Un’occasione sprecata: intervista a Silvio Martinello

Silvio Martinello a ruota libera sul futuro del movimento ciclistico internazionale.

 

La ripresa della stagione è dietro l’angolo: ormai possiamo affermarlo con certezza, anche se siamo alla fine di luglio e non a quella di dicembre, anche se non sappiamo con esattezza quello che potrebbe succedere da qui a qualche mese, anche se le polemiche non sono mancate e non mancheranno. Non mancava nemmeno il tempo per provare ad ipotizzare un ciclismo diverso, a dire la verità, ma di questo non abbiamo notizie. Purtroppo, aggiungerei, se è vero che la situazione pareva critica già a cose normali, senza pandemie a complicarla ulteriormente. Proprio in virtù di quanto scritto, la tanto agognata ripartenza appare paradossale: la più attesa e la più criticata, la più cercata ma allo stesso tempo la più incerta.

©BICITV

Mi piacerebbe poter cominciare affermando che il ciclismo è quello di sempre, Silvio, ma probabilmente peccherei di ottimismo.

A meno che, nel gran segreto dei loro uffici, alcuni dirigenti non abbiano escogitato il piano del secolo: ma ne dubito fortemente anch’io, sarò sincero. Secondo me l’impressione si avvicina molto alla realtà dei fatti: non è cambiato niente, almeno fino ad ora, e temo che non si sia approfittato della fase di stallo attraversata in primavera per discutere seriamente delle criticità del movimento ciclistico internazionale. Quel che doveva arrivare, vale a dire riforme che appesantiranno sempre di più la struttura, prima o poi arriverà; è stato soltanto rimandato. Rimanere nel professionismo sarà sempre più complicato, d’altronde i team manager delle tre Professional italiane lo sostengono ormai da anni. Si continua a perseguire un’idea di ciclismo che col ciclismo ha poco a che vedere. Sento parlare molto di un ritorno alla normalità: prendendo in prestito una frase che negli ultimi mesi ha riscosso parecchio successo, direi che un ritorno alla normalità è proprio quello che dobbiamo evitare, giacché quella normalità è essa stessa il problema.

E forse, in virtù di quanto successo da marzo in poi, tornare alla normalità che conoscevamo sarà impossibile. Qualcosa dovrà pur cambiare, che a imporlo siano l’UCI o gli strascichi della pandemia. Come immagini il ciclismo che verrà?

Attenendomi alla realtà, vedo poche alternative e una scarsissima lungimiranza. Un modello ideale in mente, invece, ce l’ho. Concettualmente il World Tour mi trova d’accordo, è un’intenzione che condivido: i migliori atleti alla partenza degli eventi più importanti della stagione. Peccato che tutto ciò non si verifichi: la maggior parte dei campioni è concentrata in poche squadre, alcune corse vengono snobbate o quasi e infine ci sono troppe disparità, sia tra le World Tour e le Professional sia all’interno della stessa categoria, è sufficiente paragonare le squadre francesi e tutte le altre. Continuo a credere che diciannove licenze World Tour siano troppe: non ci sono seicento corridori di prima fascia e questa sovrabbondanza finisce per mettere in crisi gli organizzatori, che si trovano le mani legate con gli inviti, e le squadre di seconda fascia, la cui sopravvivenza è garantita proprio dalle wild card.

È come se il World Tour fosse scappato di mano, crescendo a dismisura. Seicento corridori sono troppi, dicevo, così come sono troppe tutte quelle corse che ad oggi fanno parte del circuito principale. Non può essere tutto compreso nel World Tour: oltre che rischioso e poco lungimirante, lo reputo sbagliato concettualmente e da un punto di vista tradizionale. Non possiamo permetterci la scomparsa delle Professional, a maggior ragione in questo momento che vede l’Italia senza una formazione nel World Tour. Le spagnole alla Vuelta, le francesi al Tour de France e le italiane al Giro d’Italia: se potessimo garantire un sistema del genere sarebbe tutto più semplice e le Professional riuscirebbero a sopravvivere continuando a svezzare i giovani. Ora più che mai è necessario un ridimensionamento del World Tour. Mi auguro sia l’UCI e non la pandemia a promuoverlo.

