Marcato, Messico e nuvole
Il passista veneto ha vinto una tappa nel Paese americano, ora punta al Nord: "Il mio sogno è correre in Belgio. Finora l'ho visto solo in tv"
Una vittoria di Marco Marcato, 22 anni
Una vittoria di Marco Marcato, 22 anni
MILANO, 15 dicembre 2006 - Messico, Vuelta Chihuahua, tappa di 216 km piatta, con qualche strappo. Marco Marcato se la ricorda bene: "Sto bene, la mia squadra fa il treno, volatona generale, esco ai 150 metri e vinco facile".
- Marcato, ma che mondo è?
"Messico del nord, quasi al confine con gli Stati Uniti. Lo Stato si chiama Chihuahua, la capitale Chihuahua, alberghi e ristoranti Chihuahua. Chihuahua come il cane da compagnia, originario di quello Stato lì. Tre h su nove lettere, quasi un record: così tante che neanche si pronunciano. Prologo più cinque tappe, in altitudine".
- Com’è questa Vuelta?
"Organizzata benissimo. Alberghi super, roba da quattro o cinque stelle italiane. Colazioni e cene nelle sale-ristorante, da gourmet. Pubblico numerosissimo a partenze e arrivi, poco o niente lungo il percorso. Elicottero per la diretta tv, testate sui giornali, radio, pubblicità dovunque".
- Sicurezza?
"Per abituarci un po’ all’altezza, siamo arrivati due o tre giorni prima del via. Quando uscivamo dall’albergo, eravamo scortati dalla polizia, perché la Vuelta è organizzata dal Governo dello Stato di Chihuahua. Da quelle parti non si sa mai che cosa possa succedere. Magari sbagli strada e finisci in un postaccio".
- Il livello della corsa?
"E’ un altro ciclismo. Una trentina di corridori buoni, gli altri vanno più piano. Più amatori che professionisti. Li riconosci a occhio: le bici sono belle, loro no. Non parlo di lineamenti, ma di dimensioni: un po’ grassocci. Però, quanto a spirito, non temono confronti: al pronti-via, tutti all’attacco per farsi vedere. C’era l’Agritubel, poi canadesi, americani, colombiani, messicani".
- Le altre tappe?
"Alla seconda tappa eravamo via in cinque, due della stessa squadra, ma non siamo riusciti a tenere la corsa, a un chilometro è scappato uno, sono partito lungo, ma non l’ho raggiunto. L’ultima tappa l’ha vinta un mio compagno, Magallanes, messicano. Gli abbiamo tirato la volata, l’arrivo era in leggera salita, lui è stato bravo".
- In Italia ha collezionato piazzamenti.
"Terzo in una tappa del Trentino e al Gran premio Industria e Commercio a Prato, quarto alla Bernocchi, quinto al Romagna. In tutto, una ventina di piazzamenti nei primi 10".
- Passista veloce: giusto?
"Il mio sogno è correre in Belgio. Finora l’ho visto solo in tv. Questo è il mio nuovo sogno".
- E il primo sogno qual era?
"Diventare professionista. Sono salito su una bici a sei anni, e da allora non ho mai smesso di pensare che questa sarebbe dovuta diventare la mia professione. Neanche quando studiavo ragioneria. Neanche quando all’università, Economia Territoriale a Padova, dopo un paio di esami mi sono trovato fermo a un bivio".
- Già intuita la sua scelta.
"Mi dissi: mi concentro sulla bici. Perché della bici mi piace tutto. A cominciare dall’allenamento. Se non ti piace allenarti, hai sbagliato sport. Mi piace fare fatica e sacrifici, stare all’aria aperta e in mezzo alla natura. Abito a Campodarsego, 8 km a nord di Padova. Nato, cresciuto e pedalato. Esco da casa in bici: comunque ho da fare 40 km di pianura prima di arrivare a una salita".
- Cioè?
"Quaranta chilometri a Nord il Grappa, 40 a Nord-Est il Montello, 40 a Sud-Ovest i Colli Euganei, 40 a Ovest i Colli Berici. Che poi sono 40 ad andare e 40 a tornare, totale 80".
- Ma da dove nasce tanta passione?
"Mio padre era appassionato di ciclismo, ma non è mai montato su una bici. Quando ero un bambino, mio padre mi portò a vedere l’arrivo di una tappa del Giro d’Italia. Forse a Mestre. In volata un corridore cadde, e la cosa m’impressionò. Adesso, se ci ripenso, mi sembra normale".
- Voi velocisti non siete normali.
"Anche a me, se vedo le volate in tv, magari riprese dall’elicottero, vengono i brividi. Ma quando ci sei dentro, neanche te ne accorgi. Tutto concentrato a prendere la ruota giusta, aspettare l’attimo buono, scaricare la potenza che ti è rimasta addosso. Così, visto da fuori, sembra incoscienza; da dentro, coraggio. Nei limiti del possibile, bisogna essere ragionieri: sapere fin dove si può rischiare, e oltre non andare".
- Il suo programma?
"A novembre corsa, un’ora buona su sterrati o lungo gli argini; palestra, due volte la settimana, prima generale, poi specifica per le gambe; nuoto, un’ora a stile libero, qualche vasca a rana; mountain bike, a me piace la discesa, ma per fare la discesa bisogna prima andare in salita. Da dicembre bici, tutti i giorni, tre ore al massimo. Sono in ritiro con la mia ex squadra di dilettanti, la Bata-Wilier, ad Abano Terme: fanghi, stretching e bic"».
- Ci tolga una curiosità: al battesimo, i suoi genitori non hanno dimostrato grande fantasia.
"Volevano chiamarmi Alberto di primo nome, e Marco, in onore del santo patrono di Venezia, di secondo. Poi all’anagrafe i due nomi sono stati invertiti e così sono marchiato Marco Marcato. Ma a casa tutti mi chiamano Alberto".