La lezione del fango: intervista ad Alice Maria Arzuffi

Alice Maria Arzuffi è uno dei nomi più interessanti del ciclismo femminile.

 

 

C’è una domanda a cui Alice Maria Arzuffi non sa rispondere. È quella rivoltale dalle compagne: “Come fai ad andare in bici così, tutta sporca di fango?”. Le viene istintivo spiegare la naturalezza con la quale spinge restando in sella, affondando le ruote nel terreno fangoso, intriso dell’odore di patatine fritte che spopolano nelle prove di cross in Belgio. Quelle in cui “quando togli i vestiti e le scarpe per lavarli, vedi uscire la sabbia, perché il fango del Belgio è sabbia, in sostanza”.

Questo però non spiega tutto, o almeno non spiega quella sensazione di piacere che Arzuffi associa alle gare di ciclocross. Per spiegare quella, bisogna tornare all’origine: “Sono sempre stata una bambina che amava sporcarsi le mani: nella farina, negli impasti, al doposcuola persino con l’argilla. Quando pitturavamo e avanzavano le tempere mi piaceva mescolarle, poi intingerci le mani, magari lasciare le impronte sul muro, come feci una volta a casa di un’amica”.

Si capisce persino come Arzuffi possa dire che “c’è qualcosa di speciale nel fango”. Il fango è corporeità, materialità, tangibilità. Le settimane di allenamento per “stare bene” nel fango spaziano dagli esercizi in palestra, alla corsa e alle pedalate nella terra. Una varietà che ad Alice Maria Arzuffi fa bene, tanto da farle dire che talvolta l’inverno le manca.

©Portage

Questo continuo cambiare serve probabilmente anche per nutrire quella leggera ansia che la porta a cercare di impegnare ogni singolo istante, programmando tutto nei minimi dettagli. Una sorta di motore, l’ansia. All’obiezione di chi sostiene che non sia possibile, ma neppure corretto, vivere sempre così, all’estremo, ribatte citando le parole del suo primo direttore sportivo, Daniele Fiorin: “Ci ha sempre detto che la vita del ciclista non durerà per sempre, che neppure tutti i sacrifici che facciamo oggi dureranno per sempre. La nostra carriera è breve. Quando sento che sto per mollare la presa, penso alle sue parole e mi dico di tener duro, che non sarà sempre così”.

Un giuramento prestato al proprio lavoro. E pensare che Alice Maria Arzuffi da bambina non immaginava nemmeno la presenza stabile della bicicletta nel suo futuro: sino a non molti anni fa non seguiva neppure il ciclismo in televisione. Danzava, nuotava e avrebbe voluto imparare ad andare a cavallo. In questo assomiglia da sempre alla collega Eva Lechner, che racconta di come, in fondo, lo stare a cavallo sia quanto di più simile allo stare in bici.

Al ciclismo, però, Alice arriva per puro caso. La madre vuole che pratichi uno sport ma non l’equitazione. Così, quando la cugina Maria Giulia Confalonieri inizia a muovere i primi passi nel mondo del ciclismo, la incita a seguirla: “All’inizio ero proprio scarsa, va detto. Non mi allenavo molto, solo al sabato a dire il vero. Ricordo la mia bicicletta da Fiorin: fucsia, pesantissima, con ancora le gabbiette per i pedali. Vivevo malissimo le gare, faticavo a stare attaccata al gruppo”.

Oggi racconta come la sua zona, quella di Seregno, sia in realtà un ottimo luogo per gli allenamenti: “Se ci si sposta tra Lecco e Como si ha la possibilità di sperimentare percorsi sempre diversi per oltre un mese”. In quegli anni, del resto, la bicicletta è uno svago: la priorità sono gli studi e il diploma al liceo artistico. Sarà per qualche reminiscenza scolastica se oggi, parlando di ciclismo, lo associa al futurismo e ad alcune opere di Giacomo Balla: qualcosa di caotico, di fragoroso, di rumoroso e confuso. Nel frattempo, tante specialità sperimentate e la prima grande soddisfazione: la vittoria al campionato italiano esordienti primo anno, proprio l’anno successivo a quella di Maria Giulia. Quel campionato italiano che “per i ragazzi e le ragazze di Fiorin era come un Mondiale, tanto era sentito”.

©Chiara Redaschi

Dopo il diploma è la razionalità a prevalere: “Avevo le idee chiare: un anno di solo ciclismo per capire se effettivamente sarebbe potuto diventare il mio lavoro. Altrimenti, voltare pagina. In quell’anno sono iniziate ad arrivare le prime soddisfazioni e ho deciso di continuare. La reale consapevolezza di ciò che il ciclismo poteva essere per me l’ho avuta, però, solo entrando nelle Fiamme Oro”. Una concretezza che si fa plastica in quella chiosa: “C’è poco da fare, per vivere il denaro serve”.

Alice Maria Arzuffi crede che al ciclismo femminile servirebbero più sponsor e più visibilità, pur riconoscendo che dal suo passaggio nelle élite ad oggi ci siano stati notevoli passi avanti: il livello si è alzato e anche l’organizzazione delle gare è migliorata. Apprezza il tentativo degli organizzatori di abbinare le gare femminili a quelle maschili: “È una scelta che non può che far bene. Quando la televisione trasmette le nostre gare le persone si appassionano. Certo che se nessuno offre visibilità il pubblico non può conoscere”.