©Équipe Cycliste Groupama-FDJ, Twitter

Intanto riparte la stagione, aspetto tutt’altro che scontato almeno fino a qualche mese fa.

Assolutamente, su questo siamo tutti d’accordo. Mi rendo conto che il calendario non accontenti tutti, però allo stesso tempo credo che sia giusto accontentarsi e prendere quello che viene. Se dovessi dare un voto al programma delle gare, sarebbe un più che sufficiente. Il Giro d’Italia avrebbe potuto essere trattato meglio, evitando la concomitanza delle classiche del nord e della Vuelta. Che il Tour de France ne sia uscito immacolato non mi stupisce, è l’evento più prestigioso e importante dell’anno, ma secondo me questo non giustifica il trattamento riservato al Giro d’Italia: RCS sa benissimo di non poter competere con ASO e la Grande Boucle, dunque si trattava soltanto di tributare al Giro d’Italia tutto il rispetto che una manifestazione simile merita. Ho apprezzato il coraggio e le resistenze di RCS di fronte alla richiesta di ASO di accorciare il Giro d’Italia di una settimana: hanno combattuto e si sono fatti valere, c’era il rischio di creare un precedente, sono prove di forza che vanno avanti ormai da diverso tempo. Come ho già detto, si poteva fare meglio ma dobbiamo accontentarci: stiamo vivendo un’annata disgraziata, proviamo a portare a casa quello che si può.

Allenamenti e quarantena rispettati in maniera diversa, un clima differente, il bisogno di dimostrare di meritare un contratto anche per il prossimo anno: quali sono i fattori che influiranno di più sull’andamento e sull’esito delle corse?

Sono davvero curioso, si tratta di una situazione anomala e proprio per questo suggestiva. I fattori che hai indicato mi sembrano i più decisivi. Il caldo riguarderà perlopiù le prove del calendario italiano che sanciranno la ripartenza, mentre il maltempo rischia di pregiudicare seriamente tanto il Giro d’Italia quanto la Vuelta: ottobre e novembre non sono i due mesi migliori per salire in quota, al contrario del Tour de France che sostanzialmente si terrà comunque in estate. Se Strade Bianche, Milano-Sanremo e Giro di Lombardia verranno disputate col caldo, non si può dire altrettanto delle classiche del nord: almeno da un punto di vista climatico, affrontarle ad ottobre non dovrebbe essere così diverso dall’affrontarle ad aprile. Ci saranno bagarre, spettacolo e una dose non indifferente di stress, fare delle previsioni e dei pronostici mi sembra francamente impossibile. Ci saranno delle sorprese, questo sì: sarebbe inutile attendersi la normalità in una stagione come questa.

Eppure, a seconda di come la si guarda, più che una ripartenza sembra una falsa ripartenza. Provocazione o verità, Silvio?

Entrambe, direi, se è vero che una provocazione è efficace soltanto quando stuzzica la realtà. Non giriamoci intorno, la situazione è ancora tragica. Chi ha sottovalutato il fenomeno sta peggio dell’Italia, ma anche noi non possiamo dichiararci totalmente tranquilli. E una volta finita l’estate cosa succederà? Non lo sappiamo, molto semplicemente, e quindi non ci resta che rimanere all’erta e procedere coi piedi di piombo. Il fatto è che il ciclismo è uno sport globale, ormai, e in tante zone del mondo si continua a morire quotidianamente. Tutelare la salute degli atleti e degli addetti ai lavori è fondamentale, ma non sarà semplice. Saranno necessari i tamponi, forse addirittura dei gruppi di lavoro chiusi e fissi. Qualcuno ipotizzava un’unità mobile adibita ai controlli e ai tamponi al seguito della corsa, esattamente come funziona per l’antidoping.

