Capecchi, lo stakanovista
Dopo la stagione d'esordio da pro, il corridore della Liquigas insegue il primo successo con le solite armi: umiltà, passione ("se un giorno non esco in bici mi sento perso"), allenamenti duri
Eros Capecchi, 20 anni, in maglia azzurra ai Mondiali juniores 2004, quando arrivò quarto
Eros Capecchi, 20 anni, in maglia azzurra ai Mondiali juniores 2004, quando arrivò quarto
MILANO, 12 dicembre 2006 - Nel ciclismo ci sono due tipi di ritiri: il ritiro durante la stagione significa abbandono, stacchi il numero, sali sull’ammiraglia o sul camion-scopa, e torni a casa; il ritiro fuori stagione è quel da due a dodici giorni passati tutti insieme, corridori tecnici e addetti, a pedalarsi addosso. Eros Capecchi e la Liquigas sono in ritiro, a Terracina. Un ritiro del secondo tipo, quello fuori stagione.
Capecchi, favorevole o contrario ai ritiri?
«Nel calcio li detestano. Nel ciclismo sono essenziali. E’ lì che ci si conosce, che ci si studia, che s’impara, che a domanda c’è qualcuno che risponde, che metti le basi per aiutare o farti aiutare in corsa».
Lei è in camera con?
«Nel primo ritiro con Miholjevic, adesso con Beltran. Miholjevic è un croato, Beltran uno spagnolo. Esperienza da vendere. Di solito si mette un giovane con un vecchio perché chieda, e un vecchio con un giovane perché insegni».
Al suo primo anno da professionista che cosa ha imparato?
«Da dilettante a professionista non c’è una categoria: c’è un’eternità. Io, poi, dilettante lo sono stato sì e no sei mesi. Così non ho fatto un salto in lungo e neanche in alto, ma triplo. Però non sono pentito. Il professionismo è un mondo affascinante».
Non mi ha risposto.
«S’impara a fare sacrifici, tenersi sempre a disposizione, essere gentili, non darsi mai delle arie. In una parola: umiltà. A chi si monta la testa, gridano: "Ehi, ragazzino, ma chi ti credi di essere?". A me, per fortuna, non l’hanno mai detto».
Quali sono i nemici del corridore?
«Gli amici sbagliati: quelli che ti portano sulle strade sbagliate, e quelli che ti fanno tirare tardi, poi la mattina loro dormono, invece tu ti devi alzare alle 8 e allenarti con le gambe a pezzi».
Perché il ciclismo?
«Perché a scuola andavo male. Ho cominciato la prima superiore, istituto agrario: nessuna passione, era il più vicino a casa. Ma proprio non andavo avanti. In bici, invece, andavo avanti, e sempre volentieri. Allora mi sono detto: "Eros, fa’ una cosa sola, ma bene". Ed è stato ciclismo».
Racconti.
«Il ciclismo mi entusiasma. Io credo che, se uno non ha passione, uscire tutti i giorni diventa un incubo. Per me è una necessità. Una giornata senza bici mi sembra vuota, buttata via, sprecata. La bici non mi serve per pensare o ricordare o sognare o immaginare. In bici penso soltanto a quello che faccio, altrimenti il tempo non mi passa mai. Quando esco con tre o quattro corridori, e loro chiacchierano, ridono, scherzano, io comincio a tirare il gruppo, e al mio vicino ripeto "aumenta, aumenta". Piano piano non rimane più il fiato per chiacchierare, solo per pedalare».
Stakanovista?
«Non mi piacciono neanche le soste nei bar. Oddio, in certi periodi le ammetto, ma quando si lavora, niente soste. Si fa una ricca colazione, ci s’imbottisce di panini, e se si deve pedalare quattro ore, sono quattro, non tre e trequarti».
Ha mai avuto un modello?
«Dicevano che pedalassi come Indurain. Così mi è rimasto quell’esempio. Però non ho mai avuto l’onore di conoscerlo personalmente».
Altri modelli?
«Per classe ed eleganza, Pozzato. Gliel’ho detto: qualsiasi sport avessi fatto, saresti diventato un campione. Si è messo a ridere. ma con classe ed eleganza. Per simpatia, una bella lotta: Trenti, Paolini, Andriotto... Per generosità, anche lì ce ne sarebbe: dico Noè».
Lei è all’università del ciclismo, e sta imparando. Ma ha anche sfiorato una vittoria.
«In Lussemburgo. Rinvenivo da dietro, al doppio degli altri, ma ai 150 metri mi hanno stretto, ho dovuto frenare, sono ripartito, ho fatto terzo. Allo svedese che ha vinto ho giurato che, la prossima volta, andrò diritto, a costo di finire a terra tutti e due. Lui si è messo a ridere, poi mi ha chiesto scusa. Ma nel ciclismo conta solo chi vince».
Ne è sicuro?
«Conta solo forse no, conta molto sì. Fra il primo e il secondo posto, in mezzo, ce ne sono altri 10. Fra primo e secondo, preferisco arrivare terzo».