QUINTANA. «Fatica, dedizione e sacrificio per il Tour»

PROFESSIONISTI | 22/02/2015 | 07:38
«Se nella mia infanzia avessi avuto tutto, non sarei qui». È questa la chiave della forza di Nairo Quin­tana, vincitore del Giro d’Italia 2014, pelle tostata dal sole e gambe veloci, tra i pretendenti più attesi del Tour de France 2015. Ha fame, voglia di arrivare e non teme la sofferenza. L’arma segreta di Negrito, così lo chiamano in famiglia, quella che sfodererà sulle montagne per tenere testa ai già af­fermati Alberto Contador, Chris Froo­me e Vincenzo Nibali sarà proprio questa: la capacità di soffrire.

So che non ti piace passare per il poverello che arriva da Combita, quindi come vuoi essere presentato?
«Sei ben informata, preferisco essere giudicato per quello che sono e quello che sto facendo. Sicuramente ho vissuto un’infanzia diversa rispetto a gran parte dei corridori con cui condivido il gruppo (ha sofferto in tenera età, rischiando la morte, del Tentado del Difunto: chi vi sopravvive, gli antichi inca dicevano, è destinato a fare grandi cose, ndr) ma la mia famiglia commerciava frutta e verdura, non ci è mai mancato da mangiare. Avevamo un orto, lavoravamo la ter­ra e avevamo anche un piccolo negozio in cui vendevamo riso e pollo. Per alcuni è scandaloso vedere un bambino la­vo­rare nei campi, ma da noi è normale che i figli, finita la scuola, aiutino in ca­sa. Non avevamo soldi per darci al lus­so, ma il necessario c’è sempre stato e un tetto sulla testa non è mai mancato. Ok, una volta mangiavo da un piatto co­mune con tutta l’altra gente nei campi, mentre ora sono invitato a pranzo dal presidente Juan Ma­nuel Santos, ma non sono cambiato e non dimentico».

Sei molto legato alla tua famiglia.
«Già. Devo tutto ai miei genitori Eloisa e Luis e non posso fare a meno dei miei fratelli Dayer e Willington Alfredo e del­le mie sorelle Nelly Esperanza e La­dy Jazmin. Siamo cresciuti in una ca­sa az­zurra su due piani a Combita. Ri­cordo le gite per la cordigliera del­le Ande con un camioncino in cui stavamo tutti: fratelli, sorelle, cugini, zii e vicini di casa, con galline e verdure e i bagni al fiume. Ho avuto un’infanzia felice anche se per certi aspetti dura. Come quando per andare a scuola non c’erano i soldi per il pullman per tutti. Mio padre ci teneva che tutti e cinque i figli studiassero, a costo di ri­nunciare a qualche comodità, come il pullmino che ci portava a scuola. Toccò a me, perché ero il maggiore dei figli maschi. Ogni giorno dovevo percorrere 17 km sterrati per raggiungere l’istituto Alejandro Hum­­bolt de Arcabugo a Barragan e altrettanti al ritorno. Anche se sapevo già guidare, a soli 14 anni non potevo usa­re l’auto, così la soluzione fu la bici, che comprai con i soldi guadagnati producendo e vendendo il miele con papà e nel periodo trascorso come tassista abu­sivo, di notte con mio fratello. Co­stò 30 dollari, era di ferro, pesantissima, ufficialmente di seconda mano, ma chissà per quante mani in realtà era passata».

Allenamento forzato.
«Per me era come una cronometro: il bus su cui sedevano i miei fratelli impiegava 15’, io in bici 45’, sempre se non foravo o avevo altri intoppi, come quella volta che un camion mi trascinò fuori strada e mi dovettero portare all’ospedale d’urgenza. Ad ogni modo, ogni giorno dovevo scalare l’Alto del Chote, una salita all’8% con le ciabattine e lo zaino pieno di libri sulle spalle. No­no­stante la fatica, quella sfida iniziò a piacermi e mia sorella Lady, che mi vedeva così entusiasta, qualche volta venne con me perché ad andare sul bus si annoiava. Un giorno ci potemmo permettere una bicicletta anche per lei: per fare più in fretta  però, in salita la legavo con una corda a me. La prima volta che in­contrai un gruppo di ciclisti veri, riuscii a tener loro testa, così in cima alla salita pensai: li batterò tutti. Chiesi a mio pa­dre di poter correre, la mia prima bici da corsa comprata con i risparmi di mio padre e di mia sorella maggiore, costò 270.000 pesos. Anche questa era un fer­ro vecchio, un modello che aveva al­me­no 40 an­ni, ma che pesava la metà della mountainbike che avevo usato fino ad allora. La prima gara è stata una sfida con El Pistolas, figlio del padrone del supermercato del paese, 32 km fino all’Alto de Sota e ritorno, vinsi e mi guadagnai così i soldi per il mio primo casco, che da lì a poco mi sarebbe servito per correre».

