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Il ciclismo di Trentin
Professione e passione

Il ritratto del gregario della Saunier Duval, nel gruppo da dieci anni. "Mi alzo con la voglia di andare in bici, lo considero un dovere morale. In Mali, tra bambini che non hanno niente, ho capito il valore di un sorriso"

Guido Trentin in Mali, dove la Saunier Duval ha lanciato l'iniziativa Un milione di alberi. Galli
Guido Trentin in Mali, dove la Saunier Duval ha lanciato l'iniziativa Un milione di alberi. Galli
MILANO, 4 novembre 2007 - La bici come un regalo, di più, un’eredità, di più, un vincolo di sangue. Il ciclismo trasmesso da suo padre, dilettante, e adesso silenziosamente mostrato a suo figlio. Guido Trentin, 31 anni, quasi 32, e già 10 pedalati fra i primi della classe. Uno di quelli per cui professione fa rima con passione.
- Per esempio?
"Prima corsa dell’anno in Mali. Gennaio. Sinceramente: non avevo voglia di andare. Il viaggio, le vaccinazioni, i rischi legati al mangiare e al bere, e anche al dormire se pensi alle zanzare. Ma quando sono sceso dall’aereo, a Bamako, ho capito che avevo fatto la cosa giusta".
- Perché?
"La mia squadra, la Saunier Duval, aveva lanciato l’iniziativa "Un milione di alberi per il Mali". Un albero per ogni chilometro fatto in corsa, moltiplicato per due se il chilometro era in fuga, moltiplicato per cinque se la corsa si era conclusa con una vittoria. Allora il viaggio in Mali per parlare con la gente, vedere i luoghi dove sarebbero stati piantati gli alberi, partecipare a una garetta".
- Com’è andata?
"Una quindicina di corridori locali, più sette della Saunier Duval. Mi sono messo in testa a tirare, a un’andatura adatta anche ai maliani, ragazzi atleticamente forti, ma digiuni di ciclismo e con dei mezzi che in Italia non hanno neanche i cicloamatori. Poi fuga a due, uno dei nostri e uno dei loro, e vittoria per tutti e due, abbracciati".
- Bello, no?
"Ma questo è niente. Io sono rimasto colpito dagli incontri nelle scuole. Bambine e bambini che non hanno niente. Zero di zero. Neanche penne o matite, quaderni o libri. Poco da mangiare. Pochissimo da indossare. Certi villaggi possono considerarsi fortunati, o all’avanguardia, solo perché dispongono di un pozzo per l’acqua".
- E allora?
"Tornato a casa, ho cercato di far capire ai miei due bambini che conta di più un sorriso di una macchinina, più uno sguardo di un ovetto. Che bisogna accontentarsi. Che quello che noi buttiamo via, per loro vale come una vittoria alla lotteria".
- La stagione, per così dire, regolare?
"Una protrusione disco-lombare, che m’infiammava il nervo sciatico, mi ha costretto a saltare il Giro d’Italia. Ho dovuto rincorrere la forma. Così niente Tour e niente Vuelta. Un peccato, perché la mia specialità sono proprio i grandi giri. Non sono uno scalatore puro, non sono un passista puro, non sono neanche velocista, però vado dappertutto, e il mio forte è la resistenza, il fondo. Mi piace fare fatica, aiutare, tirare. Poi mi faccio da parte".
- Giorni di corsa?
Settanta, pochi rispetto ai miei soliti 85-100. Ho chiuso con il Lombardia. Per la prima volta ho corso, oltre al Giro della Georgia, anche quello del Missouri. Oggi il livello tecnico delle corse è lo stesso in tutto il mondo, anche perché partecipano le squadre del ProTour. Ma il contesto, l’ambiente, l’atmosfera sono diversi. In Europa la corsa vive per se stessa, come evento agonistico. Negli Stati Uniti, ma anche in Australia o in Argentina, la corsa è il momento più spettacolare di una festa, che comprende anche sagra, mercato, fiera, magari concerti o fuochi artificiali".
- E l’organizzazione?
"Più semplice. Mi è sembrato quasi di tornare indietro nel tempo, quando correvo come esordiente o allievo. Niente camper con cucina e docce, ma cambiarsi in macchina, con la gente che ti sta addosso, che ti parla, ti chiede, ti riconosce. Questo contatto diretto fra corridori e tifosi fa la differenza rispetto agli altri sport".
- Adesso?
"Continuo a pedalare. Abito al confine con la Svizzera, questa è una zona meravigliosa. Durante l’anno, impegnato a tenere certi ritmi o a fare le ripetute, guardo solo asfalto e computerino. Adesso invece mi guardo in giro, e mi godo colori e suoni e profumi della natura".
- Solo bici?
"Ho appena finito di tagliare il prato di casa: un bell’allenamento. Poi farò anche mountain bike, palestra, piscina, camminate in montagna e corsa a piedi. Un mio amico mi ha proposto di correre la Maratona di New York. Gli ho detto di sì, ma solo a carriera conclusa. Mi alzo dal letto con la voglia di andare in bici, una sorta di bisogno fisico e dovere morale. Ancora due o tre anni ad alto livello vorrei farli. Il migliore Guido Trentin non è ancora riuscito a esprimersi".

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