Andare alla guerra: intervista a Samuele Zoccarato

Potente e volitivo, Samuele Zoccarato torna in Italia sognando il grande salto.

 

 

Nuto, saggio amico del protagonista de “La luna e i falò” di Cesare Pavese, sosteneva che «vivere in un buco o in un palazzo è lo stesso, il sangue è rosso dappertutto, tutti vogliono essere ricchi, innamorati, far fortuna».

Samuele Zoccarato è affine a quel pensiero, o almeno così sembra chiacchierando con lui. Cerca fortuna come tutti i ragazzi della sua età, ma risulta caratteristico quando lo osservi: lungo lungo e magro, all’apparenza ancora più grande che nella realtà.

Resta fermamente convinto di voler sfondare nel professionismo, sa di avere le qualità giuste per emergere, ma prima ha bisogno di raccogliere qualcosa tra gli Under 23: «Quest’anno mi gioco una bella chance di passare di categoria ed è uno dei motivi per i quali ho scelto la Colpack Ballan, una squadra importante che mi cercava da tempo. Sarò una delle punte, loro hanno grande fiducia in me e non vedo l’ora di iniziare la stagione con l’obiettivo di andare forte nelle gare internazionali di aprile che si disputano in Italia».

Ha l’età di Pogačar e Hirschi, già protagonisti tra i professionisti, ma questo pensiero non lo turba; anzi, lo motiva a mettere sempre più forza – watt, direbbe lui – e passione in un mestiere pericoloso, ma terribilmente affascinante.

Interpreta la corsa cercando sempre di fuggire dal gruppo, come se fosse l’unica via per rendere il suo lavoro sopportabile; a volte si getta in avanscoperta in modo sopraffino, altre volte con fare quasi provocatorio. La fuga non è un contorno, ma il mezzo, uno stile peculiare di inseguire un successo importante. È il suo mondo, il suo modo: «Non mi interessa quale corsa vinco, ma come la vinco. Voglio essere ricordato per l’azione che ho fatto, voglio che la gente mi guardi e dica che sono stato forte e coraggioso. Che non sono uno che si nasconde».

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Per tirare avanti il carro con le sue idee, Zoccarato bracca la fuga in ogni momento. Dice di avere un metodo un po’ strano di allenarsi e che a volte, senza rendersene conto, costringe i suoi compagni di squadra a sforzi supplementari: «Quando mi alleno sono sempre a tutta, a blocco; noi diciamo “avere la catena in tiro”. Con la mia andatura do fastidio ai velocisti, ma mi piace correre così, alla ricerca costante dei duecento, duecento cinquanta watt anche in discesa. In gara, poi, pronti via e cerco la fuga. Su che terreno? Salita, pianura, falsopiano: non importa, basta stare davanti».

A parlare con Zoccarato sembra di avere di fronte un sognatore che ti risponde con fare quasi disincantato, ma in realtà è un tipo tosto, concreto. Per lui essere ciclista significa non avere paura di affrontare le corse, superare i limiti, lanciarsi davanti anche se c’è vento. Le corse del Nord lo affascinano per questo motivo, anche se da quelle parti non ha gareggiato moltissimo; ma quando è stato chiamato ad affrontarle, ha sempre trovato qualcosa da portare con sé. «Mi piace correre al Nord, sono corse dove non puoi nasconderti: se ne hai getti la maschera, se non ne hai ti fai da parte».

Quando va giù a picco, si rialza. Si definisce un guerrafondaio, che in inglese suona ancora meglio: “warmonger“. Gli piacciono quei corridori che lasciano il segno a modo loro, che poi è anche il suo; corridori che hanno watt – insiste spesso su questa parola – da spendere: De Marchi, De Gendt e Tim Wellens, i suoi preferiti. Nelle scorse ore, un brutto incidente in allenamento gli è costata la frattura della clavicola, ma è difficile immaginarselo arrendevole: uno così te lo dovresti portare sempre a fianco, qualsiasi fosse la battaglia da combattere.

Quando può, incendia la corsa; da lontano o da vicino, basta essere protagonisti. Un paio di volte gli è andata bene: Coppa Primo Maggio 2018, prima vittoria da Under 23, parte a sei chilometri dall’arrivo e non lo raggiungono più. E poi il successo più prestigioso, nella Coppa d’Oro, quello stesso anno. Una gara internazionale di un certo peso, insomma. «Sono stato tutto il giorno davanti, ho vinto come piace a me, e battendo mica uno qualsiasi: il francese Champoussin. Pochi giorni dopo avrebbe chiuso dodicesimo al Mondiale di Innsbruck».

Poi, quando ha provato a snaturarsi, ha capito che aveva poco senso: ognuno è quello che è, inutile andare a incaponirsi seguendo sentieri mai battuti: «Alla Coppa d’Oro 2019 ho cercato di correre con un po’ più di giudizio, ma mi è mancato qualcosa nel finale per scollinare con i migliori».

©Samuele Zoccarato, facebook

La vittoria nel 2018, invece, gli dà la consapevolezza giusta: va a cercar fortuna all’estero, proprio come Anguilla nel breve romanzo di Pavese. Quell’esperienza ha lasciato un sapore agrodolce in bocca; lo ha fatto crescere, è vero, il suo motore si è affinato, ha imparato una nuova lingua, ha avuto un approccio con una nuova cultura, ma ammette che non è stato un matrimonio perfetto. «Alla IAM ho trovato un team professionale sotto ogni aspetto che mi ha permesso di fare un calendario importante; ho imparato aspetti differenti di una nuova cultura e ho migliorato il mio inglese, però le cose non sono andate per il verso giusto a livello professionale: speravo mi desse il lancio per diventare professionista, ma sono stato frenato da troppi problemi fisici».

Amante dei bigoli alla carbonara, rigorosamente cucinati da sua madre e «rigorosamente con le uova di casa», Zoccarato ha una sua idea su come mangiano i colleghi con cui corre durante la stagione. «Molti si alimentano in modo assurdo, insensato. A parte il porridge prima delle gare, ci può anche stare, vedo ragazzi che mangiano troppo rispetto a quello di cui hanno bisogno e alla loro stazza. Tante volte mi trovo a pensare: come fa a starci tutta quella roba in un ragazzo di nemmeno cinquanta chili? E poi ho visto mischiare dolce e salato, pasta con il miele, con la marmellata e con la Nutella. Birra prima di cena e vino a cena. Ho visto gente mangiare persino la verdura a colazione».

Vive ad Arseno di San Giorgio delle Pertiche ed è nato a Camposampiero, ma in realtà è come se fosse venuto al mondo su una bicicletta. «Ho iniziato a correre prima ancora del G1, io lo chiamo G0». Ed è per questo che gli viene difficile immaginare di fare altro. «Mi sono iscritto a Ingegneria Meccatronica, ma ho dovuto lasciare per via del ciclismo: non facevo bene né una cosa né l’altra». Lo incalzo, gli dico che ha scelto un indirizzo complicato: «Se una cosa ti piace, la fai», mi risponde schietto. Tipo concreto, altro che sognatore, lo avevamo detto.

 

 

Foto in evidenza: ©Samuele Zoccarato, Facebook

Alessandro Autieri

Alessandro Autieri

Webmaster, Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. Doppia di due lustri in vecchiaia i suoi compagni di viaggio e vorrebbe avere tempo per scrivere di più. Pensa che Mathieu Van der Poel e Wout Van Aert siano la cosa migliore successa al ciclismo da tanti anni a questa parte.