Così sei arrivato al primo ingaggio.
«Fernando Florez, direttore di Inde­portes, istituzione politica che appoggiava gli sportivi, mi sottopose al mio primo test con Vincente Belda, ds del team Boyaca es para Vivirla, nuova formazione Continental sbarcata in Euro­pa. Risultato 420 watt contro i 370 dei miei pari età, meglio di un corridore pro­fessionista. Da lì mi diedero bici in carbonio Orbea e piano di allenamento. Ricordo come fosse ieri il primo test da professionista con i medici della Mo­vi­star: dissero che quei valori da superdotato erano certamente frutto di un errore della strumentazione. Il ci­clo­er­go­metro segnava 7 watt per kg, mentre un ciclista normale sta fra i 5 e i 6. Mi fecero ripetere il test tre volte, dopodiché esclamarono: “questo bisogna farlo firmare subito”».

Cosa è cambiato in questi tre anni che sei nel ciclismo europeo?
«Molto, ho accumulato tanta esperienza. Prima sapevo solo andare in bici, ora mi so gestire, so guidare i miei com­pagni anche senza radio, so cosa vuol dire la parola strategia. Da Val­verde ho imparato, tanto dalle cose buone che ha realizzato quanto dagli errori che ha com­messo. Ho appreso come essere lea­der, dove bisogna attaccare, quando cambiare la bici o meno e a non spendere energie inutilmente prima di una giornata impegnativa. Da bambino so­gnavo di diventare ciclista, ho fatto le cose passo a passo, ho raggiunto gli obiettivi che mi ero prefissato un po’ per volta. A 19 anni avevo detto ai miei compagni che avrei vinto il Tour o una tappa nei Grandi Giri, ridevano ma un po’ alla volta sto realizzando i miei so­gni. Il cambiamento dalla Colombia alla Spagna è stato grande, ma pian piano mi ci sono abituato. Sono cresciuto sapendo che in qualunque angolo della città c’era un negozio per comprare frut­ta, verdura, batterie per la radio e qualsiasi altra cosa servisse. A Pam­plona ho imparato a prendere la macchina o chiamare un taxi per andare fi­no al centro commerciale».

Ti piace il soprannome Condor?

«Sì, perché è un uccello molto bello che appare nello stemma della Colom­bia. Vola nei cieli di Boyaca, su tutte le montagne. Non so se la gente la vede così, ma io gli do questo significato».

E la salita?
«L’allegria, l’emozione, il terreno dove mi sento meglio e a volte vinco (sorride, ndr). In gara non puoi godertela, ma in allenamento puoi ammirare paesaggi ma­gnifici. Amo allenarmi a Boyaca, nel­la mia regione, sulle mie strade. In tanti vanno in ritiro sul Teide ma io sono na­to e cresciuto alla stessa quota e non cam­bierei la mia terra con nessun’altra. Ho avuto la fortuna di conoscere tanti paesi, ma sono follemente innamorato del mio. Uno che vorrei visitare è l’Egit­to, mi sembra inte­ressante perché totalmente diverso alle zone a cui sono abituato».

Dell’Italia cosa ti è piaciuto?
«Durante il Giro ho ammirato le vostre montagne, la natura, paesaggi spettacolari, l’affetto della gente che mi ha so­stenuto e trasmesso energia. Gli italiani sono stati molto carini con me, la lo­ro passione per il ciclismo, come vivono il Giro è ciò che lo rende spettacolare».

