CUNEGO. «Un futuro da costruire»

PROFESSIONISTI | 28/02/2016 | 08:19
In vino veritas, sostenevano i latini. Nel vino è la verità. Cosa cen­tra questo con Damiano Cune­go, vino novello del ciclismo italiano che a soli 22 anni vinse un Giro d’Italia da urlo e di sé lasciò presagire un futuro semplicemente radioso? Cen­tra per il semplice fatto che og­gi il corridore veronese da vino novello è in­vec­chiato bene ma non benissimo. Il vitigno era senz’altro di quello buono, ma l’annata 2004 è e resta irripetibile. «Combinazioni magiche...», dice lui che viene da una terra che del vino fa la propria cifra distintiva. E poi il vino centra perché, dopo dieci anni alla corte della Lampre di Beppe Saronni, da un anno è passato a difendere i colori di una squadra nippo-italiana. La Nippo Vini Fantini è un connubio tra un colosso giapponese (la Nip­po costruisce strade e ponti: 3 miliardi di euro di fatturato e duemila dipendenti, dnr) e una delle più belle realtà vinicole del Belpaese. E da quando Cunego è passato alla corte del team abruzzese diretto da Francesco Pelosi, il «Piccolo Principe» anche caratterialmente è cam­­biato. Si è aperto, si è liberato dai tanti fantasmi che spesso lo tormentavano e lo rendevano riservato e schivo. Ora Cunego - un Giro, tre Lombardia e un’Amstel a risplendere nel suo palmares - ha il volto di sempre: quello di un ragazzino che a settembre compirà 35 anni. Ma i suoi occhi, il suo sorriso e soprattutto il suo modo di porsi con gli altri hanno una nuova angolatura, una nuova luce.

Merito del vino?
«Merito di una squadra che mi ha dato una scossa, più che del vino: nonostante io corra per un’ottima azienda vini­cola, bevo pochissimo. Diciamo che so­no più un degustatore: amo bagnarmi le labbra, ma poco di più. In ogni caso non sono più un ragazzino. S’invec­chia, o meglio, si matura e anch’io pen­so di essere cresciuto. Prima ero molto più diffidente, faticavo a lasciarmi an­dare, temevo sempre che dietro ad una domanda o una richiesta ci fosse chissà che cosa. Ora però ho imparato a riconoscere le persone serie da quelle che non lo sono, gli amici dai falsi amici. E in questa squadra, piccola e piena di giovani, mi sento molto a mio agio. Mi piace stare con loro, insegnare il me­stie­re, ma anche imparare perché, co­me diceva il grande Eduardo, gli esami non finiscono mai…».

A proposito di esami, un anno fa hai in­trapreso la carriera universitaria: facoltà di scienze motorie a Verona. Come va?
«Studio, frequento un pochino, ma ho rallentato un po’ perché se si vuole far bene il mio mestiere, e poi quello di papà (Damiano ha due figli, ndr) e marito, di tempo non te ne rimane tan­to. Diciamo che in questa fase sono più portato a rubare il mestiere a Gianni Tendola, il nostro preparatore: è una persona in gamba, con il quale è piacevolissimo confrontarsi e misurarsi. Io l’esperienza, quest’anno per me sarà la stagione numero 15, lui la scienza, il sapere, affinato in tanti anni di attività nel ciclismo».

Torniamo alla tua attività primaria, quella di corridore: come è stata la prima stagione alla Fantini?
«Molto buona, perché ho trovato un ambiente eccezionale, una vera e propria famiglia. Non che alla Lampre di Saronni non mi sia trovato bene, ma forse dopo dieci anni dovevo cambiare aria non tanto per loro, ma per me. Avevo bisogno di una scossa. Dovevo darmi una mossa. Me la sono data e sono contento. Ho ritrovato continuità, anche se non ho centrato la vittoria, che mi manca però da troppo tempo, esattamente dalla Coppi & Bartali del 2013. Sono stato anche un po’ sfortunato, alcune corse mi sono sfuggite per un niente, come l’Appenino, una tappa e la classifica della Coppi & Bartali, oppure l’Emilia. In Coppa Italia sono arrivato primo a pari merito con Col­brelli, l’ho persa solo perché Sonny ave­va vinto qualche corsa e io no. Poi al Giro d’Italia stavo anche andando benino, ma sul più bello sono caduto, spaccandomi la clavicola. Come ti ho detto, ho raccolto tanti piazzamenti e la vittoria mi è sempre sfuggita per un niente, ora però voglio pensare alla nuova stagione. Meno piazzamenti e più vittorie. Sento che si può fare».

Cosa pensi quando ti rimproverano di non aver mantenuto le attese?…
«Ho vinto il Giro nel 2004, ero giovanissimo. Forse pensavano e pensavate che avrei fatto incetta di Giri e Tour. Purtroppo io sono un corridore completo che se la cava su tutti i terreni ma non è specializzato in niente. Posso vincere una grande classica, come mi è successo, ma posso an­che fare bene nei Grandi Giri, do­ve però ci sono specialisti molto più dotati di me. Io forse appartengo ad una categoria di ciclisti che oggi non c’è più. Quella che corre tutto l’anno, da febbraio ad ottobre e cerca di dare il meglio di sé in ogni corsa».

