Edoardo Zardini, 24 anni. Bettini

Edoardo Zardini, 24 anni. Bettini

Marano di Valpolicella produce vini e corridori. A grappoli: Amarone e Recioto, rossi. A ruote: Davide Formolo e Edoardo Zardini, azzurri. Zardini, 24 anni, scalatore, due anni da professionista, due vittorie – nel 2014 – in una tappa al Giro del Trentino e in un’altra al Tour of Britain.
Zardini, le prime tre cose che le vengono in mente alla parola ciclismo?
"Vittorie, Giro d’Italia-Tour de France, grandi salite. E "la" salita, per me, è lo Stelvio. Da zero a 12 anni, ogni anno, una settimana in vacanza, andavo a Prato allo Stelvio con la mia famiglia e un gruppo di camperisti, fra cui molti cicloamatori. Anche mio padre. Quando ho avuto una mountain bike, ho cominciato a guardare quella strada che saliva verso il Passo. Ogni chilometro era esplorazione, ogni tornante avventura. Leggevo le scritte "Pirata" più o meno scolorite, trovavo bandane più o meno invecchiate. Finché un giorno sono arrivato in cima. La stele di Coppi, un panino con il wurstel e giù dalla parte svizzera per tornare, via Glorenza, a Prato allo Stelvio".
E le prime tre cose legate alla parola bicicletta?
"Libertà, leggerezza, fatica. La mia prima bici da corsa a 14 anni, poi non l’ho più lasciata. La bici è regola, disciplina, adesso anche lavoro. È piacere e sacrifici. Sacrifici piacevoli, perché si fanno volentieri e consapevolmente. I veri sacrifici li fa chi si alza alle 5 di mattina per andare in fabbrica a 1200 euro al mese. Io sono un privilegiato: faccio una vita sana, giro il mondo, sono perfino conosciuto, guadagno soldi. I miei sacrifici sono fatiche e rinunce".
Le pesano?
"Più le rinunce. Ma sono soltanto rinunce alimentari. Certo, non vedi l’ora che finisca la stagione per premiarti con una pizza o concederti un gelato. Ma stravizi, zero. Il nostro corpo ormai è come un orologio, a volte basta un sugo per stonare, o una fetta di torta per spingere, il giorno dopo, a smaltire tutto a pedali".
Lei è entrato in questo mondo in punta di piedi, anzi, di pedali.
"La gara d’esordio al Trofeo Laigueglia 2013. Primo Pozzato, io arrivato, ma cotto, finito. Mi ripetevo: ma quanto vanno. Forte, intendevo. Quando aprivano il gas, decollavano. Ci è voluto molto tempo, e ci sono state anche molte domande e dubbi, per abituarmi a quei ritmi. Mi chiedevo se in quel mondo ci potessi stare. E ho dovuto imparare a sentire, ascoltare, capire, lavorare, soffrire, migliorare. È che, a forza di allenamenti, corse, corse di lunga durata e distanza, cambia il motore. E a fare la vita da atleta, emergono i valori. Poi ci vuole la testa. E poi ci vuole anche un risultato a sbloccare".
La tappa al Giro del Trentino?
"Sì. Poi, al Giro, il quinto posto al Rifugio Panarotta e la fuga sullo Zoncolan. Poi, dopo il campionato italiano, un’estate in cui ho ricominciato la preparazione come se fosse un nuovo anno: fondo, tabella, lavori, 15 giorni di altitudine sul Fedaia al Rifugio Dolomia, e il ritorno alle corse. Al Tour of Britain, finale a due, in salita, con Nicholas Roche: ero a tutta, ma stavo bene, ho provato a staccarlo, ce l’ho fatta. Però ad aprirmi la porta della Nazionale è stata la Tre Valli Varesine: non per una iniziativa personale, ma per il lavoro da gregario per Sonny Colbrelli".
Zardini, la sua è una terra di ciclisti?
"Abito su una collina. Uscito di casa, cinque km di discesa. Significa che ogni volta che torno a casa, quei cinque km li devo salire. Sarà per quello che sono scalatore. D’estate verso le montagne, d’inverno verso il Lago di Garda. Da solo o in gruppo. Niente cuffie: mi piace guardare, osservare, ascoltare la strada. E torno sempre più leggero di quando sono uscito. Perché in bici i problemi si dimezzano, le preoccupazioni si trasformano in pensieri, e i pensieri in idee e voglie".
E il giorno della corsa?
"Sento la tensione giusta, quella che carica, non che annienta. Detesto la fretta, non voglio fare le cose di corsa, di corsa mi basta quella in bici. Comincio a prepararmi la sera della vigilia, a partire dal dorsale da attaccare alla maglia. La mattina scendo presto a fare colazione, mi godo il caffè, seguo il rituale della pasta con i bianchi d’uovo, dei cereali, delle fette biscottate con il miele, del prosciutto, mi piace condividere quei momenti con i compagni di squadra".
E se stavolta non dovesse correre?
"Sognavo la Nazionale, perché sognare non è vietato. Ma la convocazione è stata una sorpresa, un regalo, un’opportunità. Certo, meglio correre che guardare. Ma esserci è già tanto".