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Cortinovis tiene i piedi per terra

Il trentenne bergamasco lascia il gruppo dopo 8 anni di professionismo: "La decisione l'ho presa contro la mia volontà. L'unica proposta di lavoro me l'ha fatta mio suocero. Ora mi alleno di corsa: se riuscirò a fare la maratona di New York mi sentirò un eroe della resistenza"

Alessandro Cortinovis, 30 anni, professionista dal 1999. Reuters
Alessandro Cortinovis, 30 anni, professionista dal 1999. Reuters
MILANO, 27 novembre 2007 - Bici al chiodo: si fa per dire. Bici in garage. Alessandro Cortinovis non ci salirà più su, almeno non per guadagnarsi da vivere. Basta, stop, fine delle trasmissioni. E a questo punto della vita spera addirittura che nessuno lo cerchi più.
- Alessandro, perché?
"Sono fatto così: quando prendo una decisione, non voglio più tornarci su. E la decisione l’ho presa contro la mia volontà: se fosse stato per me, sarei andato avanti qualche altro anno. Invece l’unica proposta mi è arrivata da mio suocero: ha una piccola ditta di impianti elettrici, dove mia moglie Cinzia già si occupa della contabilità. Vieni a lavorare con noi?, mi ha chiesto. Gli ho risposto di sì, anzi, sì grazie".
- Eppure ha corso il 2007 in lungo e in largo.
"Cominciato in Qatar, poi Tirreno-Adriatico, Parigi-Roubaix, Fiandre e Gand-Wevelgem, Giro d’Italia, Tour de France e Eneco Tour. Il meglio forse al Giro, perché eravamo tutti concentrati per lavorare per Petacchi. Meno bene al Tour, perché senza Alessandro ci sentivamo disorientati".
- Il suo lavoro l’ha sempre fatto, e bene.
"Il mio lavoro non è — ormai dovrei dire: non era — vincere. Sono, ero, un gregario. Il mio compito: prendere le fughe e, in caso di altre energie, tirare anche nel finale. Come a Pinerolo, quando sono rimasto in testa fino a due chilometri dall’arrivo".
- E allora?
"Quando si trattava di tirare, ero portato a esempio. Poi, però, quando si è trattato di firmare, non ho più visto nessuno. Certo, la situazione della Milram è cambiata, tutto è passato dalle mani italiane a quelle tedesche. Un giorno ho chiamato il nostro team manager Stanga e gli ho ricordato che non avevo ancora firmato. Mi ha risposto che, se avesse potuto, avrebbe provato a parlarne. Troppo vago per regalarmi qualche speranza".
- Deluso?
"Non voglio fare polemiche. E’ andata così. Si vede che era destino. E non è detto che tutto il male venga per nuocere. Sono professionista dal 2000, e già tre anni fa, dopo la fusione fra Lampre e Saeco, mi sono trovato in difficoltà. Così sono andato alla Domina Vacanze, al minimo dello stipendio. Ma in quel momento potevo ancora scommettere sulla mia carriera, e rischiare. E mi è andata bene, perché poi ho fatto due anni alla Milram".
- Possibile che nessuno l’abbia cercata?
"L’unico contatto è stato con Stefano Zanatta, della Liquigas. Alla prima telefonata mi ha detto che avevano bisogno di gente esperta, di uomini-squadra. Alla seconda telefonata mi ha spiegato che il budget era ridotto, e che la società preferiva puntare su un giovane che non su un trentenne".
- Altre squadre?
"Un conto è la voglia di lottare per conquistare una grande corsa per un grande capitano, un conto è lottare in una corsa da... campanile sperando di avere lo stipendio a fine mese. Ho sempre corso per prendere soldi, non per portarli. A quanto si sente dire, c’è gente che passa professionista perché garantisce uno sponsor che copre le spese. O magari qualche figlio di un papà industriale che gli garantisce il posto in squadra. Che non trovo neanche così sbagliato. In fondo, gli dà la possibilità di provarci".
- Lei ha un procuratore?
"Ho sempre fatto da solo. Se avessi avuto un ingaggio da 300mila euro l’anno, un procuratore sarebbe stato utile se non indispensabile. Ma nel mio caso, sarebbero stati solo soldi regalati. E poi la gente che conta, sa che cosa vali. Senza bisogno che un procuratore dica quanto sei bravo".
- Otto anni di professionismo. Il momento più bello?
"Vivo di episodi, non di vittorie. Così la gioia di arrivare agli Champs Elysée al mio primo Tour de France. E la soddisfazione di entrare nel velodromo di Roubaix al mio primo "Inferno del Nord". E poi le vittorie di Petacchi e degli altri capitani".
- Il momento più vicino alla vittoria?
"Un secondo posto alla Corsa della Pace, anche un terzo. Ma nel ciclismo conta solo vincere. Il vincitore è ricordato, gli altri — al massimo — possono solo ricordare".
- Se un giorno suo figlio...
"Rocco ha 10 mesi: ci vorrà ancora un po’ prima che salga in bici. Ma io del ciclismo non posso che parlare bene. Il ciclismo mi ha insegnato a vivere secondo i principi della fatica e della sofferenza, mi ha reso indipendente di spirito e anche di testa, mi ha regalato la possibilità di girare il mondo. Ma il ciclismo è sport duro. Per saperne di più, non chiedetelo ai corridori: chiedetelo alle donne dei corridori. Vi racconteranno che anche quando piove o nevica, quando tira vento, quando i risultati non arrivano... Insomma, Rocco lo metterò in sella, ma non lo spingerò".
- In questi giorni, di solito, era già in allenamento. Adesso?
"Lo sono anche adesso. Non in bici, ma di corsa e a nuoto. Per tenermi in forma. Perché lo sport è anche un modo di vivere".
- Traguardi?
"Quando andavo alle medie, ero stato selezionato per disputare delle campestri. Ora esco da casa, vado su e giù per le colline, strade silenziose sterrate o deserte asfaltate. Se un giorno farò la Maratona di New York, mi sentirò un eroe della resistenza".

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