Se c’è una cosa di cui, invece, si rimprovera particolarmente è una mente troppo attiva che spesso influisce negativamente sulle sue prestazioni: “Rifletto molto su ogni cosa. Macino di continuo. In un certo senso mi tormento: fatico a farmi scivolare addosso ciò che mi accade e così ci soffro. Sgombrare la mente è importante, in gara come nella quotidianità. La partenza alle gare di ciclocross è un attimo di tensione estrema. Per buttarti nella mischia e prendere la posizione, entrando in curva davanti, devi essere serena”. Da questo punto di vista sostiene di aver da imparare da Maria Giulia Confalonieri: una consapevolezza di ciò che si è e ciò che si fa che ancora le manca, nonostante la sua capacità di rimanere concentrata sia un esempio per tutte le colleghe.

©Valcar Cylance Cycling, Twitter

Basti pensare che, malgrado il crescendo di risultati che l’ha accompagnata al Superprestige di Boom, lo scorso 19 ottobre, al mattino, vedendo il percorso, erano più le perplessità delle sicurezze: “Pioveva ininterrottamente da due giorni. Io l’anno scorso avevo fatto seconda ma su un terreno completamente asciutto. Quando ho visto le condizioni del percorso, nonostante stessi bene, sono rimasta abbastanza perplessa. Non sono partita convinta, ecco”.

Arzuffi definisce quel sabato “qualcosa di eccezionale” ma non parla solo di sé, pensa anche alla cugina che nello stesso giorno ha vinto ad Apeldoorn il titolo europeo in pista nella gara a punti: “Credo che sia una storia da raccontare. Due cugine che vincono prove importanti, nello stesso giorno, nella stessa nazione ma in gare così diverse. Quando mai ricapita? Alla sera, quando ho acceso il telefono, era letteralmente imballato dai messaggi delle nostri madri e delle nostre famiglie che, da casa, commentavano le gare scambiandosi pareri”.

La famiglia è un punto di riferimento imprescindibile per Alice: “Il nostro lavoro porta a viaggiare molto, spesso si è lontani da casa. Si vedono, o meglio intravedono, posti stupendi, in cui vorresti tornare: penso all’Australia, alla sua natura rigogliosa e alle innovazioni tecnologiche fiorenti, o a Tokyo; si sperimentano cucine diverse e magari ci si appassiona alla cucina etnica. Ma si è distanti dagli affetti. Io non sono mai stata troppo attaccata ai miei familiari, so essere indipendente, però ho un bellissimo rapporto con loro: so che i miei genitori e mia sorella ci sono. Anche se non li vedo, anche se sono dall’altra parte del mondo. Questo è impagabile. Mia sorella Allegra, tra l’altro, l’anno scorso ha corso in Valcar, è stata con me in Belgio. Segue il ciclismo. Questa passione ci unisce. Il mio è un lavoro, l’ho scelto io e devo farmi carico di ogni suo aspetto”.

In quella famiglia è entrato “come un secondo padre o come uno zio” anche il suo preparatore, Davide Arzeni. Un rapporto lavorativo che dura da oltre nove anni che ad oggi è evoluto in una conoscenza profonda: “Sono stata la prima ragazza che Davide ha preparato. Lui è molto bravo a far emergere il meglio in ciascuna di noi: ci ascolta sempre e solo dopo decide. Ci troviamo talmente bene assieme che abbiamo anche condiviso qualche concerto; ascoltiamo entrambi Renato Zero, anche se lui, devo dirlo, è abbastanza retrò come gusti musicali”.

©Geof Sheppard, Wikipedia

In gruppo Arzuffi stima molto Marianne Vos: “È una fuoriclasse. L’emblema della multidisciplinarietà. Una donna umile: l’anno scorso, dopo alcuni risultati positivi nelle gare in Belgio, è stata una delle prime colleghe a venire a complimentarsi. Fa piacere”. Si dice, inoltre, orgogliosa di avere come compagna nelle Fiamme Oro Elisa Longo Borghini: “Ho fatto qualche ritiro con lei: la parola d’ordine è ‘a blocco’”. Fra i colleghi maschi, invece, apprezza Zdeněk Štybar, per inventiva e fantasia – anch’egli uomo di terra e fango.

Lei che è scalatrice ha due salite come punti di riferimento: Torri di Fraele, per averla sperimentata al Giro Rosa, e lo Stelvio per l’epica delle sue strade. Spiega che la fuga, nel ciclismo, ha qualcosa di molto simile alla scalata di una montagna. All’inizio la sensazione che prevale è un senso di impossibilità, bisogna essere bravi a resistere in quei momenti perché è una sensazione solo transitoria. Se si riesce a tenere il passo, la fatica si fa più sopportabile. Ricorda ciò che dice un libro che l’ha molto colpita: Il Segreto. Non bisogna programmare pensando “vincerò una gara”. Bisogna partire pensando di provare a vincere la gara che si sta correndo, quella gara. Magari non si vince e si vince la gara successiva, ma non importa, il pensiero deve essere quello.