Cosa ti è rimasto della vittoria del Giro?
«Conquistare la maglia rosa è stata la gioia più grande della mia carriera. Vin­cerla è stata una grande emozione per me, la mia famiglia, la mia gente. Ho coronato il sogno di vincere una grande corsa a tappe e mi ha reso enormemente felice vedere tante persone sinceramente contente per me. Un sogno che dopo il secondo posto al Tour 2013 sentivo più vicino, ma non era scontato. Non è stato facile».

Se non avessi fatto il ciclista...?
«Avrei proseguito gli studi, probabilmente in qualcosa legato allo sport o al giornalismo che mi è sempre interessato».

Come trascorri il tempo libero?
«Nel tempo libero mi piace stare con gli amici e con la mia famiglia. Sono spesso via da casa, così quando torno dalle ga­re voglio stare tranquillo con Paola, la mia compagna, e la nostra piccola Ma­ria­na, di cui sono molto innamorato. Mi diverto a girare in macchina e a fare co­se semplici. Quando sono in Colombia mi piace stare nei campi e occuparmi degli animali, ne abbiamo di ogni: cani, gatti, tacchini, galline, conigli, vacche e maiali. Altri sport che mi appassionano? Seguo il pattinaggio, che è mol­to popolare in Colombia perché al mo­mento abbiamo atleti molto validi, e un po’ il calcio».

Cosa ti piace mangiare?
«La carne alla brace e i piatti tipici di dove sono cresciuto, davvero saporiti e salutari. Adoro il sancocho, la zuppa che mi fa mia madre a base di brodo di gallina allevate da noi, al naturale. Per quanto riguarda il bere, non resisto al vino rosso. Ai fornelli me la cavo, sono bravo a fare i risotti».

Che rapporto hai con i compagni italiani Capecchi, Malori e Visconti?
«Buonissimo, tutti e tre sono corridori che in gara mi hanno sempre aiutato e io quando ho potuto ho contraccambiato».

Sei credente?
«Sì, ma non sono uno di quelli che va in chiesa ogni domenica. Mi faccio il se­gno della croce a ogni partenza e prego Dio perché mi protegga e mi guidi».

Prima volta al Tour nel 2013: secondo. Pri­ma volta al Giro nel 2014: primo. Ti sen­ti un fenomeno?

«No, non vengo da un altro mondo e sono un essere umano anche io. Anche a me viene il mal di gambe, solo che forse riesco a gestirlo meglio di altri. So­no uno scalatore e in più occasioni mi è andata bene, ma esistono corridori più maturi di me e superarli non sarà mai facile. Dovrò continuare a lavorare ogni giorno. Il ciclismo pretende se­rie­tà, non ammette leggerezze».

Ti piace o ti pesa la popolarità?
«Non posso dirti che mi disgusta ma nemmeno che mi fa impazzire di gioia. Essere famoso è una responsabilità e spesso è faticoso, ma cerco di gestire al meglio il rapporto con i fans e i media. L’importante è tenere i piedi a terra, at­torniarsi delle persone fidate, seguire i loro consigli e a volte vivere alla giornata».

Quattro anni fa non eri nessuno, ora sei un campione. Come hai fatto?
«La natura è stata generosa e mi ha aiutato. Poi sono diventato professionista nella squadra giusta e ho trovato un professore che ha insegnato a molti corridori diventati campioni, Eusebio Un­zue. E quando si hanno gambe buone, tutto diventa più semplice».

Dove passi la maggior parte dell’anno?
«Vivo a Monaco, ma appena posso tor­no a casa. In base alle corse e al periodo della stagione passo un paio di mesi di qua e uno di là. Anche se in Sud Ame­ri­ca sono molto popolare, riesco ad allenarmi abbastanza tranquillamente. La gente capisce che mentre ti stai allenando non puoi fermarti a firmare autografi e fare foto. Prima di una serie di gare torno generalmente a casa per allenarmi in altura, in Colombia io vivo a 1.800 metri sul livello del mare, i miei genitori a 3.100 metri. Tornare a Combita è l’ideale sia per stare con i miei affetti che per il mio lavoro».

