Loria, la Sanremo e l'Africa
"Grazie a Dio sognare sfugge ancora ai regolamenti dell’Uci. E io sogno di vincere a Sanremo. Il Giro del Senegal mi ha cambiato: torni a casa e comprendi il valore di un bicchiere d'acqua"
Domenico Loria, 26 anni, corre con la Universal Caffè-Ecopetrol
MILANO, 9 gennaio 2008 - "Pronto?". È Carube, cioè Roberto Lencioni, per anni meccanico di Mario Cipollini. "Vuoi fare il Giro del Senegal?". Domenico Loria non ha bisogno di consultare l’agenda, sa che tra la fine di agosto e i primi di settembre è libero o potrebbe liberarsi, così chiama Eugenio, suo fratello-gemello, e Ivan, De Nobile, altro suo compagno di squadra nella Universal Caffè. Il resto è solo una lotta contro il tempo. "Torno a casa, faccio la valigia, vado a prendere la bici, torno a casa, carico su tutto, di notte in macchina da Massa a Marsiglia, il giorno dopo in aereo a Dakar".
L'impatto?
"Un caldo soffocante, un’umidità appiccicosa, la gente addosso. Chi vende schede telefoniche, chi chiede soldi. Ci iscriviamo, torniamo in aeroporto, saltiamo su un altro aereo e atterriamo a Casablanca. Il giorno dopo si comincia: 55 iscritti, francesi, belgi, olandesi, senegalesi, marocchini, camerunesi e noi tre. Nove tappe, la prima da Casablanca a Rabat".
Risultato?
"Percorso piatto, vento forte. Rimaniamo in 14. Scatti, controscatti, volata: primo io, secondo Eugenio, decimo Ivan. Un trionfo. Indosso la maglia di leader, gialla, come quella del Tour de France. Poi il podio e le miss, nere, stupende".
Seconda tappa?
"Si girano le bici e si torna indietro, da Rabat a Casablanca. Percorso piatto, vento impressionante. Eugenio è tagliato fuori in un ventaglio. Rimaniamo in 11. Scatti, controscatti, volata: primo io, terzo Ivan. Si torna in Senegal. La terza tappa finisce con una volatona: primo Eugenio, secondo io. La quarta tappa si conclude con un gruppettino: primo Eugenio, secondo io, settimo Ivan".
Non è troppo?
"A questo punto ci riteniamo soddisfatti, ci basta vincere la classifica finale, vogliamo lasciare spazio agli altri. Il guaio è che non si riesce a farglielo capire: i francesi che parlano francese, i belgi che parlano fiammingo, gli olandesi che parlano chissà cosa, gli africani che hanno questa cantilena incomprensibile. Insomma, comincia la quinta tappa e tutti ci attaccano. Allora dichiariamo guerra. E vinco io".
Poi?
"Di notte il dramma. Vomito, diarrea, nausea, febbre. Per la fretta in Italia non avevo fatto vaccinazioni. La mattina arriva il medico: vuole farmi una puntura. Dico di no, ma mi tranquillizzano, mi convincono. Endovena. E svengo. Quando mi riprendo, salto in bici e vado alla partenza. Scatti, controscatti, a 30 chilometri dall’arrivo non ne ho più: vomito, mi accascio, mi ritiro. Anche Ivan. Eugenio tiene duro e alla fine è sesto nella generale".
Insomma?
"La corsa è folle: pronti via, chi più ne ha più ne metta, a costo di scoppiare dopo un paio di chilometri. Le bici, alcune belle, altre scandalose, i corridori ci chiedevano gomme, catene, tutto, bisognerebbe riempire un container di materiale anche usato e spedirlo giù. Rifornimenti a base di banane: ne ho mangiate più in una settimana là che in 26 anni qua. E pranzi in un piatto unico, con una specie di riso e una specie di carne. Non si capiva da dove venisse quella carne: gli animali che incrociavamo sulla strada erano secchi, più ossa che pelle. A volte la specie di carne era sostituita da una specie di pesce".
Ma l’esperienza?
"Magnifica. Un altro mondo. La gente vive nelle baracche, ma la savana ti rapisce la vista e i bambini ti sequestrano il cuore. Torni a casa e non sei più lo stesso: non dai più nulla per scontato, né un letto né un bicchiere d’acqua. Era la mia prima volta in Africa. E non la dimenticherò".
Lei come ha cominciato?
"Anche questo non dimenticherò. Avevo quattro anni e una biciclettina telaio 18 con i copertoncini stretti, invece gli altri bambini pedalavano su bici da cross con copertoni più larghi. Passano su una grata, io dietro, la mia ruota s’infila nella grata, la bici si blocca e mi lancia come una fionda. Una settimana d’ospedale e denti rotti".
Smesso?
"Macché, cominciato. Prima in Puglia, poi in Toscana. Fra i maestri anche Riccardo Magrini. Saltava i 10 comandamenti e arrivava subito all’undicesimo: "arrangiati". Ho avuto l’impressione che Magrini sia stato anche in Senegal: là arrangiarsi è il primo e unico comandamento. Scherzi a parte, Magrini mi ha insegnato tantissimo. Prima di conoscerlo ero un selvaggio: dopo le corse mangiavo pane, porchetta e ketchup, lui mi ha insegnato a nutrirmi di insalata. Dal punto di vista atletico un passo avanti, da quello gastronomico due o tre indietro".
Loria, che cosa chiede alla vita?
"Vincere la Milano-Sanremo, partecipare al Giro d’Italia. Lo so, questo si chiama sognare, e grazie a Dio sognare sfugge ancora ai regolamenti dell’Uci".