Cosa ti piacerebbe fare da grande?
«Intanto sono in scadenza di contratto e mi piacerebbe strappare alla fine di questa stagione una riconferma di al­meno due anni. Mi piace molto questo team, la sua filosofia, la struttura che Pelosi e patron Valentino Sciotti hanno dato a questa squadra. Vorrei insegnare ai giovani e poi diventare allenatore: è una materia che mi piace molto. Per farla ci vogliono conoscenza, esperienza, volontà, rigore e passione. Beh, mi manca solo la conoscenza: per questo vado all’Università. E ti assicuro che non è facile andare a scuola con ragazzi che hanno vent’anni: sono freschi delle scuole superiori. Sono di un’altra categoria. Per il momento penso a correre, ma mi sto attrezzando per poter fare una bella carriera anche quando avrò smesso di pedalare. Guar­da il cammino fatto da Ivan Bas­so: da corridore a dirigente. È bravo. Per me è un modello. Nonostante quello che qualche tuo collega ha scritto in passato, Ivan ed io siamo stati sempre buoni amici: tra me e lui c’è sempre grande considerazione».

Dannati giornalisti…
«È così, alcuni scrivono senza conoscere le persone e le cose. Prendi la vicenda di me e Gibo Simoni…».

Non dirmi che siete amici?
«Non ci vado a cena o in vacanza, ma ci sentiamo e dopo quel Giro del 2004, quando correvamo per la stessa squadra (la Saeco, ndr) e vinsi il Giro io e non lui, i nostri rapporti sono migliorati e di molto. Sai che quando è nata Ludovica e poi è arrivato Cristian il Gibo mi ha anche passato giocattoli dei suoi bimbi? È una persona squisita».

Chi sono i tuoi migliori amici in gruppo?
«Guarda, io vado davvero d’accordo con tutti. Sono fatto alla mia ma­niera: se c’è un problema lo affronto e cer­co di ripianarlo subito. Certo, con Leo Bertagnolli, Matteo Bono, Diego Ulis­si, Rui Costa, Valerio Conti tanto per fare qualche nome mi sento spesso, ho un ottimo rapporto con loro. Di tanto in tanto sento anche lo stesso Sa­ronni, al quale non potrò mai finire di dir­e grazie. E poi ho un ottimo rapporto con il mio vecchio direttore sportivo, Bep­pe Martinelli: mi piace confrontarmi con lui. Ma sento anche con Tira­lon­go, Aru, e Vincenzo (Nibali, ndr). Insomma, oggi sono un pochino più chiacchierone».

Sicuro che il vino non c’entra…
«No, te lo assicuro».

Cosa chiedi al 2016?
«Mi piacerebbe tornare a vincere al Gi­ro d’Italia: almeno una tappa. Poi correrò qualche classica del Nord. E an­che la Coppa Italia m’interessa parecchio, soprattutto quella a squadre».

Tanti i giovani in squadra: su chi dobbiamo puntare?
«Su tutti, perché è un gruppo di giovani davvero interessanti. Lo scorso anno erano molto inesperti, quest’anno do­vranno mettere a frutto quello che han­no imparato. Io sono molto fiducioso. Tra gli atleti di casa nostra vi se­gnalo Berlato, Zilioli e Marini. Giova­ne ma non italiano è Grosu, un rumeno che in volata può davvero fare grandi cose. E anche Antonio Nibali, vedrete, sarà una bella sorpresa. L’importante è che non dormano…».

A proposito di dormire: cosa ne pensi del problema dei sonniferi? Hai letto cosa ha detto qualche settimana fa il dottor Mas­simo Besnati della Katusha in merito all’uso e secondo lui abuso di sonniferi?
«So che qualche corridore ne fa uso, ma da qui a parlare di emergenza ce ne corre... Certo, nel ciclismo di oggi c’è sempre meno tempo per riposarsi e lo stress è tanto, ma francamente credo che non sia il caso di esagerare».

Dopo sette anni, l’inchiesta di Mantova, che ti vedeva sul banco degli imputati con tanti altri componenti della Lampre, si è chiusa con una assoluzione piena: come hai vissuto questa espe­rien­za?
«Se proprio te lo de­vo dire con grande di­­sa­gio. Io mi so­no sempre di­chia­­rato estraneo, e i fatti mi hanno dato ra­gio­ne. Il Pm Con­do­relli, che aveva co­struito l’impianto accusatorio ha chiesto lui stesso l’assoluzione per me, per Saronni e per tanti altri atleti e tecnici coinvolti, ma sei anni di campagna mediatica non propriamente favorevole sono stati duri da affrontare e non posso dire che mi abbiano fatto piacere. Non è bello finire sui giornali con quelle accuse addosso. In ogni caso ne sono uscito a te­sta alta, e questa è la vittoria più bella, quella che più desideravo, e che vale un bel brindisi». Prosit.

Pier Augusto Stagi, da tuttoBICI di febbraio
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