Il ciclismo colombiano è sempre più un punto di riferimento a livello mondiale.
«Già due anni fa, con il secondo posto di Uran al Giro e il mio al Tour, avevamo fatto vedere di esserci. Nel 2014 ci siamo superati dimostrando anche ai più scettici il vero valore delle nuove generazioni del ciclismo colombiano. Dietro di noi ci sono molti giovani promettenti, che si faranno onore nelle cor­se europee. Quest’anno siamo in 16 nel World Tour, ognuno di noi ha seguito il proprio cammino, e ha lottato per arrivare fin qui. Da piccolo non seguivo il ciclismo, ma Lucho Herrera e Fabio Par­ra erano molto conosciuti e sono sta­ti una fonte di ispirazione per me. Di idolo però ne ho uno solo: mio padre, che ha affrontato 14 operazioni da quando aveva 7 anni e il camion su cui era si ribaltò cadendogli addosso e le­sionandogli il midollo spinale, ha lottato con coraggio e dopo anni in cui è sta­to impossibilitato a muoversi ora cammina con un bastone. Mi ha insegnato a lottare per quello in cui credo, a soffrire per raggiungere un traguardo, e infine che le cose si ottengono con fatica e lavoro».

Hai deciso di non tornare in Italia per di­fendere il titolo vinto un anno fa, come mai?
«Rinunciare al Tour lo scorso anno è stata una decisione difficile non solo per me ma anche per tutto il team. Ma è stata la decisione migliore perché il Gi­ro mi ha insegnato a correre da ma­lato, a correre in condizioni difficili, a correre guidando una squadra e indossando il simbolo del primato, ma ora devo tornare alla Grande Boucle per dimostrare di essere in grado di salire sul gradino più alto. Se devo esprimere un desiderio, ora come ora è vincere la maglia gialla».

Come ti ci stai avvicinando?
«In inverno ho lavorato bene in palestra e piscina, poi ho usato più spesso la bici da cronometro. Nel mio calendario ho inserito due classiche come Harelbeke e Gand-Wevelgem, che affronterò con lo stesso gruppo che mi scorterà alla Grande Boucle per prendere confidenza con il pavè, che rispetto ma non te­mo. Non mi spaventa perché tutti lo do­vranno affrontare, non solo io. Ad ogni modo visionerò il percorso attentamente. Con otto finali in salita e soli 14 chilometri di crono individuale, sembra proprio adatto a me. Io farò la Tir­reno-Adriatico dall’11 al 17 marzo e an­cora la Vuelta al País Vasco dal 6 all’11 aprile, decideremo l’eventuale partecipazione a qualche classica delle Ar­den­ne. A seguire uno stacco e il Giro di Sviz­zera a giugno prima di affrontare il Tour. È un calendario molto equilibrato, disegnato pensando al Tour de Fran­ce».

Alla Tirreno-Adriatico vi ritroverete per la prima volta in gara assieme: tu, Contador, Froome e Nibali, sarà un test importante.
«Io lavoro solo in funzione del Tour, ma se mi troverò nelle condizioni di attaccare e vincere non mi tirerò indietro. Sarà un momento importante, da gennaio all’ultima corsa dell’anno mi impegno al massimo, ma senza perdere di vista il mio obiettivo principale. Mi sono già messo alla prova con loro, a volte ho vin­to, a volte ho perso. I risultati mi dan­no fiducia: sarò della partita, non so se vincerò, di certo non sarà facile. Avremo il miglior team possibile, ho fi­ducia nei miei compagni, per questo sono tranquillo. Tra tutti il rivale più temibile credo sia Contador, ma anche Ni­bali e Froome saranno da tenere d’oc­chio. La mia arma per batterli? La mia squadra, non solo per il Tour. I mio terreno è la salita, ma anche il loro. Nelle tre settimane farà la differenza la capacità di soffrire».

Facciamo una scommessa: chi vince i tre Grandi Giri del 2015?
«Dovrebbe dirtelo un altro, perché io ci sono in mezzo ma sto al gioco e ti dico che come mio successore al Giro d’Ita­lia vedo favorito Alberto Conta­dor, il Tour de France lo voglio io e la Vuelta a España possiamo lasciarla al mio compagno Alejandro Valverde».

Giulia De Maio, da tuttoBICI di febbraio
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