Millar: "Più stanco ma più felice"
Lo scozzese è tornato alle corse dopo 2 anni di squalifica per doping: "Senza Epo faccio più fatica a recuperare ma la testa è libera. Mi sono assunto le mie responsabilità e non me ne pento"
David Millar al Tour de France. Bettini
David Millar al Tour de France. Bettini

MILANO, 1 agosto 2006 - Cinquantanovesimo al Tour (a più di 2 ore da Floyd Landis), trentasettesimo ad Amburgo (in gruppo, a 3" da Oscar Freire): David Millar è tornato. E, a suo modo, è tornato a vincere. Perché dopo aver confessato l’uso di Epo, e dopo aver scontato due anni di squalifica, adesso lo scozzese — un ragazzo di 29 anni, alto (1,91) e magro (77 kg) — corre a pane e acqua. «Nel ciclismo si è arrivati a un punto di non ritorno: o si cambia o si chiude». Confessa: «Adesso la notte finalmente riesco a dormire». E avverte: «Non si può vivere felici e dopati».
Millar, come va?

«Benone. Stanco morto. A casa. Reduce dalla Classica di Amburgo. Trentasettesimo. In gruppo. Oggi niente allenamento. Da domani si ricomincia. E il 12 agosto corro a San Sebastian».
Com’è andato il suo Tour de France da pulito?
«Venivo da due anni senza corse, e questa inattività, comunque, la paghi. Quando ho cominciato il Tour, non potevo essere al 100 per cento, ma la condizione di base era migliore. Speravo di fare un bel tempo nel cronoprologo, la mia specialità, invece sono arrivato 17°, a 14" (in 7,1 km, ndr) da Hushovd. La prima settimana non andavo neanche a spinta. La seconda settimana è stata dura. La terza, finalmente, è andata meglio, il mio corpo si è adattato alla fatica e ai ritmi della corsa. Finito il Tour, e tornato a casa, ero distrutto: ho vagato quattro giorni, stanco e malato, tra letto e divano».
Ha notato differenze di rendimento fra il periodo in cui si dopava e quello in cui andava «a pane e acqua»?
«Senza doping, cioè senza Epo, faccio molta più fatica a recuperare. Durante il Tour ho provato un sacco di volte a entrare in una fuga ma, fatto uno scatto, mi sentivo completamente svuotato, senza più energie per riprovarci. Però, quello che ho perso fisicamente, l’ho compensato mentalmente, psicologicamente. Perché se le gambe non rispondono più come prima, la testa è libera. Tutto è più chiaro, più limpido, più trasparente. Adesso non devo dire più bugie. Era diventato un incubo. Un peso. Insopportabile. Non riuscivo più neanche a dormire la notte. Mi sono assunto le mie responsabilità, ho pagato con due anni di squalifica, e non me ne pento».
Com’è stato accolto dal gruppo?
«Non mi aspettavo nulla. Invece ho avuto segni di stima e rispetto. Anche dei semplici "bentornato". Perfino i francesi mi hanno accolto bene. Se qualcuno ce l’aveva con me, non me l’ha detto. E i compagni di squadra sono stati grandi: comprensivi, affettuosi».
E lei, come ha trovato il gruppo?
«In due anni molte cose sono cambiate. Prima c’era Lance Armstrong, e la corsa era impostata e controllata dalla sua squadra. Stavolta c’era più anarchia. Meglio così. Una corsa più divertente, più aperta. Mi sembra anche che i corridori siano più corretti».
Eppure è scoppiato il caso-Landis.
«E’ stato uno choc. Non ci credevo, non ci potevo credere, non ci volevo credere. Mi dispiace molto. Aspettiamo il verdetto definitivo. Ma se veramente Landis si è dopato, è stato uno stupido. Il testosterone è un doping antico, e si rintraccia facilmente, ed è questo che fa sembrare la vicenda strana, se non incredibile. E’ possibile che esista un piccolo margine di errore. E se penso alla sua famiglia, a quanto sia seria, rigorosa, tradizionalista...».
La prestazione di Landis a Morzine non era sospetta?
«E’ stata una prestazione speciale. Super. Sorprendente. Io sono arrivato trequarti d’ora dopo di lui. Ma ci poteva stare. Questi alti e bassi fanno pensare al ritorno di un ciclismo pulito, dove si alternano giornate sì a giornate no, stati di grazia a momenti di crisi e cotte».
Ma quando scopre di essere stato battuto da uno che si è dopato, come si sente? Arrabbiato? Derubato?
«Mi sento stupido. E disgustato. Così come si saranno sentiti stupidi e disgustati quelli che non si dopavano e che correvano contro di me quando invece ero io a doparmi. Chi si dopa è un piccolo uomo».
E il caso-Basso?
«Qui, di certo, non c’è nulla. Aspettiamo di vedere dove portano le indagini. Ma Basso è un’altra di quelle persone insospettabili. So che in Italia è stato un duro colpo: Ivan rappresentava l’immagine del nuovo ciclismo, del ciclismo pulito e vincente. Un ragazzo serio».
Simoni, suo compagno di squadra, ha mai commentato la vicenda?
«No. Gibo diceva di non voler più parlare di quello che era successo al Giro d’Italia, che aveva altro cui pensare, a cominciare dal Tour. Non era al 100 per cento, ci ha dato dentro, sperava di fare di più, avrebbe potuto anche fermarsi, invece è arrivato fino in fondo. Gibo è un duro, un grande, e merita rispetto».
Millar, si può essere felici e dopati?
«No. Io non lo ero. Ero dopato e preoccupato, dopato e angosciato, dopato e insonne».
Dopandosi, lei non ha mai avuto paura di farsi del male?
«No, perché non mi sono mai dopato troppo, e non ho mai corso rischi».
Qualche compagno, o tecnico, sapeva delle sue pratiche di doping?
«No. Sono cose che si fanno da soli, in segreto, in silenzio, di nascosto».
Nel ciclismo è indispensabile doparsi?
«No. Però è vero che il ciclismo è uno sport estremo, dove spesso ti spingi oltre i tuoi limiti. E non sai mai fin dove puoi spingerti. Vomito, diarrea, spossatezza. Ti viene la tentazione».
Un corridore che si dopa non si pone mai una questione morale?
«Credo di no. Chi si dopa cerca risultati, quindi gloria, fama, soldi. Ci si dopa per ambizione. Perché si pensa di farla franca. Perché si pensa che ci sia sempre qualcun altro che lo fa. Ma ci si può anche rifiutare di doparsi. Ci sono molti corridori che non si dopano, e che, finita la corsa, tornano a casa senza voler essere coinvolti in discussioni. Si accontentano — e non è poco — di fare i conti con la propria coscienza. Danno il massimo di se stessi, e questa è la loro vittoria».
Si può fare qualcosa per salvare il ciclismo?
«Si deve, altrimenti si rischia di intervenire troppo tardi, quando il ciclismo non sarà più malato, ma morto. I grandi corridori, i più forti, i primi della classifica, dovrebbero trovarsi, guardarsi negli occhi e parlarsi così: "Amiamo il nostro sport, e allora basta, giro di boa". Poi coinvolgere sponsor, Federazione internazionale, anche giornalisti. Fermarsi anche sei mesi prima di proporre, o imporre, regole e calendari. Questa generazione di corridori deve convincere la nuova generazione a credere nel ciclismo pulito. Perché il ciclismo è uno sport duro e meraviglioso. Ma ora, purtroppo, non si sta facendo nulla».


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