Quanto costa un top team come questo? 10 anni della mia vita (sorride, ndr)».

Il corridore che avrebbe voluto avere?
«Ce ne sono tanti, ma coi se e coi ma non si va da nessuna parte... In tanti mi chiedono: non avrai il rammarico di non aver mai vinto il Tour de France? In genere rispondo: pensi che sulla mia lapide ci sarà scritto: non ha mai vinto la Grande Boucle? A nessuno interessa».

Quello che le è dispiaciuto di più mandare via?
«Nessuno».

Quello che l’ha resa più orgoglioso?
«Una bella storia è quella del Grillo. Il capitano alla Mapei era Michele Bar­toli, un giorno si rompe il ginocchio e chi salta fuori? Il suo gregario più fidato: Bettini. Paolo inizia a vincere le cor­se più importanti, il momento più difficile di tutti è stato quando è mancato suo fratello e ha vinto il Lom­bar­dia. Ancora oggi, quando rivedo quelle immagini in tv mi viene la pelle d’oca, vedo il suo sguardo, le sue lacrime: che emozione…».

Quello che l’ha deluso di più?
«Più di un corridore non ha rispettato le attese, uno che ero convinto avesse un gran potenziale ma non si è affermato come pensavo è Giuliano Figue­ras. Era troppo nervoso, sentiva troppo le corse».

Cosa si aspetta dal 2016?
«Vorrei riportare Kittel al livello di due anni fa, sarebbe bellissimo rivederlo vincere al Tour e su altri palcoscenici importanti. Prevedo buoni risultati per Tom Boonen, Tony Martin e tutti i no­stri uomini di punta. Abbiamo preso Da­niel Martin per sopperire alla partenza di Uran. Gaviria è un giovane colombiano molto interessante così come il promettente Martinelli che, nonostante il padre lavori alla Astana, ha scelto di costruirsi la sua carriera in modo indipendente... Mi appassionano i giovani perché sono i campioni del domani. Ho investito e investo tanto in questo, oggi abbiamo uno scout (Jo­xean Fernandez Matxin, ndr) che lavora a tempo pieno per noi in questo sen­so oltre che un team giovanile e la Bakala Academy, inaugurata a Leuven nel 2013. Sagan? Gli avevamo fatto dei test così come a Boasson Hagen e Kwiat­kowski ma non avevo il budget per prenderlo, fa parte del gioco».

E ai corridori italiani cosa chiede?
«Mi aspetto che tutti facciano un ulteriore passo avanti. Mi auguro in particolare che Matteo Trentin inizi la stagione come ha finito la scorsa. L’età media del team è di 27 anni, abbiamo Laurens De Plus che con i suoi 20 anni è il più giovane corridore del World Tour. Ci aspettano 100 gare per un to­tale di 300 giorni di corsa. Spesso saremo contemporaneamente divisi su due o tre fronti. I nostri obiettivi sono  mi­gliorarci e massimizzare il nostro valore commerciale sia per la squadra che per i nostri sponsor. Dal 2010 ho ceduto la società di gestione del team al ma­gna­te ceco Zdenek Bakala, a me non interessa possedere azioni, sono contento che lui sia arrivato al momento giusto, altrimenti avrei do­vuto chiudere il team visto che avevamo qualche guaio. È lui che paga e ci dà la possibilità di creare il team che abbiamo oggi».

Come sta il ciclismo di oggi?
«Io non sono felice. Vedere che, invece di fare gruppo, le varie parti in campo si fanno la lotta tra loro e mi dispiace moltissimo. Le guerre e i nervosismi dell’ultimo periodo non fanno bene a nessuno. Che senso ha che si mettano l’uno contro l’altro federazione, organizzatori e so­cie­tà? Siamo tutti sulla stessa barca, se remiamo nella stessa direzione possiamo rendere il ciclismo davvero spettacolare e appetibile, purtroppo però c’è chi vuole mangiare tut­ta la torta da solo e così non può funzionare. Credo nelle riforme, abbiamo bisogno di un prodotto più moderno, ma ci sarà sempre chi ha paura di cambiare le cose...».

Cosa pensa della querelle tra UCI e ASO?
«Mi dispiace davvero molto, non ab­biamo bisogno che la federazione internazionale faccia la guerra all’organizzatore più importante del nostro movimento. Se polemiche di questo tipo riguardano altri sport sono contento, non altrettanto quando si tocca il mio».

In materia di antidoping come siamo messi?
«Stiamo lavorando nella di­rezione giusta. Io non metto la mano sul fuoco per nessuno, perché quando hai sotto di te un gruppo di 76 persone non puoi controllare ogni cosa ma penso che la mentalità sia decisamente cambiata. Io con i miei corridori sono stato molto chiaro: chi prova a barare farà i conti con me. Venderò la casa fino all’ultimo mattone, ma quello sciagurato dovrà pensare a come pagarmi 50 mi­lioni di danni».

Perchè ha senso investire nelle due ruote?
«Investire nel ciclismo è da consigliare assolutamente, il nostro sport offre un ritorno enorme non paragonabile a nessun altro. Restituiamo 10 volte quan­to si investe, non sono cifre campate in aria ma reali: se metti un euro nel ciclismo te ne ritornano tra i 10 e i 17. Pensate che Lidl, solo nel pomeriggio in cui abbiamo annunciato la partnership con la squadra a Gand, so per certo che ha recuperato 1,2 milioni di euro. La Quick Step è al suo diciottesimo anno nel ciclismo...».

Come immagina il ciclismo del futuro?
«Eh, vorrei sapere come sarà tra 20 an­ni... Vorrei un ciclismo con Grandi Giri di 15 giorni, più corti, ve­lo­ci, appetibili mediaticamente, con telecamere sulle bici e in ammiraglia, così da offrire ai media e al pubblico un mix tra sport e dietro le quinte che permetta di capire quanta fatica c’è dietro a un successo».

Se fosse il presidente dell’UCI, quale sa­reb­be la sua prima riforma?
«Riunirei tutte le parti in gioco in una stanza, chiedendo loro di lasciare il pro­prio ego fuori, per stipulare almeno un gentlemen agreement. Per poterlo sottoscrivere davvero però dovremmo avere al tavolo dei gentlemen...».

Giulia De Maio, da tuttoBICI di febbraio
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COMMENTI
Mhaaaaaa....
22 febbraio 2016 16:16 The rider
Opinione personale, questo signore non mi ha mai convinto, sarà per l'amicizia con Mc Quaid? Mhaaaaaa.......

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