La Federazione Ciclistica Italiana sta provando a fare la sua parte, stornando i costi di tesseramento e affiliazione. Sono disponibili anche dei fondi ministeriali destinati alle società dilettantistiche, ma non è semplice accedervi. L’esempio emblematico è quello delle linee guida per una ripartenza sicura: sono rigide e non poteva essere altrimenti, ma questa rigidità allo stesso tempo è un freno non indifferente. Aumentano le responsabilità e i costi, i volontari si fanno avanti con più difficoltà, ottenere i permessi necessari è quasi impossibile. Sindaci e prefetti non vogliono rischiare, se vengono rimandate o annullate le sagre di paese figurati se non succede altrettanto con delle corse ciclistiche, perlopiù riservate ai giovani. Dire di no è molto più semplice e meno rischioso, c’è poco da fare. Ripartire e uscire da questa impasse sarà molto difficile, non basta volerlo e dichiararlo.

©Giro d’Italia U23, Facebook

A proposito dei ragazzi, è stata dedicata loro l’attenzione necessaria? Al ciclismo giovanile e anche a quello femminile, direi, giacché non stiamo parlando di due movimenti di poco conto.

Non me ne voglia il ciclismo femminile, ma non mi dilungo a riguardo per un semplice motivo: le difficoltà sono le stesse che attanagliano il professionismo maschile, dunque finirei per ripetere quello che ho già detto. Il discorso è diverso, invece, per i giovani. Nella provincia di Brescia, una delle più importanti d’Italia quando si parla di ciclismo giovanile, non c’è nemmeno una corsa in programma da qui alla fine dell’anno: emblematico, no? Nel corso degli ultimi mesi ho raccolto diverse testimonianze di direttori sportivi e dirigenti preoccupati per i propri ragazzi: sono rimasti in casa e lontani dalle corse per qualche mese, la scuola ha chiuso all’improvviso e non ci sono ancora certezze sull’inizio del nuovo anno scolastico a settembre, in più è arrivata l’estate con tutte le distrazioni che naturalmente porta con sé. È normale che un adolescente voglia divertirsi, non fraintendermi: lo avrebbe voluto a cose normali e lo desidera a maggior ragione quest’anno dopo una primavera così anomala. Però i direttori sportivi hanno paura proprio di questo: dopo diversi mesi di inattività e reclusione forzata, dopo aver messo da parte più del solito la bicicletta, ci saranno ancora la passione e la motivazione per riprendere l’attività? In alcuni casi no, possiamo già immaginarlo. Auguriamoci che la tendenza generale sia positiva, che gli strascichi siano minimi.

Non si è parlato troppo poco di pista, uno spazio che mai come quest’anno avrebbe potuto ritrovare importanza e centralità? Quando non ci sono medaglie in palio ed esempi di multidisciplinarietà da sbandierare, la pista cade nel dimenticatoio.

Hai pienamente ragione, ma ormai non mi stupisco più, è sempre andata a finire così. Da anni, ormai, al settore della pista mancano materiali e operatori, pochi e non tutti formati. I problemi di sempre, insomma, con l’attività di base che rimane sempre più isolata. Non è stato fatto nulla nonostante si sapesse che si sarebbe potuti ripartire da lì, nonostante i tanti risultati che gli uomini e le donne e i loro tecnici raccolgono abitualmente. Certo che si poteva ripartire dalla pista: certo, alla lunga lo spettacolo ne avrebbe risentito, ma per una ripartenza sicura e decente la pista si prestava eccome. È un peccato, si capisce; l’ennesima occasione sprecata.

Sarà poco elegante, e sicuramente non è una delle priorità, ma prima o poi bisognerà anche riflettere sugli errori che sono stati fatti e su chi li ha commessi. Insomma, Silvio, si poteva fare qualcosa in più.

Sinceramente non mi va di gettare la croce addosso a qualcuno. Si tratta di una situazione talmente complessa, fluida e frammentaria che chiunque si trovi a fronteggiarla si riscopre impotente o quasi. È vero, chi ricopre certe cariche dev’essere consapevole delle responsabilità a cui va in contro, ma credo di poter dire che nessuno si è trovato ad invidiare coloro che negli ultimi mesi hanno dovuto prendere delle decisioni fondamentali e contrastanti. E poi, restando nel mondo dello sport, non si è potuto far altro che regolarsi in base alle normative politiche di ogni paese, alle quali ovviamente quelle sportive sono subordinate.

