Moro: «Non chiedetemi di scegliere tra strada e pista. Il mio rapporto con Portello? Siamo praticamente fratelli»

Moro
Manlio Moro alla partenza del Circuito Orsago 2021. (foto: Scanferla/Photors.it)
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Un giorno, mentre era in macchina con sua madre, Manlio Moro guardò fuori dal finestrino e vide un signore che pedalava. Ne aveva già visti molti, ma quello era il primo che in qualche modo lo interessava. «Pedalare è uno sport?», chiese a sua madre. Lei gli rispose di sì, si chiamava ciclismo. Da allora sono passati più di dieci anni e Moro non ha ancora capito come mai quel giorno in lui scattò qualcosa che non era mai scattato prima.

Cosa ricordi di quel momento?

«La mia domanda, la risposta di mia madre e quel signore che pedalava. Ricordo che rimasi ipnotizzato. Ma non so perché, ormai mi sono arreso, non può esserci una risposta razionale. Posso dirti, invece, quello che il ciclismo smuove in me oggi».

Prego.

«L’adrenalina della gara, la ricerca dell’equilibrio tra rischio e incolumità, la voglia di vincere. Ma pedalare, per me, significa anche sfogarsi, svuotarsi e ricaricarsi. Se sono arrabbiato ed esco per allenarmi, una volta che torno a casa sono un po’ meno arrabbiato e un po’ meno felice».

Il ciclismo è una passione o un lavoro?

«Inizia come iniziano le passioni, col tempo diventa inevitabilmente un lavoro. Ma questo non vuol dire lasciarsi sopraffare dall’abitudine e dalla monotonia: io amo pedalare nonostante i sacrifici che devo fare. Mettiamola così, non c’è un lavoro che farei più volentieri…»

Carta d’identità: chi è Manlio Moro?

«Sono nato il 17 marzo 2002, sono friulano, sono alto un metro e novanta e peso poco meno di ottanta chili. Di scarpe porto il 45, un numero in meno di Jonathan Milan, mi hanno detto che lui porta addirittura il 46. Da quest’anno corro tra gli Under 23 con la Zalf».

Con quali aspettative?

«Di non bruciare le tappe, innanzitutto. Intanto devo ancora diplomarmi, frequento un professionale, settore legno e mobile. Poi, una volta archiviate le superiori, dovrò schiarirmi le idee: dedicarmi al 100% al ciclismo oppure iscrivermi ad Architettura».

Manlio Moro in azione durante il Trofeo Città di San Vendemiano (foto:Riccardo Scanferla – Photors.it)

Prima o poi dovrai decidere anche cosa fare con la pista.

«Di abbandonarla non se ne parla. Lo scorso anno, nonostante la stagione parziale, ho conquistato cinque campionati italiani: madison, omnium, eliminazione, inseguimento individuale e a squadre. Alle Olimpiadi di quest’anno non ho mai realmente puntato, sono troppo giovane e la concorrenza è di livello mondiale. Ma quelle di Parigi del 2024 sono un obiettivo».

Quindi Ganna è uno dei tuoi riferimenti, viste e considerate tutte queste assonanze?

«Riferimento e modello sono i termini giusti. Ganna è un campione, per il momento non sono proprio al suo livello, ma di certo è un corridore al quale mi ispiro: alterna strada e pista, nelle sue specialità è uno dei più forti al mondo in entrambe le discipline, ha dimostrato che si può vincere fin da giovani. E’ un atleta al quale guardo con interesse, senza dubbio».

Quali sono gli altri?

«Guardando oltre il ciclismo, penso a Charles Leclerc della Ferrari. E’ elegante, talentuoso e corre nella scuderia per la quale tifo. Cosa chiedere di più? Tornando al ciclismo, dico Sagan e Contador. Ma più che riferimenti, loro sono degli idoli, quasi degli eroi. Appartengono prima di tutto alla mia infanzia».

Cosa ti ha catturato di entrambi?

«Di Sagan la spensieratezza, di Contador la superiorità, la spavalderia e la confidenza che dimostrava in salita nei suoi anni migliori. Forse in lui ammiravo tutto quello che da bambino non potevo ancora vedere in me».

C’entra qualcosa la salita?

«Direi di no, mi rendo conto che si tratta del terreno della battaglia per antonomasia, ma io sono un passista veloce: reggo discretamente in salita e posso dire la mia nelle volate a ranghi ristretti. Per questo alle montagne preferisco di gran lunghe le classiche».

Quali?

«Milano-Sanremo, Giro delle Fiandre e Parigi-Roubaix. Mi piace l’atmosfera da trincea che si respira, in un attimo può succedere di tutto, si corrono soltanto una volta all’anno. La mia predisposizione a gare del genere me le fa piacere ancora di più».

Tra gli Under 23, invece, quale corsa sogni di vincere?

«Nessuna in particolare, però mi piacerebbe dominare un percorso che possa esaltare le mie caratteristiche. Non una gara piatta, dunque, ma ondulata e possibilmente con un finale veloce. Magari poter programmare eventi del genere. Io sono un maniaco della programmazione».

Per un ciclista non è un difetto?

«Temo di sì, è una questione che prima o poi dovrò affrontare seriamente. Non dico d’essere ansioso, ma quando qualcosa non va come avevo programmato mi innervosisco. Non voglio che ci sia niente di casuale, ma il ciclismo è il regno dell’imprevisto. Lui non si adatterà a me, dunque sarò io a dovermi adattare a lui».

Samuel Quaranta (Colpack) vince il Circuito di Orsago 2021 davanti a Manlio Moro (Zalf). foto: Rodella

Avrai anche qualche pregio.

«Può darsi, ogni tanto qualcuno me lo chiede ma io non so mai rispondere in maniera convincente. Più ci penso e più mi sembra di non avere pregi».

Chiederemo ad Alessio Portello, tuo compagno di squadra che pochi giorni fa a Vigasio ha centrato la prima vittoria tra i dilettanti. Vi conoscete bene, no?

«Praticamente siamo fratelli, altro che compagni di squadra. Oltre ad essere amici e a pedalare insieme, frequentiamo anche la stessa classe. E’ la persona con cui trascorro più tempo insieme. Ci conosciamo da sei o sette anni, siamo stati compagni di squadra anche tra gli juniores. Non facciamo in tempo ad uscire da scuola che ci ritroviamo insieme al pomeriggio per allenarci».

Ormai siete una coppia rodata.

«Assolutamente sì. Ora che ci penso, pedaliamo insieme anche in pista nella madison. Se continueremo di questo passo anche tra i dilettanti, ci toglieremo delle belle soddisfazioni. E’ bello avere un amico come compagno di squadra».