Lo stesso discorso Arzuffi lo ripete parlando delle gare a tappe: “Quando sei al Giro Rosa e dopo due giorni salta il tuo obiettivo, è molto difficile proseguire. D’altra parte cosa si può fare? La tua carriera non finisce lì. Analizzi l’accaduto e riparti. Fosse anche solo per un traguardo parziale. Mai fossilizzarsi”.  La discesa, nel suo racconto, è tecnica e velocità. La volata, timore: “Cerco di aiutare le mie compagne ma fino ad un certo punto. Ci sono momenti della volata in cui ho davvero il timore di essere un pericolo per le altre ragazze: in quei casi è meglio stare nelle retrovie”.

Le piace correre con il freddo, diversamente non potrebbe fare così bene nel cross, ma detesta la pioggia in gara. Con il tempo, ci confessa, è cambiato anche il suo rapporto con la bicicletta intesa come mezzo: “Quando si è giovani e si ha una sola bici, la si tratta quasi come una reliquia. Sai che se la sporchi, non la curi o la rovini, sarà condizionato il tuo andamento in gara. Noi adesso abbiamo biciclette per ogni specialità: le mie da cross, ad esempio, restano in Belgio, le altre le ha la squadra ed io ho la mia da allenamento. Questo cambia la percezione e magari si dedicano meno attenzioni al mezzo in quanto tale, ma devo dire che ripenso con molta tenerezza ai primi tempi”.

Marianne Vos, uno degli inevitabili riferimenti per Alice Maria Arzuffi. ©Vita Sportiva, Twitter

Quando non corre in bicicletta o ha ritagli di tempo alle gare si dedica al cinema. Preferisce le storie narrate con immagini su una pellicola che con parole su un foglio di carta. Questa scelta ne plasma anche il modo di porsi: occhi attenti fissati sull’interlocutore, sorriso e gestualità accentuata delle mani, quasi a voler disegnare un contorno alla narrazione. La concretezza e la razionalità che pervadono ogni affermazione di Alice Maria Arzuffi sono anche lo sfondo alle parole per descrivere il suo rapporto con i tifosi.

“In Belgio, in particolare, il tifo è meraviglioso. Quando sei in gara magari non lo noti, ma quando fai il giro di prova sul percorso quasi ti commuovi vedendo quanta gente c’è. Che si parli di Giro delle Fiandre, di Patersberg, Koppenberg o di un percorso di cross. Non a caso una delle mie gare preferite è il Superprestige di Gavere, nelle Fiandre, appunto. I tifosi sono energia allo stato puro. Cerco di dedicarmi il più possibile a loro e di rispondere ad ogni messaggio. Allo stesso tempo però voglio che siano chiari e ben distinti i due lati della mia persona: quello pubblico e quello privato. Purtroppo in certi casi si fatica a far comprendere questa cosa. Se scrivessi al mio idolo sportivo e mi rispondesse sarei contentissima, ma ciò non toglie che bisogna rispettare la vita privata di ciascuno. Non bisogna essere insistenti”.

La stessa insistenza che invece è un pilastro della sua condotta in sella: “Si dice spesso che nella vita nulla viene regalato e che ogni cosa ottenuta è frutto di sacrifici ed impegno. Bene. L’ho sempre saputo e ci ho sempre creduto, ma da quando pedalo questo è diventato l’insegnamento principale. Nella vita bisogna mettercela tutta per ciò in cui si crede ed apprezzare chi raggiunge il proprio traguardo. Quando vedo una compagna vincere, conosco l’impegno che c’è dietro. Per questo applaudo più forte. La consapevolezza dei nostri sacrifici è la base per capire i sacrifici degli altri”.

©Veldritkrant, Twitter

C’è della bellezza nello sguardo al futuro di questa venticinquenne. Una sorta di consapevolezza primigenia di quanto la vita possa offrire giù dalla sella e di quanto quelle cose possano essere ancor più belle e soddisfacenti di quelle raccolte in sella. La stessa che la fa esordire dicendo: “Il sogno di tutti è un Mondiale. Anche il mio. La maglia iridata prescinde dal percorso, vorresti vincerla e dai l’anima sempre, anche se il percorso non ti si addice. Il mio traguardo è quello. Spero comunque di raccogliere il frutto del lavoro che sto facendo ora. Di continuare la mia realizzazione in questo mondo, insomma”.

E poi, a distanza di qualche secondo: “In ogni caso, se penso al futuro e penso a ciò che vorrei, la prima cosa che mi viene in mente è una casa in cui abitiamo io, mio marito e i nostri bambini”. Perché, nonostante tutto, la vita è ben altro dal ciclismo, anche se il ciclismo per qualche periodo può combaciare con la vita. Questo Alice Maria Arzuffi lo sa bene ed in ogni caso sarà la sua salvezza.

 

 

Foto in evidenza: ©Chiara Redaschi

Stefano Zago

Stefano Zago

Redattore e inviato di http://www.direttaciclismo.it/