Pietropolli, ciclista nel Dna
Dai genitori alla sorella, al cognato, tutti in famiglia hanno pedalato: Daniele è salito in bici a 5 anni e non è più sceso. Però insegue ancora la prima vittoria da pro. Ecco perché
Daniele Pietropolli (a sinistra) sul podio del Gp di Larciano 2006, al fianco di Damiano Cunego.
Daniele Pietropolli (a sinistra) sul podio del Gp di Larciano 2006, al fianco di Damiano Cunego.
MILANO, 10 dicembre 2006 - Papà corridore: fino a dilettante. Mamma corridore: Udace, campionessa italiana su strada e in pista. Sorella corridore: un anno da professionista, poi ha conosciuto il futuro marito, e allora cicloamatore. Cognato: cicloamatore. C’è solo da chiedersi perché Daniele Pietropolli, con tanto di papà mamma sorella e cognato malati di ciclismo, abbia aspettato fino ai cinque anni prima di salire sulla bicicletta. «Ma da quel giorno — giura — non ne sono più sceso».
Quattro anni da professionista, vittorie zero.
«Quest’anno ci sono andato vicino tre volte: due nel Tour de Lorraine, in Francia, una a Larciano, al Gran premio Industria e Artigianato».
La prima?
«Secondo nella tappa di salita dietro al colombiano Soler. Quella corsa non l’ho persa, ma non l’ho neanche vinta».
La seconda?
«Persa, perché in fuga con tre scalatori, temporale, nubifragio, a 3 chilometri dall’arrivo c’è una curva, io cerco di curvare, niente da fare, sarà per le ruote in carbonio, cerco almeno di frenare, niente da fare, metto giù i piedi e vado diritto, mi rimetto in sella, inseguo, arrivo a 20 metri, peccato».
La terza?
«A Larciano: rimango chiuso ai 300, mi dico "o parto adesso o rimango qui", parto, lungo, l’arrivo è anche in leggera salita, Cunego scatta ai 200, mi passa e mi batte per pochi centimetri».
E gli anni precedenti?
«Il 2003 era l’anno dell’esordio: più che guardare e imparare, non potevo fare. Nel 2004 mi sono affidato e fidato di un dietologo, mi allenavo e mangiavo insalata, ho perso 13 chili, ero pelle e ossa ma niente più muscoli, alla fine non riuscivo a salire neanche i gradini di casa. Nel 2005 ho avuto un incidente e sono rimasto fermo sei mesi. Insomma, questo è stato il primo vero anno da professionista».
Se non fosse diventato corridore?
«Ho fatto tre anni di medie superiori, ho la qualifica di motorista. Motorista è il meccanico dei motori».
Com’è il suo motore?
«In teoria è buono. Mi definisco un corridore completo. In salita mi difendo, in volata me la cavo. Prediligo i percorsi medio-duri. Ho fatto un rodaggio lungo, il motore non ho potuto ancora sfruttarlo. Ci vuole anche un po’ di fortuna».
Per esempio?
«Quest’anno ho fatto il Giro delle Fiandre. Mi sono emozionato. Alla firma del foglio di partenza la piazza principale di Bruges era invasa dalla gente. E pioveva che Dio la mandava. Quando cominciano a chiederti una foto o l’autografo, mi vengono i brividi. Poi la corsa. In squadra avevamo Baldato e Petito, che al Nord hanno scritto pagine di storia. Io dovevo rimanere vicino a loro. Invece, al terzo o quarto muro, siccome mi sentivo bene, mi sono un po’ rilassato, e sono scivolato a metà gruppo. Davanti a me due corridori si sono arrotati. Ho dovuto fermarmi. E lì ho perso un minuto e mezzo».
Poi?
«Ho inseguito e recuperato, finché su un muro, come tutti, ho dovuto mettere i piedi a terra. Fine della corsa. Sono arrivato fino in fondo, settantesimo o giù di lì, ma senza storia. Tornare in Belgio sarebbe proprio bello».
Invece?
«Per partecipare alle corse ProTour, la mia squadra dev’essere invitata. Sugli inviti non si può contare, solo sperare. Spero di correre Sanremo, Fiandre, Liegi, Giro. Mi piacerebbe correre anche la Roubaix, ma con i miei 64 chili sul pavè rimbalzerei».
Pietropolli, ci vogliono più gambe o testa?
«Gambe e testa, ma la testa conta l’80 per cento. Il ciclismo è passione e sacrificio, divertimento e fatica, è soffrire con felicità. O soffri o sali in ammiraglia. Ma se sali spesso in ammiraglia, l’anno dopo ti lasciano a piedi».
E quando è a piedi, che cosa fa?
«Vado al cinema. Una volta la settimana».