Mi viene in mente soltanto un appunto: considerando la mole di documenti in costante aggiornamento, si poteva pensare ad una sorta di “sportello” a disposizione di dirigenti, organizzatori e addetti ai lavori per eventuali chiarimenti. Il personale per un’attività simile sono sicuro che non sarebbe mancato. Sto pensando alla sintetizzazione e alla condensazione di tutto quel materiale politico e burocratico emanato da marzo in poi, semplicemente incomprensibile per quelle persone che lo leggono per la prima volta. Senza dimenticare che una buona parte degli addetti ai lavori non è più giovanissima, dunque non ha dimestichezza né con la tecnologia né tantomeno con la velocità dell’attualità. Sarebbe stato un servizio aggiuntivo, me ne rendo conto, ma sono convinto che in molti avrebbero apprezzato, sia per il pensiero che per l’effettivo bisogno di aiuto e chiarimenti.

La politica e lo sport hanno nuovamente incrociato le loro traiettorie pochi giorni fa, quando il ministro Spadafora ha manifestato la ferrea volontà di riformare lo sport italiano. Le sue parole, in particolare quelle che riguardavano il limite dei tre mandati per i presidenti delle varie federazioni, hanno scatenato feroci polemiche.

Ho la netta impressione che anche questa volta ci si soffermi sul dito mentre qualcuno sta indicando la luna. Di un’eventuale riforma dello sport, quello dei feudi personali di certi dirigenti non mi sembra il tema principale. È importante, certo, ma non il più importante in assoluto. Diciamo che gli organi di informazione ci marciano sopra perché è quello che si presta meglio alla polemica; a maggior ragione nel pubblico italiano, che di situazioni simili ne conosce fin troppe. Dal mio punto di vista, è il dilettantismo che deve godere della fetta d’attenzione più corposa. Il destino del settore e degli addetti ai lavori mi sembra più interessante delle sterili polemiche intorno ai soliti nomi e alle solite cariche. Forse si poteva pensarci prima, non c’era bisogno di attendere un’emergenza sanitaria, però prendo atto con interesse del fatto che la politica accende i riflettori su un’area grigia e di importanza capitale.

Tuttavia, non mi sfugge che la politica e lo sport dovrebbero rimanere distanti, autonomi l’una dall’altro. Ecco, essendo le varie federazioni degli enti privati, voglio capire in che modo e fino a che punto la politica deciderà di intervenire. Ci vuole attenzione, l’equilibrio è sottile; se questa indipendenza non dovesse essere garantita, l’Italia rischierebbe perfino di rimanere esclusa dai Giochi Olimpici. Infine, credo che generalizzare sia sempre sbagliato: se c’è un gruppo di lavoro che funziona, se un presidente e i suoi collaboratori lavorano bene, perché privarsene? È chiaro che, allo stesso tempo, ci sono tanti personaggi che pensano soltanto al proprio orto e non al futuro dell’ente o dello sport che rappresentano e tutelano.

Parli quasi come un presidente federale, Silvio. A proposito, che fine ha fatto la tua candidatura alla presidenza della Federazione Ciclistica Italiana?

Il progetto è ancora sul tavolo, è un’opportunità concreta, ma deciderò con calma. Non mi piace improvvisare, infatti sto continuando a studiare e ad aggiornarmi e a pensare con attenzione alla scelta più giusta da prendere. Le sollecitazioni sono persino aumentate e questa stima non può che farmi piacere. Anzi, mi permetto di ringraziare qui chi crede che io possa dare qualcosa di significativo al movimento ciclistico italiano. Il ciclismo, mi pare chiaro, è lo sport che amo e che mi ha dato alcune delle soddisfazioni più grandi della mia carriera. Per me sarebbe un orgoglio e un piacere poter restituire qualcosa, ma non voglio bruciare le tappe. Voglio vedere come si svilupperanno gli eventi, ho bisogno di capire ancora qualcosa. Il numero dei mandati mi lascia indifferente: i problemi del ciclismo italiano sono altri, preferisco concentrarmi su questi.

 

 

Foto in evidenza: ©Silvio Martinello, Twitter

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.